L’Intifada araba è ripartita. Sostegno incondizionato alle piazze in rivolta!

“Non sono le pallottole ad uccidere,

è il silenzio.” (Muhammad Taha)

Pochissimi se ne sono accorti, specie alla sinistra radicale indaffarata a rincorrere le chiappe del duo Salvini-Meloni frignando sul Mes e a prepararsi a nuovi flop elettorali, ma sulla sponda sud del Mediterraneo e in Medio Oriente è ripartita l’Intifada araba, e alla grande. Nell’ultimo biennio le piazze di alcune capitali e di molte città arabe si sono riempite, a seconda dei casi, di decine, centinaia di migliaia, milioni di dimostranti intenzionati/e a battersi contro i rispettivi regimi. A farlo, nonostante lo spettro della tragedia siriana agitato minacciosamente davanti ai loro occhi da generali e despoti che sognano di emulare le gesta del mitico Assad.

Questa nostra presa di posizione, come Tendenza internazionalista rivoluzionaria, è un invito ai militanti di classe e ai proletari più coscienti a rompere il silenzio su questi grandi avvenimenti, che fanno il paio con quelli in corso nelle Americhe (Cile, Haiti, Colombia, Ecuador, Bolivia). E a far sentire in tutti i modi possibili la nostra solidarietà attiva, il nostro sostegno incondizionato, alle piazze arabe in rivolta. Specie ora che si moltiplicano i segni di manovre dei poteri costituiti, locali e globali, per cercare di avviare una devastante deriva di tipo siriano e innescare nuove guerre.

Le sollevazioni del 2011-2012 e l’offensiva controrivoluzionaria

Per inquadrare in modo adeguato gli avvenimenti in corso in Algeria, Sudan, Iraq, Libano, paesi arabi di cruciale importanza politica, e le loro ricadute in Iran, sarebbe necessario un ampio e molto dettagliato sguardo all’indietro. E sarebbe necessario, naturalmente, fare il punto sull’evoluzione sempre più caotica e centrifuga della situazione economica e politica mondiale. Ma lo scopo di questo nostro testo è solo quello di gettare un sasso nello stagno. Lasciamo quindi sullo sfondo il contesto internazionale, e ci limitiamo a fare alcune considerazioni sugli immediati antecedenti dei grandi scontri di classe del 2018-2019: la lotta anti-coloniale degli anni ’50 e ’60 del secolo scorso e le forti sollevazioni popolari e proletarie che andarono a comporre l’Intifada degli anni 2011-2012 – il sommovimento che ha dato avvio al secondo tempo della rivoluzione democratica e anti-imperialista nel mondo arabo con la parola d’ordine Ash’ab iurid isquat al-nizam, “il popolo vuole abbattere il regime!”.

Perché parliamo di “secondo tempo”?

