Brasile al bivio dopo le presidenziali

Lula - Dilma

La vittoria di misura di Dilma Rousseff alle presidenziali di fine ottobre (con il 51,6% al ballottaggio con Aecio Neves che si ferma al 48,4%) non fa che registrare una spaccatura non risolta all’interno della classe dirigente brasiliana (Nota 1).

Determinante per la sua vittoria è stato il voto degli stati più poveri, dove percentualmente sono più numerosi i beneficati dai programmi di sussidi come la Bolsa Famula e Fome Zero. Essa raccoglie più del 60% dei voti in Amazzonia, nel Nord e nel Nord-est, dove prevale la popolazione nera o meticcia (in un villaggio del Marnhao, uno degli stati più miserabili la Rousseff ha raccolto il 94% dei consensi…), mentre votano per il suo avversario il Sud e il Sud-ovest, cioè gli stati più ricchi, più istruiti e industrializzati e a maggioranza bianca. A San Paolo Neves, considerato il campione dei brasiliani bianchi, dei grandi industriali e degli immobiliaristi, raccoglie il 64% dei voti.

I fautori delle politiche di Lula-Rousseff esaltano la politica sociale che ha fatto uscire dalla povertà estrema un quinto dei brasiliani, sia con sussidi e prezzi agevolati, sia triplicando in 12 anni il minimo salariale. Di questo programma sociale hanno usufruito 14 milioni di famiglie (pari a circa 50 milioni di brasiliani). Il potere d’acquisto medio dei lavoratori dipendenti è migliorato anche se il gap fra ricchi e poveri in Brasile resta uno dei più forti del mondo. I detrattori hanno sempre sostenuto che lo stesso risultato si ottiene con uno sviluppo sostenuto dell’economia, mentre la distribuzione a pioggia dei benefici e il clientelismo che ha dominato i criteri di distribuzione ha accresciuto la piaga della disoccupazione pubblica. Molti “beneficati” inoltre si trovano fortemente indebitati (ad es. per la casa), l’inflazione è in aumento (6,7%) e solo il tasso di disoccupazione ai minimi storici (4,9%) resta un dato confortante.

Al contrario fra il 2013 e il 2014 è scoppiata la rivolta della cosiddetta “classe media”: proteste di piazza per i numerosi casi di corruzione (in prima fila uno scandalo di fondi neri e bustarelle riguardante la Petrobras, la potente azienda petrolifera di stato), ma anche contro le spese pazze in occasione dei Mondiali di calcio, e soprattutto per la infima qualità dei servizi pubblici.
Infatti la qualità dei servizi pubblici, dalla sanità alla scuola, ma soprattutto dei trasporti e delle infrastrutture è molto scadente. Un quarto delle case nelle grandi città manca ancora di copertura fognaria, solo il 14% delle strade è asfaltato. Soprattutto le piccole e medie imprese lamentano il basso grado di preparazione della manodopera (che contrasta con le eccellenze scientifiche delle grandi Università private), lo stato deplorevole dei trasporti urbani che “consumano” in modo improduttivo il tempo della giornata di lavoro. Ospedali fatiscenti, la burocrazia che imperversa e rallenta, poste e telefoni che non funzionano completano il quadro.

La politica dei sussidi è stata resa possibile nel decennio scorso dalla crescita economica, trainata dalla domanda internazionale di materie prime e prodotti alimentari, i cui prezzi crescevano grazie alle forti esportazioni soprattutto in Cina. Il rallentamento cinese ha determinato una caduta dei prezzi internazionali e un brusco ridimensionamento della crescita brasiliana che adesso è in recessione (+0,3% nei primi 9 mesi del 2014, negativo l’indice PIL previsto sull’intero anno).
Non è più possibile conciliare la bassa tassazione delle imprese con la garanzia del salario minimo ai lavoratori.
In più il modello Lula puntava all’appoggio incondizionato del governo alle grandi imprese di stato, agevolate in ogni modo e che si sono affermate in modo significativo sul mercato internazionale; una situazione che era tollerata dagli imprenditori in quanto le aziende di stato facevano da volano a quelle private, ma adesso le considerano concorrenti sleali e troppo costose. Un mercato internazionale dove la domanda è meno sostenuta mette in luce la debolezza dell’apparato produttivo brasiliano, le aziende manifatturiere non sono abbastanza competitive, pagano una manodopera poco istruita e un ritardo di innovazione.

