E’ sempre più macelleria sociale


Sciopero ad oltranza fino alla caduta di Monti!

L’assalto all’articolo 18, ultimo fortino di ciò che resta dei diritti dei lavoratori, dopo l’incontro del 20 marzo è oramai realtà. Governo, Confindustria, Cisl e Uil, vorrebbero cancellare la «reintegra» sul posto di lavoro tramite la sentenza del giudice per quanto riguarda i “motivi economici e disciplinari”. L’unico divieto che resterebbe in piedi è quello di licenziare a causa di «motivi discriminatori», che giuridicamente è il caso più difficile da dimostrare in aula. Se lo stesso servo della prima ora, Raffaele Bonanni, per pochi minuti ha sostenuto che sarebbe stata una “ecatombe sociale”, la situazione si descrive da sola.

Già dall’insediamento di Monti era comprensibile a molti quale partita, soprattutto sul mercato del lavoro, il governo voleva giocare. Ora che i governo gioca a carte scoperte, la Fornero dichiara apertamente di voler concludere la sua riforma per renderla attiva dal 2015, dove l’eliminazione di fatto dell’articolo 18 verrebbe controbilanciata da una “patacca di soldi” che però la stessa ministra, un minuto dopo, non si nasconde affermando di non essere in grado di dire dove saranno trovate le risorse. Intanto, le pur misere concessioni sul fronte precarietà e generalizzazione degli ammortizzatori sociali vengono in fretta rimangiate.

Ora, dopo aver ottenuto un più che scontato lasciapassare dai servi scodinzolanti di Cisl e Uil, Monti e il suo governo di zerbini dei padroni e della BCE oggi affermano a chiare lettere che la legge sui licenziamenti selvaggi è compito delle Camere e non dei tavoli di trattativa con le “parti sociali”: tale condotta, oltre a mostrare i muscoli alla CGIL (pur sempre disponibile e “responsabile” quando si tratta di negoziare al ribasso lo smantellamento dei diritti), serve al governo per accelerare i tempi e consegnare al più presto il “trofeo di guerra” dell’articolo 18 a quei mercati sempre più affamati di profitti a costo zero con cui tamponare momentaneamente i colpi della crisi generale del sistema capitalistico esplosa nel 2008 e le conseguenti voragini dei debiti sovrani.

Ma il dato più importante, riconosciuto dagli stessi organi di stampa padronali, è che la condotta arrogante e decisionista dell’attuale governo sancisce in via definitiva la fine dell’era della concertazione: tale strumento, di cui i padroni e i loro governi si sono serviti nell’era di vacche grasse per accaparrarsi con l’assenso di Cgil-Cisl-Uil la stragrande maggioranza della ricchezza prodotta a scapito dei salari e delle tutele, ora viene mandato in soffitta per il semplice motivo che in epoca di crisi non c’è più nulla da distribuire e i padroni, che prima pretendevano sempre di più per poi concedere le briciole, ora esigono tutto!

Del resto, che il lavoratore, l’operaio, il salariato, le loro vite e quelle delle loro famiglie divengano così pura e semplice merce, che al pari delle altre, dopo essere stata usata, sfruttata e spremuta fino all’osso, viene gettata nel baratro della disoccupazione e della fame da un manipolo di parassiti non dovrebbe sorprenderci più di tanto: l’equiparazione della forza-lavoro a una qualunque merce ha da sempre rappresentato uno dei principi-cardine della società capitalistica.

Allo stesso modo, non ci sorprende affatto la compiacenza della Cgil fino a un minuto prima che il governo la umiliasse pubblicamente e gli sbattesse la porta in faccia, e men che meno la complicità del PD, partito che è nato col fine di rappresentare il principale comitato d’affari della borghesia “liberale” (ammesso che questa parola, in epoca di crisi sistemica, abbia ancora un senso), e ciò per una serie di motivi noti a chiunque abbia un minimo di memoria della storia recente.

