ILVA una storia di duro lavoro, sfruttamento, sprechi e collusioni governative

La storia dell’Ilva, in quanto importante capitolo della storia della siderurgia, è specchio di quella dell’industria italiana.

Nasce ufficialmente nel 1905, dalla fusione delle attività siderurgiche del gruppo Elba (Portoferraio), di parti della Terni, della Ligure Metallurgica e della famiglia romana Bondi (Piombino), allo scopo di sfruttare le agevolazioni di una legge per il “risorgimento economico di Napoli”. Nasce all’ombra del protezionismo e grazie a sgravi fiscali di vario tipo che avrebbero dovuto portare alla creazione di un grande impianto a ciclo integrato a Bagnoli. La cosa non stupisce dal momento che lo Stato italiano, interessato allo sviluppo delle ferrovie e e della cantieristica, ma anche dell’industria militare è il primo committente delle industrie siderurgiche, cui sono garantite tariffe protezionistiche e finanziamenti a tassi agevolati.
Nel 1900 si era creato il primo sodalizio confindustriale fra metallurgici, presidente Giorgio Enrico Falck, seguito a ruota dalla nascita della Fiom, la Federazione italiana degli operai metallurgici, la prima che firmerà nel 1919 un accordo nazionale che prevede fra l’altro le 48 ore settimanali. Lavorare nella siderurgia è duro e pericoloso, ma crea una forte solidarietà fra i lavoratori.
Nel 1910 l’Ilva è capofila di un consorzio del settore, esteso alla Terni, inteso a ridurre la reciproca concorrenza fra stabilimenti liguri. toscani e napoletani.

La 1a guerra mondiale e l’IRI
La 1a guerra mondiale consente alla siderurgia e anche all’Ilva la corsa ai sovraprofitti, l’azienda acquisisce cantieri navali, società minerarie e aziende aeronautiche e s’indebita pesantemente. Nella fase di riconversione postbellica si trova sull’orlo del fallimento e nel ’21 è acquisita dalla Banca Commerciale Italiana, che controlla anche la Terni. Curatore della Terni e presidente dell’Ilva viene nominato Andrea Bocciardo, che non esita a diventare fascista per ottenere aiuti di stato per risanare l’Ilva, da cui vengono scorporate le attività non siderurgiche, e la Terni che entra nel settore idroelettrico ed elettrochimico. L’operazione va a buon fine ma per poco, perché la crisi del 1929 costringe la Banca commerciale a cedere le sue partecipazioni azionarie all’IRI (Istituto per la ricostruzione industriale – 1934). Bocciardo resta in carica a questo punto come funzionario di Stato, responsabile della siderurgia (nell’Iri confluisce anche l’Ansaldo) col pieno appoggio di Mussolini, che lo nomina senatore a vita. La vicenda Ilva si conforma quindi alla logica per cui, quando il capitale privato in un settore chiave soccombe, lo Stato come capitalista collettivo subentra a “socializzare le perdite”, facendole pagare ai contribuenti, cioè in buona sostanza i lavoratori che pagano le tasse, salvaguardando i profitti di azionisti e banche. L’IRI, o meglio la sua controllata Finsider, controlla a questo punto tutta la siderurgia italiana a ciclo integrale (altiforni di Portoferraio, Piombino, Bagnoli e Cornigliano) e conosce un nuovo boom grazie al secondo conflitto mondiale. A fine conflitto i dirigenti Finsider vengono tutti indagati, ma nessuno punito, perché “hanno difeso gli impianti” dalla rapacità dei tedeschi.

Il secondo dopoguerra
A dirigere Finsider nel 1945 è chiamato “l’ebreo” Oscar Senigallia, autore dell’omonimo “piano” e fautore della necessità strategica di sviluppare una siderurgia pubblica, perché servono investimenti di grande portata (ancora una volta lo stato come capitalista collettivo). Vuole impianti a ciclo integrale, basati sull’importazione via mare di minerali e carbone in stabilimenti costieri, contrapponendosi alla linea dei siderurgici “padani” fautori del ciclo del rottame. Il piano è coerente con le necessità di una industria meccanica di massa e infatti piace molto all’industria automobilistica e degli elettrodomestici. Senigallia potrà largamente attingere ai fondi del piano Marshall e opererà una rigida divisione del lavoro: all’Ilva profilati, rotaie ed acciai rivestiti, a Cornigliano la produzione di laminati piani per l’industria automobilistica, a Terni gli acciai speciali, a Piombinoi prodotti lunghi, a Dalmine i tubi.
Finsider assorbe dalla fine degli anni ‘50 migliaia di immigrati dal sud, quelle “magliette a strisce” che animeranno le lotte degli anni ‘60.

