Firmato il Jobs Act: al via un salto di qualità nello sfruttamento

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Con la firma di ieri da parte del Presidente della Repubblica e la prossima pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, saranno a giorni in vigore i decreti attuativi del Jobs Act approvati dal Consiglio dei Ministri del 20 febbraio.
E’ una riforma devastante per i diritti dei lavoratori, che di fatto cancella il contratto a tempo indeterminato sostituendo il reintegro con l’indennizzo economico e ridimensiona pesantemente gli ammortizzatori sociali.

Con l’introduzione del cosiddetto “contratto a tutele crescenti”, i vari contratti precari non vengono affatto aboliti: dal lavoro a chiamata a quello a tempo indeterminato a quello interinale restano tutti ad eccezione dei soli Co.Co.Co. e Co.Co.Pro.; ma soprattutto viene abolito il reintegro per i licenziamenti ingiustificati salvo che sia dimostrato il carattere discriminatorio, dove tocca al dipendente dimostrare la discriminazione e non all’azienda discolparsi; in altre parole, viene rottamato anche formalmente il famoso Articolo 18, che la Legge Delega 183/2014 non prevedeva di modificare, ma che era già stato completamente svuotato dalla continua aggiunta di nuove tipologie di precariato, per ultimo il contratto a termine “a ripetizione” varato col Decreto Legge N° 34 del 20 marzo 2014. Nella realtà non ci sono affatto “tutele crescenti”, ma solo indennizzi, peraltro più bassi rispetto a quelli fin’ora in vigore. Al posto del reintegro è previsto solo un indennizzo di 2 mensilità senza contributi fino a un massimo di 24 mensilità, e anche quando è dimostrato il carattere discriminatorio del licenziamento e scatta il reintegro, il rimborso per il periodo senza lavoro ha un massimo di 12 mensilità che diventano 6 per le aziende sotto i 16 dipendenti a fronte di cause che possono durare anni; per un licenziamento ingiusto senza reintegro sono previste 2 mensilità senza contributi per anno di lavoro, ma non oltre 24 mensilità, che nei casi di conciliazione diventa una mensilità non tassabile per anno, ma non oltre 18 mensilità. Un sistema “a indennizzi crescenti” – ma non troppo crescenti – che riguarderà tutti i nuovi contratti di lavoro privato, anche le eventuali stabilizzazioni dei precari.

Se teniamo conto che per le assunzioni a tempo indeterminato le aziende non pagheranno un euro di contributi per i primi tre anni, questo sistema di indennizzo apre la porta a un grosso affare: assumere un dipendente per tre anni, non versare i contributi (che per l’azienda sono il 32,7% della retribuzione lorda), licenziarlo con un indennizzo di 6 mensilità – senza contributi – e iniziare un nuovo rapporto di lavoro – magari con lo stesso lavoratore in un’altra azienda che casualmente ha lo stesso proprietario, la stessa tipologia aziendale e la stessa sede operativa – garantendosi altri tre anni di esenzione contributiva. In questo modo, in tre anni di lavoro l’azienda risparmia di contributi circa 2 volte e mezzo ciò che è costretta a versare come indennizzo. Il 9 dicembre 2014 Repubblica calcolava che su uno stipendio lordo di 22mila euro annuali, licenziando entro un anno si può risparmiare fino a 5mila euro, che diventano 16mila dopo tre anni. L’evasione contributiva viene eretta a sistema.

Col provvedimento sul riordino dei contratti, viene confermata la possibilità di rinnovare i contratti a termine per 5 volte consecutive nell’arco di tre anni; viene imposto un limite del 20% per i lavoratori a termine, limite che però non si applica alle aziende appena aperte, alle start-up, alle attività stagionali, agli spettacoli, alle università, all’insegnamento e alla ricerca; inoltre non si tiene conto dei lavoratori over 55 e delle sostituzioni per assenza; in altre parole, il limite del 20% è… la quota entro la quale quello che dovrebbe essere un’eccezione può diventare regola. Ma soprattutto, lo sforamento del limite non comporta l’assunzione a tempo indeterminato, ma solo sanzioni. E a questo si aggiungono le quote del 10% di lavoratori interinali che può essere più ampia per lavoratori che hanno goduto di ammortizzatori sociali per 6 mesi o lavoratori “svantaggiati”.
Ci sono poi i contratti di apprendistato, un’ulteriore quota di lavoratori che può arrivare a 2 quinti del totale dei dipendenti specializzati che diventa il 50% per le aziende con meno di dieci dipendenti; solo per le aziende oltre 50 dipendenti vi sono obblighi di assumere a tempo indeterminato gli apprendisti, e solo per il 20% del totale, mentre fin’ora era il 30%. Gli apprendisti possono avere un inquadramento di due livelli inferiore a quello previsto per le stesse mansioni e per l’apprendistato connesso a un percorso di istruzione (finalizzato al raggiungimento di un diploma professionale o di un titolo universitario) nelle ore di formazione la retribuzione è… il 10% (un decimo!) di quella normalmente dovuta. Il cosiddetto “apprendistato professionalizzante” – riservato a lavoratori e non a studenti – può durare da 6 mesi a 3 anni, che possono diventare 5 per alcuni contratti, con una retribuzione che parte dal 70% della retribuzione piena.

