IL NEMICO È IN CASA NOSTRA! SPESA MILITARE, AFFARI, COLLISIONI DI INTERESSI, INSICUREZZA GLOBALE

L’Italia – ancora sprofondata nella crisi occupazionale, del debito statale e in procinto di varare nuovi tagli al bilancio sulla pelle dei lavoratori – è il primo Paese fra quelli occidentali e della Ue per personale impegnato nelle missioni Onu, il secondo in quelle Nato, il primo per partecipanti nelle missioni Ue. Negli ultimi cinque anni ha aumentato l’export di armi del 22% complessivamente e di ben 10%, 15 milioni di euro al giorno, nell’ultimo anno, il 2016. Il maggior cliente della democratica repubblica italiana è stato il regime dispotico, oppressore, torturatore turco di Recep Tayyp Erdogan. Bisogna pur alimentare questa macchina da guerra!!

Infatti.

Questa corsa agli armamenti e alla guerra ripresa con forza negli ultimi anni anche in Italia, è ora accelerata dalla competizione con l’America di Trump, che ha proposto l’aumento di quasi il 10% della spesa militare americana. Nel 2017 le spese militari dell’Italia ammonteranno a 23,4 miliardi di euro, pari a 64 milioni di euro al giorno, 2,7 milioni all’ora, 45mila al minuto, circa 400 euro che ogni residente in Italia, bambini, anziani e immigrati compresi, pagano in un anno.[1] Nel 2016 l’Italia si è attestata per spesa militare al 12° posto nel mondo, con l’1,4% del totale. Rispetto al 2006 questo capitolo del bilancio statale italiano è aumentato del 20,8 per cento a valori correnti, e del 4,3 calcolando l’inflazione. Circa un quarto della spesa militare (24%), servirà ad acquistare nuovi armamenti, con un aumento del 10 per cento rispetto all’anno scorso, si tratta di circa 15 milioni al giorno. Un capitolo di spesa statale che non è sostanzialmente diminuito per peso sul PIL, mentre la spesa per pensioni, istruzione e sanità subisce continui tagli.

E bisogna giustificare davanti all’opinione pubblica e agli elettori questa necessità di maggiori investimenti nel complesso militar-industriale italiano. Così politici, talk show e grandi testate giornalistiche collaborano nella costruzione di una cortina fumogena per occultare le motivazioni e gli interessi reali dell’imperialismo italiano e della lobby dell’industria degli armamenti che promuovono questa spesa. Si parla sempre di “difesa” della democrazia e dei diritti umani, di lotta al terrorismo dopo un attentato dell’Isis, di controllo dell’immigrazione dopo l’affondamento di un barcone nel Mediterraneo, di contrasto alla criminalità dopo un grave fatto di cronaca nera.

Il Ministero per lo sviluppo economico finanzia i gruppi degli armamenti

Nel 2016 il Ministero per lo Sviluppo Economico disponeva di un fondo complessivo di 4,3 miliardi di euro; dei 3,76 miliardi destinati alla politica industriale e alle piccole e medie imprese ne ha dato in realtà 2,75 miliardi, pari al 73%, a Finmeccanica, Fincantieri e ad altre aziende direttamente coinvolte nei programmi di armamento.

Il che significa che la spesa per armamenti è per circa la metà sostenuta dal Ministero per lo Sviluppo Economico e quindi ufficialmente non considerata spesa militare,[2] ed è finanziata con prestiti molto onerosi che vanno a incrementare il debito pubblico e che i lavoratori saranno chiamati a pagare, in un modo o nell’altro. Se non si ribellano.

Come saranno impiegati armamenti e militari pagati con le tasse versate dai lavoratori italiani e immigrati?

La risposta ce la fornisce il Ddl approvato lo scorso 10 febbraio dal Consiglio dei ministri per dare concreta attuazione al “Libro Bianco per la sicurezza internazionale e la difesa”, stilato nel 2015.[3]

Vediamo cosa significa in termini chiari e concreti questa legge quadro.

Al primo posto troviamo la difesa degli “interessi vitali o strategici del Paese”, anziché l’aulica espressione “Difesa della Patria” stabilita dalla Costituzione italiana (art. 52). Non si tratta più di “difendere” il sacro suolo patrio da attacchi nemici, ma di affermare gli interessi ben concreti e materiali dell’imperialismo italiano.