L’ITALSIDER
Quando nel 1961 viene lanciato il nuovo polo siderurgico di Taranto Finsider diventa Italsider: nel 1970 pesa per il 41% sulla produzione siderurgica italiana (79% nel 1980).
In un contesto in cui l’Italia assorbe molti prodotti siderurgici (nell’edilizia, nell’auto negli elettrodomestici) e per buona parte li importa, sembra logico aprire nuovi stabilimenti e per la logica meridionalista dei governi si opta per il raddoppio dello stabilimento di Taranto e la progettazione del centro siderurgico di Gioia Tauro. Per questo la grave crisi mondiale del mercato dell’acciaio che si delinea dal 1975 coglie la Finsider in mezzo al guado. Nei dieci anni precedenti il numero di paesi produttori è raddoppiato, molti paesi a giovane capitalismo come Messico e Brasile sono ricchi di materie prime, altri paesi più maturi hanno però operato investimenti per produrre leghe e acciai speciali, mentre l’Italia è in parte legata al ciclo del rottame e della siderurgia leggera, quindi più esposta alla diretta concorrenza dei giovani produttori. Negli anni precedenti l’Italia ha anche perso il vantaggio di salari molto bassi. Nel 1980 una brusca contrazione delle richieste di acciaio a livello mondiale riduce l’export di Finsider, che, fortemente indebitata e in situazione di eccesso di capacità produttiva, comincia a registrare perdite. Per un po’ l’azionista IRI interviene con cospicui versamenti di denaro pubblico.

Torna l’ILVA
Nel 1982 FINSIDER ha circa 115.600 dipendenti diretti.
Produce circa 13 milioni di ton. di acciaio ed è il primo produttore europeo e il secondo mondiale. Ma alla fine degli anni ’80, a fronte del protezionismo Usa e della imposizione delle quote da parte europea, la situazione si fa insostenibile; prima viene smantellato lo stabilimento di Bagnoli e poi ceduto al gruppo Riva quello di Cornigliano (1988).
Il resto viene ceduto a una nuova società ILVA che dovrebbe raggiungere il pareggio di bilancio, grazie ad aiuti di stato per 7.500 miliardi: il nuovo management si lancia in una nuova campagna di investimenti. Ma nel 1990 l’implosione dell’Urss e dell’Europa dell’Est porta a un crollo dei prezzi dell’acciaio (non più assorbito in quei mercati); nel 1991 il bilancio Finsider è ancora in rosso. La Cee concede nuovi aiuti di stato a patto che si privatizzi, termine ultimo il 1995.

L’era dei RIVA
Nel febbraio l’Ilva viene ceduta ai Riva a “prezzi stracciati” (i Riva battono Lucchini con un’offerta di 1.649 miliardi di lire e 1.500 miliardi di debiti, a fronte di un fatturato di 9 mila miliardi). Essa comprende gli stabilimenti di Taranto, Novi Ligure, Genova e Torino con annessi a Marghera, Napoli e Salerno. Si tiene conto solo degli oneri sul debito e non del valore di mercato delle aree dismesse o della profittabilità dello stabilimento.
Il gruppo Riva nell’anno successivo all’acquisizione realizza un utile di 600 miliardi di lire ma ottiene una vantaggiosa dilazione del pagamento allo stato.
In più, grazie alla passività dei sindacati confederali, impone a Taranto la trasformazione di molti contratti a contratti a termine. Un elemento che agevola la manovra è che gli stabilimenti hanno sì un altissimo tasso di sindacalizzazione (80%) del personale in assunzione diretta, ma vi operano centinaia di piccole cooperative pirata che si occupano di pulizia, manutenzione, carico e scarico e che hanno un tasso di morti bianche fra i più alti in Italia (nel 1970 rilevati 2 infortuni per operaio all’anno). Inoltre ci sono consistenti infiltrazioni mafiose nel personale dirigente. Il passaggio al gruppo Riva si traduce in messa in cassa integrazione e in licenziamenti facili, forte intensificazione dei ritmi di lavoro e ulteriore diminuzione delle tutele per la sicurezza.
L’omertà di cui il gruppo godrà da parte delle istituzioni terrà nascosto per anni il pesante tributo di sangue che l’azienda farà pagare ai suoi dipendenti avvelenandoli gradualmente e avvelenando i quartieri operai costruiti intorno al polo di Taranto e di Genova.