Per distinguerlo dal primo che fu rivolto essenzialmente contro le potenze coloniali europee. Queste avevano preso progressivamente possesso della regione dagli albori del 1500 fino alla spartizione formale delle province arabe del decaduto impero ottomano attuata con l’accordo Sykes-Picot del 1916. I capitoli più recenti della vibrante storia della resistenza dei popoli arabi, e in particolare delle classi sfruttate del mondo arabo, all’oppressione coloniale europea si aprono in Algeria negli anni ’30 dell’ottocento con la guerriglia di lunga durata guidata da Abd el-Khader, e vengono a compimento negli anni ’50 e ’60 del novecento: con l’avvento al potere dei Liberi Ufficiali di Nasser in Egitto, la grande rivolta popolare irachena che detronizza la monarchia asservita ai britannici, la vittoria sulla Francia della guerra di indipendenza algerina, la nascita dell’Olp, la salita al potere di Gheddafi in Libia… In questa congiuntura storica gli artigli del vecchio colonialismo sono stati limati e in qualche caso tagliati. Ma data l’importanza strategica dell’area, la cassaforte mondiale n. 1 di petrolio e di gas del capitale globale, la controffensiva delle potenze imperialiste non ha tardato a prendere corpo. Era urgente riportare le cose all’indietro, e nel più breve tempo possibile. Tanto più perché nel periodo di maggior effervescenza della lotta anti-coloniale si era affacciata la prospettiva dell’unificazione del mondo arabo, e tra gli sfruttati aveva acquistato influenza un sia pur molto vago “socialismo arabo”. Alla testa della controffensiva gli Stati Uniti (Libano, 1958) e Israele, talvolta in attrito, per lo più in combutta con Francia, Gran Bretagna e Italia, le vecchie potenze coloniali possedute dall’ossessione di prendersi la rivincita sui colonizzati ribelli. Questa reazione ha impedito alle sollevazioni popolari di questa ricca, vasta ma frammentata regione di portare il processo di sviluppo capitalistico delle economie nazionali “fino in fondo”, e neppure a tre quarti (alla cinese tanto per dire). Meno ancora ne poteva seguire la costruzione di democrazie borghesi all’europea. Anche là dove è apparso un simulacro di elezioni e pluripartitismo, le masse sfruttate urbane e rurali hanno continuato a essere trattate dalle élite militari e civili autoctone col pugno di ferro; fu proprio Nasser a dare il buon esempio facendo fucilare due operai comunisti rei di organizzare scioperi. Si instaurò in quegli anni la prassi propagandistica, tuttora in vigore, secondo cui ogni rivolta, ogni conflitto proletario e popolare che si dà nel mondo arabo è sempre e comunque frutto di oscure macchinazioni esterne, ed è perciò necessario e giustificato schiacciarlo nel sangue.

A partire dalla bruciante sconfitta militare che Israele inferse nel 1967 agli stati arabi, è iniziata una nuova offensiva imperialista contro l’intero mondo arabo guidata dall’asse Washington-Tel Aviv con l’immancabile sostegno europeo. La rivoluzione democratica, anti-coloniale araba è rimasta perciò del tutto incompiuta, verso l’esterno e verso l’interno. Non sono fioriti né lo sviluppo economico, né la democrazia. L’uno in concorrenza con l’altro (nonostante l’esistenza di una Lega araba), i paesi arabi si sono inseriti nel mercato mondiale in posizione del tutto subordinata – senza uno straccio di industrializzazione un minimo completa ed equilibrata, e senza alcuna forma di integrazione reciproca che ne riducesse in qualche modo la dipendenza. Dalla metà degli anni ’70 in poi, quando l’uno dopo l’altro hanno adottato la politica neo-liberista di “apertura” imposta dall’asse FMI/vecchie potenze coloniali/USA, il carattere dispotico dei poteri nati dalla lotta anti-coloniale si è ulteriormente accentuato. La classe operaia, il vastissimo esercito proletario di riserva e i contadini poveri sono stati posti sotto una soffocante sorveglianza.

Questo processo si è intensificato dopo l’insurrezione iraniana del 1979, che minacciò di incendiare l’intera regione molto al di là dell’Iran. Con il regime dello Scià andava infatti in frantumi una delle colonne portanti della dominazione occidentale in Medio Oriente. L’intera offensiva neo-coloniale rischiava di fallire sul nascere. Il formidabile moto iraniano fu rapidamente confiscato e dirottato su una falsa pista dagli ayatollah khomeinisti, le sue avanguardie massacrate senza pietà da nuovi “pii” governanti di Teheran. Neppure questa confisca/dirottamento del moto iraniano, però, bastava a tranquillizzare Washington e le cancellerie europee. Venne messa in azione l’arma bellica. Attraverso tre devastanti massacri, la guerra tra Iraq e Iran e le aggressioni internazionali all’Iraq del 1991 e del 2003, la nuova offensiva imperialista contro l’intero mondo arabo ha fatto un balzo in avanti. L’occupazione militare e lo squartamento dell’Iraq l’ha sigillata. “Siamo tornati. I padroni di questa regione siamo noi!”, si è detto anche nei palazzi di Roma.

