BORGHESEXIT: PER GLI STATI UNITI SOCIALISTI D’EUROPA DA REYKJAVIK AD ANKARA!

Pubblichiamo la traduzione di un articolo pubblicato da Initiative Communiste Ouvrière, a firma di Camille Boudjak

La vittoria della “Brexit” in Gran Bretagna ha fatto scorrere molto inchiostro. Gli ambienti nazionalisti di sinistra, ci vedono, tra l’altro, una “vittoria contro l’austerità”, se non addirittura una “vittoria sulla borghesia”.

Da più anni ormai, molti di essi denunciano regolarmente l’Unione Europea, l’euro, i criteri di Maastricht, et. come fonte di tutti i mali, e conducono una campagna per il ritiro dall’Unione Europea, giocando a volte anche con i sentimenti sciovinisti più fetidi e pericolosi per l’unità della classe operaia.

Tornando alla Brexit

Innanzitutto non ci si deve cullare nelle illusioni, come accadde dopo il 2005 quando alcuni celebravano una “vittoria del NO di sinistra” in Francia. Nel 2005 si doveva essere ben abili per riuscire a distinguere tra i voti del “no di destra” dai “no di sinistra”. Una parte della sinistra e anche dell’estrema sinistra ha certamente fatto campagna per il “NO”, ma lo hanno fatto anche reazionari come Le Pen, Pasqua o De Villiers. In Gran Bretagna, se gruppi di estrema sinistra hanno fatto campagna per un “Leftxit” (un Brexit di sinistra), come l’SWP o il Partito Comunista Britannico, altri hanno al contrario fatto campagna per la permanenza nell’Unione Europea (come Workers Liberty, Left Unity o Socialist Resistance), organizzazioni che hanno influito solo minimamente sui risultati del referendum. Le principali forze politiche che hanno fatto campagna per la Brexit sono UKIP (estrema destra) e l’ala destra del partito conservatore. Dare da intendere che un voto per il quale ha militato il club dei sostenitori di Margareth Thatcher potrebbe essere un “voto di classe” oppure una “vittoria della classe operaia”, nella migliore delle ipotesi è mettersi nei pasticci, e nella peggiore prendere in giro la gente. D’altra parte, anche prima della Brexit, la Gran Bretagna aveva già negoziato esenzioni su diverse direttive dell’Unione Europea, tra cui quella che limita l’orario di lavoro a 48 ore la settimana.

È un imbroglio credere o far credere che la Brexit sarebbe una buona nuova per la classe operaia britannica, una vittoria contro l’austerità o le politiche antisociali. I maggiori attacchi contro la classe operaia britannica sono stati sferrati dalla Thatcher a partire dagli anni 1980, con la sconfitta dello sciopero dei minatori del 1984-85, e le leggi che limitano il diritto di sciopero e la forza dei sindacati nel 1980, 1982, 1984,1987 e 1988. In breve, la borghesia britannica non ha avuto bisogno dell’Unione Europea per attaccare violentemente la classe operaia, e potrà tranquillamente continuare con i suoi attacchi dopo la Brexit. Per contro, nel 1990 la Thatcher venne costretta a dimettersi e nel marzo 1991 il suo partito dovette ritirare la “Poll Tax” [1] a seguito di un anno di mobilitazione nelle città e nei quartieri proletari del Regno Unito. Anche in questo caso, nulla a vedere con l’Unione Europea, ma di una vittoria conseguita grazie ad un rapporto di forze favorevole alla classe operaia.