Infatti l’articolo 18, di cui oggi si tenta la cancellazione formale e generalizzata per tutte le figure contrattuali e per ogni fattispecie di licenziamento, nella sostanza già oggi rappresenta una tutela vera e propria solo per una minoranza dei lavoratori salariati, in quanto:

  1. Già all’atto dell’approvazione della legge 300/1970 (statuto dei lavoratori) dalle coperture derivanti dall’articolo 18 erano esclusi tutti i lavoratori delle aziende con 15 o meno dipendenti: un esercito non trascurabile se si considera che il il sistema produttivo italiano, soprattutto a seguito delle dismissioni industriali su larga scala a cavallo degli anni ’90, ha visto sempre una crescita sempre maggiore di piccole e piccolissime aziende nelle quali sono sempre state consentite le più brutali forme di sfruttamento. Guarda caso, quando nel 2003 si è tenuto un referendum per allargare il divieto di licenziamento senza giusta causa anche a questi lavoratori, il PD (all’epoca DS) e la gran parte della Cgil invitarono insieme a Cisl, Uil e al 90% dell’arco parlamentare a disertare le urne, contribuendo in maniera decisiva ad affossare tale referendum!
  2. La tanto strombazzata libertà di licenziamento per “motivi economici” che il governo tenta di far passare in nome della “responsabilità nazionale” e usando come alibi lo spettro crisi, riguarda solo i casi di licenziamento individuale, poiché già con lalegge 223 del 1991 fu sancita, col beneplacito dei confederali e della sinistra di stato, la legittimità dei licenziamenti collettivi per riduzione di personale o cessazione di attività: una norma, questa, di cui i padroni hanno abusato in tutte le forme negli ultimi due decenni, spesso spacciando per cessazione di attività normali “ristrutturazioni” aziendali sotto forma di cambio di ragione sociale o cessione di ramo, il tutto sempre in nome della corsa senza freni al profitto e allo sfruttamento.
  3. Milioni di lavoratori, in pratica la maggioranza delle giovani generazioni, l’articolo 18 semplicemente non l’hanno mai conosciuto: parliamo dell’esercito di precari e sottoccupati condannati a rimanere tali all’infinito grazie alla legge 196/97, nota come Pacchetto Treu e varata dal primo governo Prodi col sostegno dell’intera sinistra parlamentare e l’appoggio entusiasta di Cgil-Cisl-Uil. In sostanza, senza il ruolo di questi ultimi, quella precarietà (sotto forma di lavoro interinale, Co.Co.Co., ecc.) che oggi condanna a un futuro senza prospettive un intera generazione non sarebbe divenuta la forma dominante e più brutale di sfruttamento. Che poi al peggio non ci sia mai fine è dimostrato dalla successiva legge 30 del 2003 (nota come Legge-Biagi), che non ha fatto altro che peggiorare e generalizzare quelle norme che il centrosinistra aveva introdotto (vedi gli attuali Co.Co.Pro)…
  4. Idem per il mondo delle cooperative, laddove la legge 142 del 2001 sul socio-lavoratore ha reso possibile disapplicare l’articolo 18 e gran parte dello Statuto per quei lavoratori che in maniera truffaldina vengono spacciati come soci di cooperativa pur essendo dipendenti, subordinati e spesso soggetti a forme di sfruttamento di tipo cinese, come in gran parte delle cooperative di produzione o nel vero e proprio mercato delle vacche rappresentato dalle cooperative cosiddette “sociali”. La Cgil, l’attuale PD e gli stessi partitini della “sinistra radicale” (all’epoca il Prc) non potevano certo essere contrari, in quanto essendo i principali azionisti di colossi quali Legacoop e Unipol, sono stati tra i primi, seppur non gli unici, a trarre vantaggi (e profitti) da quest’ennesimo attacco ai diritti di chi lavora, dunque non potevano certo andare contro i loro interessi di padroni o padroncini.
  5. Nel pubblico impiego, che nelle ultime ore la Fornero ha dichiarato immune dalla nuova riforma spacciando questa finta esenzione come una forma di concessione alla Cgil, l’articolo 18 è stato già ampiamente scardinato dal governo Berlusconi con la riforma Brunetta, la quale ha sancito la possibilità di licenziare senza giusta causa i dipendenti che si rifiutano di accettare i trasferimenti. In questo caso il primo affondo è venuto da destra, ma non ricordiamo particolari levate di scudi da parte dei confederali o delle cosiddette “sinistre”.
  6. Da recentissime indagini condotte da ministero del Lavoro, Inps, Inail ed Empals, è emerso che il 61% delle aziende controllate è risultata “irregolare” e il 38% dei suoi lavoratori completamente in nero. Dunque, quale articolo 18 può mai rivendicare un salariato che per lo stato italiano semplicemente non esiste?
  7. Dunque, a lottare per la sopravvivenza dell’articolo 18 restano in sostanza gli operai delle fabbriche medio-grandi e pochi altri comparti produttivi e dei servizi: un esercito di non poco peso, e che storicamente si è sempre dimostrato il cuore e la punta di diamante dell’intera classe lavoratrice, capace anche da solo di far saltare i piani del padronato. Peccato, però che quella Cgil che oggi dice di voler chiamare gli operai allo sciopero generale contro i piani del governo, sia la stessa che, dopo aver isolato la classe operaia dividendola al suo interno e con il resto dei lavoratori con le “riforme” di cui sopra, in questi ultimi mesi ha prima dato il suo assenso al Piano Marchionne in Fiat che reintroduce in fabbrica forme di sfruttamento e di repressione inaudite, arrivando a delegittimare persino la “sua” Fiom, poi ha firmato entusiasta i famigerati accordi del 28 giugno scorso coi quali si apre la strada allo smantellamento del contratto collettivo nazionale e si sancisce il modello-Marchionne come riferimento per l’intero mondo del lavoro; infine, ha accettato senza colpo ferire l’ennesima stangata sulle pensioni.