Nello stesso giro di anni Israele, forte degli accordi di Camp David, riservava un trattamento altrettanto infame ai palestinesi di Gaza e Cisgiordania espandendo incessantemente il suo “spazio vitale” e togliendo ossigeno alle masse palestinesi. Ha potuto farlo mettendo a punto una delle più imponenti macchine belliche del mondo e dettando ad Oslo le sue condizioni a una dirigenza di al-Fatah pronta ad ogni compromesso, e infine trasformata in un apparato di controllo poliziesco e di intermediazione affaristica. Lo scoppio della grande crisi del 2008 e la crisi alimentare in Nord Africa hanno reso la situazione insopportabile, funzionando da inneschi dei sommovimenti del 2011-2012 che hanno attraversato in lungo e in largo il mondo arabo dal Marocco all’Arabia saudita come un’unica onda sismica, seppur di potenza assai diversificata. «L’insorgenza di milioni di operai, sfruttati, diseredati, giovani senza futuro, donne senza diritti – la cui partecipazione in massa nelle piazze e sui luoghi di lavoro ne costituisce uno dei dati più dirompenti – ha riaperto nelle piazze, con epicentro in Egitto, il processo della rivoluzione democratica e anti-imperialista in una regione strategica del globo. Questo processo è denso di pericoli per la stabilità del capitalismo globale da anni alle prese con una crisi produttiva e finanziaria che si va approfondendo proprio in Europa e in Occidente. E, al polo opposto, è di grande importanza per la ripresa delle lotte e dell’organizzazione del movimento proletario nel mondo intero. La grande Intifada araba, infatti, costituisce uno scatto in avanti offensivo del moto di risveglio delle masse lavoratrici del Sud del mondo in atto da tempo, e chiama direttamente in causa anche i lavoratori del Nord del mondo” (Il cuneo rosso, n. 1, luglio 2012).

A distanza di anni registriamo che le élite capitalistiche globali e locali hanno compreso la grande sfida che quell’insorgenza portava loro assai meglio di quanto i proletari e i militanti di classe europei abbiano compreso che la forza espressa sul campo dalle masse oppresse arabe era un aiuto formidabile alla loro riscossa. In alcuni settori giovanili e in alcune lotte degli immigrati c’è stato il richiamo a piazza Tahrir; ma quando si è dispiegata la controffensiva contro-rivoluzionaria, ai nostri fratelli di classe egiziani, tunisini, siriani, del Bahrein, yemeniti, impegnati in una lotta sanguinosa contro forze nemiche soverchianti, dall’Italia e dall’Europa non è arrivato nessun concreto aiuto, neppure un incoraggiamento. Su tutta la vicenda è caduto un fitto silenzio, per non parlare degli sciagurati relitti dell’“anti-imperialismo” campista sotto-borghese che hanno tifato per Assad e forse per al-Sisi in quanto campioni della lotta al “fascismo islamico” e autentici, almeno il primo, anti-imperialisti (!!!). La nostra posizione di internazionalisti militanti coerenti, schierati dalla parte delle masse arabe insorte, è rimasta di conseguenza isolata. Isolata ma nitida, priva di equivoci. Allo stesso modo davanti alla ripartenza dell’Intifada, quasi tutti i cosiddetti “antagonisti” tacciono. Subiscono di fatto l’egemonia dei poteri imperialisti che, per loro ottime ragioni, non intendono dare voce né credito alle nuove insorgenze. Noi denunciamo questo silenzio omicida e riproponiamo con orgoglio, invece, la nostra posizione come l’unica che inquadra gli svolgimenti sociali e politici in corso in una prospettiva rivoluzionaria internazionalista, nell’immediato e per il futuro.