Se dei rappresentanti politici nazionalisti hanno potuto far credere che la Brexit poteva migliorare un po’ la condizione delle classi popolari, questi hanno ritrattato ancora più velocemente di un certo candidato del Partito Socialista, eletto perché avrebbe “fatto meno peggio di Sarkozy”. Così Nigel Farage, una specie di Le Pen britannico, aveva promesso “Il Regno Unito ogni settimana trasferisce più di 350 milioni di sterline alla UE; noi destineremo questo ammontare a favore del sistema sanitario pubblico (National Health Service – NHS).” È un’argomentazione efficace in un paese dove gli ospedali pubblici sono devastati dai tagli imposti dall’austerità. Ma, non appena conosciuti i risultati del referendum, lo stesso Nigel Farage parla di “errore”, e che se c’è chi ha votato per la Brexit sulla base di questo argomento è perché “si è sbagliato”. Decisamente, questa Brexit non porterà neppure una sterlina nelle tasche dei proletari britannici!

Non si possono preparare buoni piatti con verdura marcia

Non c’è bisogno di dire che l’Unione Europea attuale è da respingere. Si tratta di un’istanza sovrastatale, un’alleanza di Stati borghesi, fondamentalmente anti-operai, che giunge al punto di erigere recinzioni di filo spinato alle sue frontiere per impedire l’entrata di intere famiglie che fuggono, rischiando la vita, dalla guerra, dalla miseria e dai dittatori. Un cuoco può sbagliare un piatto anche utilizzando buoni ingredienti, ma con ortaggi marci non si può che preparare un piatto cattivo. Dunque, l’Unione Europea in quanto alleanza di Stati borghesi non potrebbe essere altro che una struttura borghese. Di conseguenza, attaccando principalmente l’Unione Europea, molti euroscettici e nazionalisti fanno pensare che il vero problema non è lo sfruttamento capitalista, ma le strutture europee, che prima dell’adesione all’Unione Europea gli Stati sarebbero stati “meno capitalisti”, “meno borghesi” o “meno anti-operai” …

Senza tornare troppo indietro nella storia, basta solo ricordare che prima dell’Unione Europea, non tanto tempo fa’ però, sindacalisti e militanti operai venivano incarcerati, torturati e assassinati nella Spagna di Franco o nel Portogallo di Salazar.

Un esempio significativo è quello dell’euro. Molti nazionalisti denunciano l’euro e reclamano il ritorno al franco, facendo credere che il problema non sarebbe il blocco dei salari e l’aumento dei prezzi, ma la moneta usata. È vero, il nostro tenore di vita è diminuito dopo l’adozione dell’euro … ma sarebbe potuto ugualmente diminuire mantenendo il franco, come è diminuito per i lavoratori e le lavoratrici al di là della Manica che hanno mantenuto la sterlina. Certamente, dei commercianti hanno approfittato del passaggio all’euro per arrotondare i prezzi a proprio vantaggio, cosa che viene praticata anche nelle zone frontaliere della Svizzera dove gli euro sono generalmente ben accetti nei negozi ad un cambio leggermente sfavorevole per il consumatore. Insomma, il problema non è l’euro, il franco, il rublo o qualsiasi altra moneta, ma il funzionamento del sistema capitalista, il blocco dei salari, l’assenza di controllo operaio sui prezzi, etc. Concentrarsi sull’euro, ricordandosi il prezzso che si pagava 15 anni fa’, significa dimenticare che anche dal 1985 al 2000 i prezzi sono aumentati, vuol dire che non si pensa che il vero problema è il blocco dei salari (l’indicizzazione dei salari in riferimento ai prezzi è stata soppressa nel 1982 in Francia), problema che non si può risolvere che con la lotta delle classi, e si finisce così con lo sprofondare nelle illusioni nazionaliste.

Gli Stati Uniti d’Europa, una necessità

L’Unione Europea è fatta a immagine degli Stati che la compongono. Se la borghesia ha realizzato un mercato unico, se ha istituito, in alcuni paesi, una moneta comune, è però ben lontana dall’aver realizzato una unità politica su scala europea. Senza dire dei paesi che non sono membri dell’Unione Europea, che ci sono repubbliche e monarchie, che gli accordi europei sono a geometria variabile, con Stati membri dell’Unione Europea ma non dell’area dell’euro (Svezia, Danimarca, Polonia …); con Stati membri dell’Unione Europea ma non dello spazio Schengen (Irlanda, Gran Bretagna, Bulgaria, et.), solo una minoranza di Stati partecipano all’Eurocorps, etc. Benché siano state create istanze europee, molti accordi, molte decisioni sono frutto di trattati e negoziati tra Stati, ciascuno in difesa dei propri interessi, anziché di una volontà politica comune.