“Il contributo alla difesa collettiva dell’Alleanza Atlantica e al mantenimento della stabilità nelle aree incidenti sul Mare Mediterraneo, al fine della tutela degli interessi vitali o strategici del Paese” è individuato come secondo compito. La Nato, capeggiata dagli Stati Uniti, rimane l’ambito dentro il quale è (per ora) facilitato il perseguimento dei propri interessi, in contrapposizione a quelli di altre singole potenze o associazioni di potenze, asiatiche in particolare, con la Cina in testa. La UE d’altra parte appare alquanto lontana dalla possibilità di creare un suo apparato militare unitario ed efficace.

La “gestione delle crisi al di fuori delle aree di prioritario intervento, al fine di garantire la pace e la legalità internazionale” è il terzo punto che sostituisce di fatto l’art. 11 della Costituzione che recita: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Quelle che qui vengono definite “crisi”, dall’Ucraina, alla Siria, alla Libia, e al continente africano in generale, sono le guerre civili che le principali potenze europee hanno contribuito a fomentare.

La proiezione principale della violenza militare dell’imperialismo italiano si focalizza sul Mare Nostrum, dai Balcani al Medio Oriente e al Nord Africa. Un’area dove, in nome della stabilità, della guerra al terrorismo e della democrazia, le potenze, regionali e globali, stanno sgomitando per l’influenza economica e politica, provocando centinaia di migliaia di vittime e milioni di profughi. Questa sarebbe la “gestione delle crisi”. La Libia occupa attualmente un posto centrale per l’Italia, in diretta e forte contesa con gli interessi economici e strategici francesi, ma anche per la guerra che sta conducendo contro i profughi e che vede un’accelerazione stimolata dalla contesa elettorale tra i partiti al governo e quelli populisti e xenofobi.[4]

Il potere esecutivo si arroga le decisioni sulle missioni militari

Il Libro Bianco allarga il diritto di intervenire militarmente per “la pace e la legalità internazionale” a tutto il globo, con missioni che saranno finanziate da un fondo del ministero dell’Economia e delle Finanze, grazie ad un provvedimento legislativo del 2016 che le istituzionalizza riconoscendole giuridicamente.[5]

La legge sottrae di fatto al Parlamento la facoltà di approvare o respingere le missioni militari, sulle quali esso deve limitarsi ad esprimere “atti d’indirizzo”, e conferisce in definitiva pieni poteri a riguardo al potere esecutivo, che ha la facoltà di inviare o prorogare i contingenti militari all’estero, previa comunicazione al Presidente della Repubblica ed eventuale convocazione del Consiglio Supremo di Difesa.

I fondi approvati per le missioni estere, dal 2009 al 2014, sono stati mediamente di 1,3 miliardi di euro l’anno.

Ultimo, ma non meno importante, compito di cui sono incaricate le Forze armate è la «salvaguardia delle libere istituzioni», con «compiti specifici in casi di straordinaria necessità ed urgenza», la difesa cioè delle istituzioni che garantiscono il dominio della borghesia italiana sulla classe dei lavoratori, cui va aggiunta la repressione delle lotte operaie.

La lobby dell’industria militare ottiene un riconoscimento istituzionale

Il Libro Bianco, oltre a ridefinire i compiti o la struttura delle forze armate, istituzionalizza per così dire la lobby dell’industria militare offrendo incarichi di dirigenza – come quella di Segretario generale, responsabile dell’area tecnico-amministrativa della Difesa, e di Direttore nazionale degli armamenti ‑ ad alcuni suoi esponenti. A questi dirigenti assegna poi il compito di elaborare, sulla base degli indirizzi in esso contenuti, la strategia industriale e la tecnologia con cui attuare una collaborazione con l’industria, l’università e la ricerca.[6]

Il Libro Bianco definisce l’industria della sicurezza e difesa «un pilastro tecnologico, manifatturiero, occupazionale, economico e di crescita senza eguali per il “Sistema Paese”» … «Il binomio “strumento militare – industria nazionale” «contribuisce, attraverso le esportazioni, al riequilibrio della bilancia commerciale e alla promozione di prodotti dell’industria nazionale in settori ad alta remunerazione». Le armi, le forze armate, le guerre, strumenti di distruzione di vite umane e di ricchezza sociale, sono presentate come un fattore progressivo. Solo la barbarie capitalistica può giungere a tale cinismo.

