Alla brutalità e voracità del capitale i salariati cinesi oppongono determinazione e potenza di classe

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A Dongguan, una delle “Quattro Tigri” del Guandong nel S-E della Cina, sono scesi in sciopero decine di migliaia di lavoratori cinesi della fabbrica di calzature Yue Yuen, di proprietà taiwanese, una delle maggiori a livello mondiale che fornisce la maggior parte dei grandi marchi internazionali, come Adidas, Asics, Crocs, New Balance, Nike, Puma, Reebok e Timberland. La lotta dei 70 000 salariati di Yue Yuen è iniziata il 5 aprile. È stata preparata anche organizzando gruppi di twitter online (chiamati QQ), in continuo ampliamento, nonostante le autorità avessero imposto la chiusura del primo di essi.
È una delle maggiori lotte operaie della storia recente in Cina, ed è tuttora in corso. Se riuscirà a conseguire i suoi obiettivi rappresenterà un importante precedente per le vertenze di gran parte dei salariati cinesi.

Le loro richieste:

  1. Informazione trasparente sulla situazione dei contributi previdenziali.
  2. Pagamento della previdenza sociale, anche arretrata. Questi lavoratori sono per la maggior parte immigrati da altre province e, per la legge, non potevano finora trasferire la previdenza sociale dalla provincia di provenienza, a meno che non versassero un supplemento. Il mancato o contestato pagamento della previdenza sociale è un problema per la maggior parte dei salariati cinesi deprivati di una serie di servizi sociali da sanità a educazione, alloggi precedentemente riconosciuti dalle riforme introdotte nel 1978 da Deng Xiao Ping per rendere più competitivo sul mercato mondiale il capitalismo cinese.
  3. Pagamento dei sussidi per gli alloggi popolari.
  4. Se l’azienda rifiuta il pagamento degli arretrati previdenziali, possibilità di risolvere il rapporto di lavoro e richiedere un risarcimento.
  5. Pasti e alloggi gratuiti previsti dal contratto, non riconosciuti ad una parte dei lavoratori.

La proprietà di Yue Yuen ha finora sostanzialmente respinto le rivendicazioni operaie, limitandosi ad offrire di siglare nuovi contratti dal 1° Maggio.
Al rifiuto padronale e alla chiusura dei negoziati i lavoratori hanno risposto con una azione imponente. Martedì 15 aprile circa 40 000 gli scioperanti, che hanno formato un enorme corteo verso il municipio. Sono stati aggrediti da centinaia di poliziotti armati di manganelli. Decine gli arrestati, alcuni feriti.

In Cina si parla di circa 1 miliardo di proletari, che lavorano in officine, laboratori, fabbriche, agricoltura per un salario di mera sussistenza, mediamente di 1200 yuan (€140,78) e un orario che può raggiungere le 60 ore a settimana, condizioni e ritmi di lavoro spesso insostenibili, e mancanza di sicurezza, nelle miniere di carbone in particolare che, nonostante il calo dovuto a minore domanda, nel solo 2013 ha prodotto 598 incidenti e 1 049 vittime.

È del giugno 2013 la notizia di un operaio 14enne morto per troppo lavoro (fenomeno chiamato guolaosi). Lavorava 12 ore al giorno in catena di montaggio di una fabbrica di componenti elettronici per colossi come Sony, Canon e Samsung. Nel 2010 ci sono stati oltre 20 casi di suicidio nell’azienda taiwanese Foxconn. Secondo uno studio dell’agenzia di stampa governativa Xinhua, la Cina è al primo posto nel mondo per stress da lavoro: circa 600 mila decessi l’anno.

La descrizione delle condizioni di vita e di lavoro del proletariato cinese ci riporta a quelle vissute agli albori del capitalismo in Europa, oltre due secoli fa, condizioni riprodotte oggi nei paesi emergenti su scala moltiplicata, dato che qui il capitalismo percorre in modo accelerato le tappe del suo sviluppo per stare alla pari e superare gli avversari.

Ma, come la scienza marxista ci insegna, assieme allo sviluppo del Capitale si sviluppa anche la forza sociale antagonista, il proletariato, che per sopravvivere alle condizioni che la classe dominante gli impone si trova costretto a lottare e ad organizzarsi per farlo alla meglio.
Il China Labour Bulletin (10.04.2014) riferisce che, dal capodanno lunare dei primi di febbraio, sono aumentati in Cina gli scioperi e le proteste operaie, 119 casi nel solo marzo; 202 le lotte nel primo trimestre 2014, +31% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.

Benché i media si concentrino sui conflitti che riguardano i maggiori gruppi economici esteri, come Walmart o IBM, il movimento di lotta sarebbe in realtà diffuso, con una base che va allargandosi, ricopre buona parte del paese, e investe un ampio arco di settori economici. II manifatturiero continua ad essere il settore principale dei conflitti di lavoro, con il 35% di tutti gli scioperi e proteste nel primo trimestre 2014, concentrati nelle provincie costiere del S-E, in particolare nel Guandong con il 55% di tutti gli scioperi di fabbrica di questo trimestre.

La inevitabilità “fisiologica” e storica delle lotte dei salariati cinesi li costringe a rivendicare la libertà di creare vere organizzazioni di difesa economica. L’esistente Confederazione dei sindacati cinesi (All China Federation of Trade Unions) – che rappresenta 169 sindacati di settore – è in realtà un mero organismo di controllo dello Stato che non consente loro neppure di negoziare contratti collettivi.

Dalle lotte e dalla loro organizzazione, e purtroppo anche dalla loro repressione spesso violenta, il proletariato cinese sta senz’altro traendo lezioni politiche e sviluppando una coscienza di classe. Non sappiamo invece quale sia la sua situazione dal punto di vista dell’organizzazione politica di classe, se e dove si stia sviluppando. Ci auguriamo che sia in cammino e di poterci ad essa collegare.