Negli Stati Uniti, ad esempio, sarebbe assurdo parlare di un “imperialismo texano” opposto all’“imperialismo californiano”. Ci sono, come in tutti gli Stati, diverse frazioni della borghesia con interessi a volte contradditori. Per contro, in seno all’Unione Europea, permane un imperialismo francese, un imperialismo tedesco, un imperialismo italiano, … In occasione delle elezioni europee, la maggior parte dei grandi partiti parlano di difendere, a Strasburgo, “gli interessi della Francia”, anziché di difendere un programma per l’insieme dell’Europa, contrariamente alle elezioni legislative nazionali in cui, partiti regionalisti a parte, i candidati si presentano su un programma globale.

In questo senso, l’Unione Europea è lungi dall’essere uno Stato. Sarebbe tuttavia un progresso veder sparire frontiere e antagonismi nazionali anche solo su questo angolo nord-occidentale dell’Eurasia! Quello che possiamo rimproverare alla borghesia non è di voler costruire l’Europa, ma di essere incapace di realizzarla realmente, incapace di costruire – come più di cent’anni fa ha costruito la Germania o l’Italia sulle rovine degli Stati feudali – veri Stati Uniti d’Europa, dove il fatto di avere una nazionalità francese, greca, slovacca o danese non avrebbe più importanza di quella che ha oggi essere un abitante della Borgogna, della Picardia o della Normandia.

Non stupisce che nell’Irlanda del Nord la popolazione abbia votato ampiamente per la permanenza nell’Unione Europa. Per la popolazione, l’accordo del Venerdì santo del 1998 è stato firmato perché Londra e Dublino erano entrambi membri dell’Unione Europea, e l’Unione Europea ha avuto almeno il merito di abolire la frontiera tra la Repubblica di Irlanda e l’Eire e di porre fine ad un conflitto che con regolarità insanguinava il Nord dell’isola. In Francia si trova lo stesso spirito nell’Alsazia, regione che ha particolarmente sofferto per le due guerre mondiali e le varie occupazioni militari.

Con la crisi del 2008 e quella del debito pubblico, frazioni sempre meno marginali della borghesia s’interrogano sulla opportunità di rimanere o no in questa Unione Europea. Non appena conosciuto il risultato della Brexit, la Spagna, che occupa le enclave di Ceuta e Melilla in Marocco, si è affrettata a rivendicare la sua sovranità sul possesso britannico di Gibilterra. Prima della del Regno Unito si è posta la questione dell’esclusione della Grecia. In certi paesi, regioni come la Catalogna, le Fiandre o la Scozia si pongono la questione di rompere con il loro Stato centrale ed aderire direttamente, come nuovi paesi indipendenti, all’Unione Europea. In questo contesto, ogni borghesia nazionale, o almeno alcune sue frazioni, si pone la domanda su quale sia il mezzo migliore per aumentare ancora e sempre il suo tasso di profitto, di approfittare di una certa “solidarietà comunitaria europea” senza pagare, o pagando il meno possibile, contributi, di rimanere o no, e se sì a quali condizioni, in seno all’Unione Europea. In breve, questa Unione Europea rimane un fiera dove ci si fa largo a gomitate, dove ogni paese membro difende prima di tutto gli interessi della propria borghesia.