Sul fronte nemico, pur in un contesto di acuta concorrenza reciproca (a chi non fa gola lo scrigno arabo e medio-orientale?), i governi, gli stati, le multinazionali (vi dice qualcosa il nome ENI?), gli stati maggiori occidentali, la Russia, Israele, l’Arabia saudita, le altre satrapie del Golfo e i locali clan di potere, con l’usuale consulenza del FMI, si sono stretti in un’alleanza controrivoluzionaria globale per sbarrare la strada con ogni mezzo alle sollevazioni. Pur restando astutamente dietro le quinte, la Cina di Xi è pienamente solidale con l’intera gang di iene e avvoltoi, in quanto ha da difendere i propri investimenti nell’area. Che esigono stabilità, cioè a dire lo stabile schiacciamento delle classi lavoratrici. Chi dietro queste gigantesche rivolte di oppressi, rischiosissime per chi vi partecipa, vede la mano occulta delle cancellerie occidentali, è sotto l’influsso di allucinogeni, e dimostra uno sconfinato disprezzo per i lavoratori, i giovani, le donne arabe insorti, declassati al rango di milioni di marionette – una sorta di razzismo implicito che porta a ritenere le masse arabe incapaci, per natura, di un’azione politica autonoma.

In realtà i poteri forti dell’Occidente, dopo aver cercato inutilmente di impedire la detronizzazione di Ben Ali, Mubarak e Saleh, hanno fatto l’impossibile per soffocare sul nascere o deviare su binari morti l’iniziativa delle masse scese in campo, d’intesa (un’intesa più o meno conflittuale) con i locali despoti. Nessuno dei poteri capitalistici costituiti nel mondo, né di quelli dominanti né di quelli dominati, aveva alcun interesse a che la grande Intifada proseguisse e si radicalizzasse. Per cui si è saldato nei fatti un fronte unico reazionario dagli Stati Uniti di Obama alla Siria di Assad, che pur lacerato al suo interno da violenti contrasti di interessi, è stato compatto e ferocemente determinato nello sgomberare le piazze arabe da questa presenza indesiderata. Anche a costo di fare a pezzi interi paesi, massacrare gli insorti a decine di migliaia, gremire le carceri, instaurare un terrore più spietato di quello antecedente il 2011. La sconfitta, terribile ma pur sempre provvisoria, di questa insorgenza di massa ha aperto la strada agli impotenti e retrogradi succedanei di essa: il “terrorismo jihadista” e l’Isis. Avversari tanto più facili da battere per i monarchi del mercato mondiale quanto più, appunto, retrogradi nel loro settarismo confessionale e nella loro attitudine verso le donne, geneticamente ostili a mobilitare la sola forza capace di riscattare le classi lavoratrici arabe e “islamiche” dalla loro attuale condizione: la scesa in campo e l’organizzazione di decine di milioni di sfruttati e di sfruttate. Di più: ogni forma di jihadismo connotata in senso settario, come quella dell’Isis, sabota attivamente l’unità degli sfruttati, indispensabile per condurre fino in fondo ed anche solo per far avanzare, la stessa rivoluzione democratica. E si presta, nelle sue dirigenze, ad essere utilizzata per fini reazionari, salvo poi essere schiacciata quando non serva più – in un gioco speculare a quello in cui sono stati coinvolti i curdi, utilizzati contro l’Isis e poi “abbandonati” nello spazio di un mattino.

Perché tutto è ricominciato

Le vittorie a catena del fronte controrivoluzionario non hanno potuto, però, rimuovere le cause di fondo, strutturali e politiche, che avevano generato l’Intifada del 2011-2012. In gran parte del Nord Africa e del Medio Oriente arabo il “blocco dello sviluppo” si è cronicizzato. E perfino l’Arabia saudita, che ha avuto per diversi anni consistenti tassi di crescita, ha conosciuto la recessione nel 2017 ed è stata costretta ad affrontare per la prima volta bilanci statali in forte deficit (-17,2% nel 2016) e a introdurre imposte sui consumi di massa. Nell’insieme la regione resta oggi l’area col più alto tasso di disoccupazione giovanile al mondo e livelli impressionanti di povertà e emarginazione (in Iraq ci sono 4 milioni di disabili, in Siria il 50% della popolazione è emigrato o sfollato). La verticale caduta a metà 2014 del prezzo del petrolio, che per diversi paesi arabi è la prima voce dell’export (per l’Algeria è addirittura il 98% del valore totale), non è stata compensata dalla sua successiva ripresa. E l’avvicinarsi di una nuova recessione non dà ragione all’ottimismo saudita che costruisce bilanci sulla base degli 80 $ a barile, soglia che appare irraggiungibile nel breve-medio periodo. La generale intensificazione della violenza statale dopo il 2011 riflette l’impossibilità dei governi arabi e medio-orientali di fare tangibili concessioni reali alle aspettative della massa dei dimostranti.