E’ ripartito, feroce, il dibattito sul deficit pubblico. E qui casca l’asino. Si vedono, cioè, i limiti del cauto riformismo di Lula e della sua allieva Dilma: nessuno dei due si sogna di tassare i più ricchi, che finanziano il loro stesso partito, quindi si dovrà tagliare risorse ai più poveri.
Fra i paesi Brics il Brasile è quello che cresce meno. E’ possibile quindi che la Rousseff, una volta eletta, adotti parte del programma del suo avversario, per rassicurare il mondo degli affari, imbrigliando l’inflazione, tagliando una parte della spesa pubblica. C’è infatti grande attesa sulla scelta del prossimo Ministro degli Esteri, al posto del dimissionario Mantega (sono stati proposti i nomi di Luiz Carlos Trabuco Cappi. Presidente della Bradesco, la seconda banca privata, di Henrique Meirelles, già presidente della Banca Centrale con Lula, che rassicurerebbe banche e mercati, mentre la nomina di Nelson Barbosa indicherebbe una continuità col passato). Resta il fatto che la politica della Rousseff non dispiace a tutti i settori industriali, perché di fatto i sussidi hanno rianimato i consumi interni e la politica di chiusura alle “invasioni” commerciali e finanziarie degli Usa è ovviamente piaciuta, per la sua componente protezionista, ma anche tenuto conto dell’esempio argentino, con i suoi due default provocati anche dagli hedge fund Usa.

L’elezione della Rousseff garantisce una certa continuità in politica estera: il Brasile resta un “mattone” dei Brics, prosegue il rapporto privilegiato con la Cina (che pure è il principale concorrente nel settore manifatturiero) e la distanza politico-economica con gli Usa. Il 16 novembre il Brasile parteciperà al G20 di Brisbane (Australia) con gli altri quattro membri Brics, cioè Cina, India, Russia, Sudafrica: insieme totalizzano il 42,6% della popolazione mondiale e il 20,4% del PIL mondiale.
Prosegue l’alleanza con i Paesi dell’Alba (Venezuela, Ecuador, Bolivia) che garantisce a tutti la totale indipendenza energetica grazie al concorso del bio-diesel brasiliano, del petrolio venezuelano ed ecuadoregno e del gas boliviano.
Prosegue l’integrazione nel Mercosur, che punta a fare del Brasile un contrappeso regionale agli Usa e che riunisce Brasile, Argentina, Uruguay, Paraguay, Venezuela, contrapposti alla filostatunitense e neoliberista Alleanza del Pacifico (Colombia, Messico, Perù, Cile). Da marzo sono riprese le trattative per stringere un accordo fra Mercosur ed Europa (attualmente l’interscambio fra i due blocchi vale 130 miliardi di $ annui), in particolare per sviluppare le telecomunicazioni transatlantiche.

In teoria oltre che dirigere la politica estera e dare le linee di indirizzo alla politica di bilancio, nei prossimi mesi Dilma Rousseff dovrebbe procedere ulteriormente contro la corruzione. Dovrebbe, ma è improbabile che lo faccia.
Ed è probabile che, per tralasciare questa promessa elettorale, possa trovare un ottimo alibi nella composizione delle due camere brasiliane, cioè il Congresso Federale e il Senato usciti dalle elezioni del 5 ottobre (in concomitanza del primo turno delle presidenziali).
Rispetto al 2010 fra i 612 parlamentari eletti, risulta fortemente ridimensionato il drappello dei sindacalisti o comunque dei personaggi legati a una qualche istanza sociale (da 83 a 46), sostituiti da ex militari (circa il 30% degli eletti), leader religiosi, principalmente provenienti dalle sette pentecostali, agrari (ben 200 fra le due camere), leader delle campagne anti abortiste, anti gay, o richiamanti a scelte genere “legge e ordine” (contro gli indios, contro i campesinos senza terra, contro gli ambientalisti ecc.). Si sono già delineate robuste lobby di pressione (che in Brasile si chiamano frentes o bancadas) soprattutto facenti capo al settore agroalimentare e degli armamenti.
Queste lobby sono in grado di fare sintesi più degli stessi partiti: ben 28 presenti al Congresso per 531 seggi e 16 in Senato per 81 seggi. Il Partito dei lavoratori ha 70 rappresentanti al Congresso e 2 al Senato. Inevitabili, in questa frammentazione, le alchimie parlamentari da “mercato delle vacche”.

La composizione sociale del nuovo Parlamento brasiliano delude chi si era illuso che le battaglie di piazza degli ultimi due anni producesse una radicalizzazione parlamentare. Ancora una volta si conferma che logiche elettorali e movimenti di lotta non corrispondono e che l’espressione di voto, influenzata dai legami clientelari o personalistici, dai mass media e da fattori locali è molto più “conservatrice” di quello che esprimono le classi e gli strati sociali quando agiscono in prima persona. Se ai movimenti di lotta non corrisponde una direzione politica indipendente essi finiscono per ripiegarsi su se stessi dopo la fiammata, riassorbiti dalla politica di piccolo e grande cabotaggio delle classi dirigenti. E mai come in Brasile oggi vale la considerazione che “lo Stato sono loro”.

Nota 1: Su 143 milioni di brasiliani che avevano diritto di voto, 29 milioni si sono astenuti (circa il 20% ) e le schede bianche o nulle sono state 7 milioni (il 4,8%). Al primo turno aveva votato il 79,44 % degli aventi diritto.