Anche se non è il caso di fare fantapolitica per sapere cosa ne sarà dell’Unione Europea tra qualche anno, la cosa certa è che dentro l’Unione Europea o fuori da essa, dentro i paesi attuali o dopo aver ottenuto l’indipendenza, tutti gli Stati, tutte le borghesie continueranno a condurre la loro guerra contro i nostri diritti e le nostre conquiste sociali, che l’unico limite alle loro politiche anti-operaie sarà la nostra capacità di lotta e di mobilitazione. Poco dopo la Prima Guerra Mondiale, Rosa Luxemburg scriveva “Le giovani micro-borghesie che aspirano ora ad un’esistenza indipendente, non solo fremono per il desidero di acquisire una egemonia di classe senza ostacoli e senza controlli, ma si ripromettono anche un piacere di cui sono state troppo a lungo private: strangolare con le loro mani il nemico mortale, il proletariato”. E questo rimane vero per le giovani come per le vecchie borghesie, e non solo sul continente europeo.

Per gli Stati Uniti Socialisti d’Europa da Reykjavik ad Ankara!

È questa questione, quella della lotta contro il padronato e i loro servitori politici, che deve essere centrale per la classe operaia. Il principio base di questa lotta è che l’unione fa la forza. Quando gli operai scendono in sciopero per i loro salari presso Dacia in Romania, o nella fabbrica di Bursa in Turchia, si tratta della stessa lotta, contro uno stesso padrone, quella che viene condotta nelle officine delle fabbriche Renault di Cléon o di Sandouville. I dipendenti di Amazon fanno la stessa lotta a Chalon-sur-Saône, a Lipsia o a Poznan. Sono state condotte azioni comuni, contro una politica anti-operaia quasi identica, dai sindacalisti di CGT e FGTB sulle due coste della frontiera franco-belga. Questi sono alcuni esempi di solidarietà concreta nelle lotte operaie su scala europea, esempi che dovrebbero essere generalizzati. Rimane molta strada da percorrere e dobbiamo prendere atto che la CES, incancrenita dalla collaborazione di classe, è ben lungi dal rappresentare un’alternativa operaia all’Europa dei capitalisti. A questo proposito è da notare che sono stati essenzialmente sindacati che non fanno parte della CES, come la CGT in Spagna, il Si Cobas in Italia o gruppi anarchici e dell’estrema sinistra in Germania, a manifestare la loro solidarietà alla lotta condotta in Francia contro la Loi Travail (il Jobs Act francese). Si può notare che anche lotte come quelle dei rifugiati e dei sans-papiers (nei pressi di Calais per esempio con una mobilitazione dei compagni britannici), o mobilitazioni femministe come quella per il diritto all’Interruzione Volontaria di Gravidanza (IVG) cominciano a coordinarsi su scala europea.

Al di là delle lotte, dobbiamo costatare che, grazie al mercato comune e all’apertura delle frontiere, già esistono e si sviluppano zone di attività transfrontaliere, come nei dintorni di Lille-Turnai, la zona Mulhouse-Friburgo-Basilea, l’euregio Mosa-Reno o la zona Copenhagen-Malmö, per fare solo alcuni esempi, che dovrebbero porre la questione delle Unioni Locali sindacali o di altre forme di organizzazioni operaie transfrontaliere.

Per fare solo un esempio, 60 000 operai francesi lavorano nella regione frontaliera del Baden-Württemberg. Anche se rimane molto lavoro da fare, sono da elogiare e sviluppare iniziative come la creazione di un Comitato Sindacale Interregionale tra CGT e FO (su lato francese) e la DGB (sul lato tedesco) per la zona del Basso Reno/Baden o l’organizzazione di una manifestazione comune il 1° Maggio da parte di CGT e UNIA.