Se tutto ciò è vero, è evidente che di fronte a quest’ennesima rapina è in ballo l’ultimo baluardo di un tessuto di tutele e di conquiste che è già stato ampiamente scardinato da 15 anni a questa parte, ed è altrettanto evidente come per difendere dai licenziamenti indiscriminati quei lavoratori che ancora ne sono immuni non può bastare una semplice lotta difensiva, la quale, nel contesto di frantumazione della classe come quello attuale, sarebbe destinato inevitabilmente alla sconfitta. Si tratta dunque di rialzare la testa, e di farlo in fretta, scegliendo l’unica strada che ai padroni fa davvero paura: lo sciopero e la lotta ad oltranza, che parta dalla difesa sacrosanta dell’articolo 18 e non si limiti ad essa, ma punti ad allargare il fronte e a ricomporre i mille pezzi del puzzle dello sfruttamento salariato che 20 anni di controriforme ci hanno consegnato. Dunque in primo luogo l’allargamento delle tutele previste dallo statuto a tutti i lavoratori; l’abolizione di tutte le forme di lavoro precario e sottopagato; la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro con la reintroduzione per legge della scala mobile; ma soprattutto la lotta per il salario garantito, nella duplice accezione di salario minimo orario per ogni prestazione lavorativa e reddito garantito per tutti i disoccupati sia in forma monetaria che in termini di accesso alla casa e ai beni comuni.

I padroni oramai la lotta di classe la conducono quotidianamente, in maniera spietata e senza esclusione di colpi: attacchi indiscriminati al salario, ai servizi sociali e ai beni pubblici. Essi si dividono in destra, centro e sinistra quando si tratta di decidere come spartirsi la torta tra loro, ma sono quanto mai uniti quando si tratta di succhiare il sangue ad operai e lavoratori, e l’appoggio di tutti i partiti parlamentari al governo Monti ne è la riprova.

La propaganda padronale, in primis quella “antiberlusconiana” ha per mesi spacciato questo governo come il salvatore della patria, illudendo milioni di proletari che alla fase 1 dei sacrifici sarebbe seguita la fase 2 della crescita, dell’occupazione e del benessere collettivo: sono 20 anni che di questo film ci fanno vedere solo il primo tempo, per il semplice motivo che il secondo non esiste, o meglio non può esistere nell’attuale fase di agonia del sistema di sfruttamento capitalistico. Del resto, è la stessa sorte cui hanno assistito i proletari dei paesi maggiormente colpiti dalla crisi: prima le lacrime e sangue, poi ancora lacrime e sangue. Così in Portogallo, così in Irlanda, così in Spagna, per non parlare ovviamente della Grecia perennemente sull’orlo della rivolta di massa.

Al di la dei spettacolari quanto farseschi blitz della finanza a Cortina, utili più alle telecamere delle compiacenti televisioni di stato che alle casse dell’erario, fino ad ora la crisi l’hanno pagata solo i lavoratori dipendenti, operai, precari e pensionati. Corporazioni e grandi patrimoni non sono stati sfiorati, tutt’altro: mentre Monti e i suoi ministri, la Marcegaglia, Cgil-Cisl-Uil e i tre poli dell’alternanza borghese ci invitano a stringere ulteriormente la cinghia, lo stesso governo regala due miliardi e mezzo a Morgan Stanley, stanzia decine di miliardi per l’acquisto di 131 cacciabombardieri F-35! E tenta di portare a compimento l’inutile e distruttiva linea TAV, calpestando la volontà di un intera comunità e di milioni di cittadini solidali col popolo della val di Susa e reprimendo un maniera brutale il suo straordinario movimento di resistenza.