Il riarmo mondiale ed italiano è indotto dal rimescolamento degli assetti di potenza internazionali, dall’emergere di nuove grandi e medie potenze, Cina davanti a tutte, e dai nazionalismi montanti.

Chi in Italia beneficia della vendita degli armamenti sono 112 aziende – di cui le maggiori appartengono o sono partecipate del gruppo Finmeccanica-Leonardo (Alenia, Agusta Westland, Selex ES, Oto Melara, MBDA Italia) che per la quota maggiore è proprietà dello Stato,[7] oltre a Fincantieri, e Iveco, Industrie Bitossi, e 100 piccole e medie – per un totale di 15,3 miliardi di fatturato annuo, che sfruttano il lavoro di circa 50 000 salariati, la cui produttività è fortemente cresciuta (giungendo a 100mila euro per addetto), una misura degli enormi profitti che ne derivano per i loro padroni, statali o privati.[8]

Nessuna altra attività economica può raggiungere gli immensi profitti di cui gode il complesso militare-industriale di guerra, che quindi attrae facilmente i capitali. Secondo uno studio di Morgan Stanley del 2014, il valore delle azioni dei maggiori produttori di armi statunitensi sono aumentate di circa 277 volte negli ultimi 50 anni rispetto a circa 68 volte quelle del mercato complessivo. Ecco perché anche in Italia crescono questi affari.

Nel 2015[9] è quasi triplicata, rispetto al 2014, la vendita di armi italiane all’estero (+186%). La parte del leone in questi acquisti la fanno i paesi UE e Nato, passati dal 55,7% al 62,6%. Cresce anche l’intermediazione finanziaria delle principale banche italiane, Intesa e Unicredit, di una serie di istituti minori (Banca Etruria, Bnl, Ubi, Banco di Brescia, Popolare Commercio e Industria, Regionale Europea) e di una serie banche popolari (Emilia Romagna, Carispezia, Banco Popolare, Valsabbina, Banca Popolare di Sondrio, Carige, Etruria, Parma e Piacenza, Credito Cooperativo Cernusco S.N. e Versilia e Lunigiana, Spoleto, Friuladria, Bpm), e perfino le Poste Italiane e una banca libica.[10]

Contro il complesso militare industriale italiano e internazionale.

Contro le spese per la “difesa” – usata all’estero e per la repressione all’interno.

No ai tagli su pensioni, sanità, scuola.

No all’aumento delle tasse per pagare armi e FFAA!

Internazionalismo dei lavoratori contro il militarismo!

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[1] Il calcolo è di Mil€X 2017, l’Osservatorio sulle spese militari italiane, Primo rapporto annuale sulle spese militari italiane presentato alla Camera il 15.02.2017.

[2] Mil€X 2017: «tra stanziamenti diretti e contributi pluriennali, superano ormai i 3 miliardi l’anno, cioè gran parte dell’intero budget annuo del MISE destinato alla principale missione del ministero, ovvero gli investimenti a sostegno della “Competitività e sviluppo delle imprese” italiane».

[3] Presidenza del Consiglio dei Ministri, Revisione e riorganizzazione della formazione e del funzionamento delle Forze Armate, 10 febbraio 2017; Il Ddl delega «il Governo per la riorganizzazione dei vertici del ministero della Difesa e delle relative strutture, la revisione del modello operativo delle Forze Armate, la rimodulazione del modello professionale e in materia di personale delle Forze Armate e la riorganizzazione del sistema della formazione.»

[4] Cfr.: https://www.combat-coc.org/rispediti-allinferno-2/

[5] Si tratta del ddl 1917-B sulle missioni internazionali, approvato il 21 luglio 2016, ed entrata in vigore il 31 dicembre. L. 21 luglio 2016 n. 145

[6] Letteralmente: “con la quale implementare una nuova strategia di collaborazione ad ampio spettro tra la Difesa, l’industria e il mondo universitario e della ricerca”.

[7] Il ministero dell’Economia e Finanze vi partecipa con il 30,2%.

[8] Studio Prometeia, Il sistema industriale della difesa per il sistema Paese, Risultati 2015

[9] Rapporto 18 aprile 2016 della Presidenza del Consiglio. Per il 2016 non sono ancora disponibili dati più dettagliati

[10] Nigrizia, 2.5.2016; cita la relazione del ministero dell’economia e delle finanze (Mef), allegato alla Relazione al parlamento sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento, 2015.