La solidarietà internazionale, l’internazionalismo proletario, non è solo un “buono sentimento”, ma una necessità per il movimento operaio. Unione Europea o no, il sistema capitalista non conosce frontiere, e la “mondializzazione” capitalista non è un fenomeno nuovo, Gli azionisti di Areva non sfruttano solo in Francia, ma anche nelle miniere del Niger. Sognare oggi una “demondializzazione” è sia utopistico che reazionario. Utopistico perché non si potrà mai tornare alla piccola produzione o al piccolo villaggio del XIX secolo […] Quando Montebourg era ministro [dell’Economia, N.d.T] si è fatto alfiere del “made in France, giungendo al punto di farsi fotografare in tenuta da marinaio per la stampa. Nel settembre 2015, ha inaugurato le iniziative di “Produrre in Francia” con i rappresentanti di grandi gruppi come Dassault o Peugeot … le cui materie prime provengono da oltreoceano e che dispongono di un mercato internazionale. Tutti questi discorsi, anche rivestiti di un po’ di demagogia sociale, non mirano che a rafforzare il nazionalismo, a dividerci e a incatenarci al padronato francese … come se Tavares, il Ceo di PSA, che guadagna 14 500 € ogni giorno, sabati e domeniche compresi, fosse “meno sfruttatore” dei suoi compari di BMW o di Ford!

La questione, per noi lavoratori e lavoratrici, non è di “uscire dall’Unione Europea”, ma di uscire dal sistema capitalista. Il nome dell’area geografica è solo l’involucro, la sostanza è il rapporto di forza tra le classi e quale è la classe al potere. La vera questione è quella di una “BorghesExit”, di un’uscita dal sistema di dominio della borghesia. Questo permetterebbe di farla finita con questo sistema che cammina sulla testa, questo sistema in cui tutta la produzione è finalizzata solo a fare aumentare i profitti di un’infima minoranza invece che a rispondere ai bisogni dell’umanità. Questo permetterebbe anche di farla finita con gli egoismi nazionali degli interessi delle varie borghesie, e di realizzare così dei veri Stati Uniti, Socialisti, d’Europa, da Reykjavik a Ankara. Per dirla più chiaramente, strappando il potere alla borghesia e realizzando l’unità politica del continente europeo, la classe operaia metterà termine a questi rimasugli medievali che sono le varie monarchie, principati e ducati vari.

Non occorre dire che al di là dell’Europa, i comunisti lottano per porre fine all’oppressione capitalista in tutto il mondo. Il nostro fine è un mondo liberato dalle divisioni di classe, frontiera, Stati e da qualsiasi forma di oppressione. È anche chiaro che se pensiamo che la parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa sia un mezzo per realizzarli, potremmo altrettanto bene rivendicare, se si ponesse domani la questione, degli Stati Uniti Socialisti del bacino del Mediterraneo che integrassero il Sud Europa, il Nord Africa e il Medio Oriente. Ma la nostra risposta come comunisti alla questione attuale sull’Europa deve essere chiara: siamo per l’abolizione delle frontiere nel continente europeo come pure su scala mondiale. Se queste mostruosità che sono le frontiere, frutti di guerre e di massacri, potessero scomparire anche in un solo continente, sarebbe pur sempre un progresso a fronte dello spezzettamento delle nazioni.

È ancora lungo il cammino per giungere alla rivoluzione proletaria e al comunismo, ma una cosa è certa, non ci arriveremo mai volgendo la schiena a questa prospettiva e rafforzando, con campagne anti-europee, i peggior sentimenti nazionalisti per avere l’impressione di avere il vento a favore. Sì, a volte rischiamo di dover remare contro-corrente per difendere i principi internazionalisti e l’indipendenza di classe, i principi comunisti e rivoluzionari, ma remare con la corrente, lasciando credere che un ripiego nazionalista possa portare il minimo vantaggio alla classe operaia, è il miglior modo per non giungere mai in porto.

[1] Imposta particolarmente ingiusta che prevede che il proprietario di un castello di 30 stanze, che vive solo, paghi una parte, mentre il suo portinaio, sua moglie e i loro quattro figli, di cui due maggiorenni ma disoccupati, che abitano in una piccola dependance di tre stanze in fondo al parco del castello, ne paghino quattro parti