Insomma, la tanto sbandierata abrogazione di tutti i contratto a progetto a partire dal 2016 (che può essere posticipata con accordi sindacali e che non si applica alla pubblica amministrazione) non è che… un’estensione della precarietà estrema ai contratti di lavoro subordinato.

L’altro provvedimento di cui il governo si vanta è la “Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l’Impiego”, ossia la NASpI, che entrerà in vigore il prossimo 1° maggio e riguarderà tutti i lavoratori dipendenti, ma come prima solo dopo un pregresso periodo di lavoro (per tredici settimane di contribuzione negli ultimi quattro anni, o trenta giornate di lavoro nell’ultimo anno). Non è affatto un salario minimo garantito, ma una quota decrescente dell’ultimo salario (il 75% dell’ultimo stipendio per i primi 3 mesi, poi decresce del 3% al mese) che dura fino a 78 settimane.
Un ammortizzatore sociale “a termine”, precario come il lavoro che sostituisce, dopo che la riforma Fornero aveva già l’indennità di mobilità. Da maggio si aggiunge in via sperimentale l’ASsegno di DIsoccupazione (ASDI), riservato a chi ha esaurito il periodo di fruizione della NASpI, pari al 75% dell’ultima erogazione NASpI (quella già diminuita del 3% per ogni mese di fruizione) con priorità per i lavoratori vicini alla pensione o con figli minorenni, ma comunque per un massimo di sei mesi e in ogni caso SE CI SONO LE COPERTURE! Ad oggi per il 2015 sono stati stanziati solo 300 milioni.
Rimane invece un ammortizzatore sociale separato per Co.Co.Co. e Co.Co.Pro. Ancora attivi: l’indennità DIS-COLL riservata a chi ha almeno tre mesi di contribuzione dall’anno solare precedente e un mese nell’anno in corso; è pari al 75% dell’ultima retribuzione se questa non è superiore a 1195 euro (dopo 3 mesi decresce del 3% mensile) e per non oltre la metà del periodo di contribuzione degli ultimi 4 anni, comunque per un massimo di sei mesi (contro i 18 della NASpI). Cessata la fruizione della DIS-COLL, non è previsto accesso all’ASDI.
Come se non bastasse, il cosiddetto “Incentivo all’autoimprenditorialità” garantisce la possibilità di farsi anticipare tutto l’importo per aprire una propria attività, ma nel caso che il disoccupato sia assunto da una cooperativa, è quest’ultima a incassare; si apre quindi per le coop la possibilità di licenziare un dipendente, farlo assumere da un’azienda collegata e incassare per intero la NASpI dovuta: un enorme salto di qualità nell’evasione fiscale e contributiva, campo in cui le coop sono già specializzate, come sicuramente sa bene il ministro del lavoro Poletti, ex presidente dell’Alleanza delle Cooperative.

E’ un salto di qualità nello sfruttamento, una riforma che prosegue sulla scia tracciata dai governi precedenti di destra e di sinistra, ma che crea un sistema articolato in cui la precarietà viene generalizzata ma viene mantenuta una divisione fra lavoratori più precari e meno, una divisione che viene incontro alle diverse necessità delle aziende – alle quali serve manodopera a volte più flessibile altre volte più stabile – e permette di continuare il gioco del “divide et impera”.
Si potrebbe parlare di sconfitta epocale per la classe lavoratrice, se non fosse che essa praticamente non ha neppure tentato una resistenza organizzata. Le poche opposizioni registratesi sono state innanzitutto prese di posizione mediatiche, con una CGIL che ha alzato la voce solo per cercare – inutilmente – di tornare nel gioco come mediatore e pompiere sociale e una FIOM che non è andata oltre i proclami roboanti. I sindacati di base non sono ancora in grado di mobilitare in maniera stabile strati ampi di lavoratori, sindacalizzati o meno, su una piattaforma unificante, anche se in alcuni settori come nelle cooperative della logistica riescono a condurre lotte estese e intense, seppure limitate a contese aziendali o di settore.

In molti, nella classe lavoratrice, auspicano la nascita di un nuovo soggetto parlamentare, che riempia il vuoto politico a sinistra del governo e recuperi parte dell’astensione proletaria. Ma la stessa storia del Jobs Act – un provvedimento in cui le Camere hanno fatto da spettatrici, lasciando al governo ogni dettaglio dell’azione legislativa – è la dimostrazione di come non vi sia alcun posto per la lotta di classe all’interno del parlamento, ma tuttalpiù per qualche gazzarra buona per conquistarsi un po’ di spazio sui media o per i mugugni di chi si atteggia a forza di opposizione ma che alla resa dei conti sostiene il governo approvando anche il suo lavoro più sporco.

Se ormai il Jobs Act è legge e se queste norme renderanno ancora più difficile ai lavoratori alzare la testa contro l’arroganza padronale, non per questo vengono meno i motivi per una conflittualità sociale: la ripresa economica tanto annunciata e ancora tutta da vedere si prospetta come una ripresa dei profitti molto più che dell’occupazione, per precaria che sia. E’ necessario unire le forze di militanti e lavoratori più coscienti superando i settarismi e i particolarismi in una lotta che unisca precari e “garantiti”, lavoratori e disoccupati, italiani e stranieri al di là dei settori economici e delle eventuali tessere sindacali. Solo così si potrà opporre una seria resistenza a ulteriori attacchi del padronato e contrattaccare per conquistare a breve condizioni di lavoro migliori, e un domani una società senza più alcuna forma di sfruttamento dell’uomo sull’uomo.