Si scoperchia la pentola dei veleni
Nel 2012 la procura di Taranto procede contro l’Ilva per disastro colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e sversamento di sostanze pericolose e inquinamento atmosferico (diossina e benzopirene). Fin dai primi anni ‘90, sia alla popolazione che ai medici la situazione di pericolo è evidente: aumentano i mesotelioma, le leucemie, le patologie tumorali e le malattie della tiroide. Nonostante denunce e appelli però le autorità restano latitanti”. Oggi è assodato che l’impianto di Taranto è responsabile di 11.550 morti e di 27 mila ricoveri per malattie cardiache e respiratorie in 7 anni. A Genova e Taranto la speranza di vita è stata drasticamente ridotta, con particolare incidenza sui bambini. La famiglia Riva e i dirigenti, secondo la Procura di Taranto, erano coscienti delle violazioni delle più elementari norme di sicurezza. Anzi proprio grazie a queste violazioni i profitti sono schizzati alle stelle. Anche il governatore Vendola sapeva (lo rivelano intercettazioni fra lui e l’ex AD Archinà).
Vengono arrestati Emilio Riva, presidente dell’Ilva Spa fino al maggio 2010, il figlio e suo successore Nicola Riva, l’ex direttore dello stabilimento di Taranto, Luigi Capogrosso, il dirigente capo dell’area del reparto cokerie Ivan Di Maggio e il responsabile dell’area agglomerato Angelo Cavallo.

Il governo Monti con la legge 171/2012 stanzia 330 milioni di € per la bonifica dell’area di Taranto e con la legge 231/2012 permette all’Ilva di continuare a produrre e a commercializzare i prodotti già realizzati, rimandando i termini entro i quali l’azienda dovrebbe essere messa a norma dal punto di vista degli standard ambientali.
Monti, Confindustria e sindacati si oppongono alla chiusura dell’azienda sia per la perdita di migliaia di posti di lavoro, sia per l’importanza fondamentale dell’azienda per l’economia italiana (l’acciaio prodotto da Ilva fa sì che non ci si debba rivolgere alle acciaierie straniere, con acciaio a prezzi maggiorati).

Il Commissariamento
Il 22 aprile 2013 si forma il governo Letta, che il 4 giugno affida la gestione dell’Ilva al commissario Enrico Bondi (nota 1). La nomina suscita polemiche perché Bondi era stato scelto nell’aprile 2013 come AD dalla famiglia Riva proprio per l’Ilva. Bondi sarà sostituito nel giugno 2014 da Piero Gnudi. Nel 2013 il M5S definisce il piano di risanamento approvato dal ministro per l’ambiente Orlando un provvedimento “ammazza Taranto”. Bondi e Gnudi saranno poi indagati per non aver migliorato la situazione di grave inquinamento. Nel gennaio 2015 viene creato un Collegio Commissariale composto da Piero Gnudi, Corrado Carrubba ed Enrico Laghi.
Ma l’Ilva continua ad inquinare. Nel 2018 continua a sversare nell’atmosfera il 93 per cento di tutta la diossina prodotta in Italia insieme al 67 per cento del piombo.
Nel gennaio 2016 (governo Renzi) l’Ilva viene messa in vendita e nel giugno 2017 (governo Gentiloni) la multinazionale indiana Arcelor Mittal vince la gara pubblica per assumere il controllo parziale dell’acciaieria: attraverso la controllata Am Investco, affitta l’Ilva, impegnandosi ad acquisirla in seguito dopo gli opportuni negoziati con i tre commissari straordinari che dal 2015 guidano l’azienda.
In tutti questi anni, come dimostra un report della Gabanelli l’Ilva perde fra il 2012 e il 2014 ben 2,18 miliardi; e fra il 2015 e il 2018 altri 2,16 miliardi. Il più si sono perse quote consistenti di mercato

Nota 1: Enrico Bondi classe 1934 è stato l’uomo a cui più frequentemente si è ricorso nella storia italiana nei commissariamenti: prima la Montedison, poi il gruppo Lucchini, nel 2003 la Parmalat. Nel 2013 ha collaborato come supervisore delle liste a Scelta Civica di Mario Monti.