Indubbiamente la Fiom sa bene qual è la drammatica situazione e quale il nero orizzonte che si prospetta, così come sa bene che contro un tale attacco di certo non basteranno un paio di ore di sciopero e qualche referendum tra i lavoratori.

Sotto i colpi di Marchionne e degli ultimi governi, la Fiom si trova in una situazione di isolamento, ricatto e criminalizzazione simile a quella da sempre vissuta dai sindacati di base, ed è di fatto di fronte a un bivio. O sceglie definitivamente la strada della lotta e della mobilitazione per la costruzione di una seria e vera opposizione sociale alle scelte del governo Monti, insieme alle forze del sindacalismo di base, o è destinata ad un ruolo residuale e di mera testimonianza. Dinanzi ad un attacco padronale così forte non basta la ripetizione di slogan e parole d’ordine: bisogna far vivere quelle parole d’ordine tra i lavoratori, nelle piazze, nel fuoco della lotta. L’attacco è di classe e la risposta, per non essere di testimonianza, deve essere conflittuale, determinata e soprattutto unificante. Una risposta che richiede la discesa in campo in via diretta di tutti i settori colpiti dalla crisi e dalle manovre Monti-UE-Bce-FMI, riprendendosi la parola e non delegando più le proprie rivendicazioni a chi, come la stessa Cgil, ha contribuito attivamente a creare la situazione odierna di disastro sociale.

La condizione del movimento di classe nel nostro paese impone necessariamente la definizione di riposte capaci realmente di costruire l’opposizione sociale e politica alle manovre di questo governo che, a livello sindacale e nelle situazioni lavorative, necessariamente riparte dalle fabbriche e dai luoghi di lavoro tramite la formazione di comitati auto – convocati di lavoratori, trasversali alle sigle sindacali, che a partire dai singoli luoghi di lavoro diano vita a casse comuni di resistenza contro i licenziamenti e i soprusi dei padroni, e che lavorino uno sciopero unitario e nazionale contro i piani del governo italiano ed europeo, e lavori nella prospettiva di uno sciopero unitario europeo.

Su questo, a nostro avviso, si misurerà il coraggio e la coerenza di quelle stesse aree del dissenso interne alla Cgil: la disciplina di apparato non può e non deve più prevalere sui più elementari interessi dei lavoratori!

In quest’ottica, il movimento No debito può in primo luogo costituire un utile supporto in tale prospettiva di ripresa del conflitto su larga scala, ma solo a condizione che non intenda sostituire le iniziative di movimento con un sempre più necessario sciopero generale e generalizzato, unitario e nazionale.

In secondo luogo, si tratta a nostro avviso di sciogliere dei nodi che il No debito ancora non ha chiarito:

  1. Rifiuto del debito è una cosa, altro è una moratoria, la quale non farebbe altro che rinviarne il pagamento.
  2. Il rifiuto di pagare il debito può avere senso solo se inserita in un piano di rivendicazioni unificanti del mondo del lavoro, del non lavoro e della precarietà, altrimenti diviene una mera petizione di principio, affascinante in astratto ma nulla negli esiti.
  3. Non è secondario chiedersi chi dovrebbe prendersi la responsabilità di rinnegare il debito contratto con i mercati finanziari: questo non potrà mai essere un governo e uno stato che considerano il mercato e i mercati l’elemento fondante della nostra società. Quindi: a) si pone il problema politico della cacciata in tempi brevi del governo Monti e in prospettiva la messa in discussione del potere UE; b) di fronte all’evidente, drammatico e a tratti clamoroso fallimento del sistema di produzione fondato sul profitto, compresa ogni sua variante “riformista”, si pone come quanto mai attuale il tema, al contempo sociale, economico e politico, del superamento rivoluzionario del capitalismo.

Al di la delle pur importanti e inevitabili contingenze del “qui ed ora”, sarebbe il caso di iniziare a parlarne.

laboratoriopoliticoiskra.org

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