Tuttavia neppure usando o ventilando l’uso del terrore è stato possibile imporre alle classi sfruttate e oppresse del mondo arabo un lungo inverno di rassegnazione. Gli anni dal 2012 al 2017 sono stati punteggiati di lotte sindacali e politiche in Tunisia, Marocco, Iraq, Egitto, Giordania. Poi, dal 30 marzo 2018 l’intero mondo arabo ha iniziato di nuovo a ribollire. Il segnale è partito ancora una volta dai palestinesi, mobilitati a Gaza nella “marcia per il ritorno”, che hanno avuto il coraggio estremo di sfidare l’assedio israeliano e lo strisciante genocidio – anche in questo caso l’eco in Italia e in Europa è stata limitata a piccoli circuiti. Dopo qualche mese, il 19 dicembre 2018, è esplosa in Sudan una colossale mobilitazione di piazza che ha decretato la fine di al-Bashir, da trent’anni al comando della nazione. Il 22 febbraio 2019 è iniziato il movimento di protesta algerino, tuttora in piedi al suo 45^ venerdì di mobilitazione, che vuole farla finita, oltre che con Bouteflika (questo l’ha ottenuto), con i suoi eredi e il governo dei militari. Nei primi giorni di ottobre è partito un moto popolare di protesta a Baghdad e nel sud dell’Iraq. Negli stessi giorni in Libano avveniva una vera e propria sollevazione di massa, non inquinata da divisioni confessionali, contro l’intera “classe politica” libanese. Nel mezzo, i partecipatissimi scioperi degli insegnanti in Marocco in lotta contro la privatizzazione della scuola e i processi di precarizzazione, in Giordania, nei territori occupati della Cisgiordania, e in Egitto le animate proteste per la libertà dei prigionieri politici (più di 40.000!, mentre qui si continua a parlare solo di Regeni…). E per un evidente effetto-contagio è seguito in novembre lo scoppio delle proteste in tante città dell’Iran.

In Algeria l’innesco della mobilitazione è stato politico: la pretesa delle cricche militari-affaristiche al potere di candidare l’infermo Bouteflika per un quinto mandato. In tutti gli altri casi, la scintilla è stata invece l’adozione di misure ultra-liberiste con tagli verticali alle sovvenzioni statali sul prezzo del pane, di altri generi alimentari, della benzina e di altri derivati del petrolio, e l’aggravio delle imposte sui consumi. I salari, infatti, sono così bassi che non è possibile gravarli di altri prelievi diretti – solo in Arabia saudita è stato possibile effettuare un prelievo mensile (razziale) di 800 rial pari a 213 dollari sui salari dei 12 milioni di proletari immigrati. Ma in Sudan, Iraq, Libano, la rabbiosa reazione alle nuove tasse (2) si è subito trasformata nella richiesta e nella volontà di farla finita con i rispettivi regimi politici tassa-poveri (qualcosa di analogo alla dinamica delle contemporanee proteste in Centro e Sud America). Anche per questo parliamo del biennio delle rivolte arabe 2018-2019 come di un tutto oggettivamente unitario. Una ripartenza dell’Intifada araba che ha alla base cause comuni, alcune caratteristiche e aspirazioni comuni, senza con ciò poter dare per scontata l’unificazione delle spinte di lotta dei diversi paesi, che anzi è tutta da venire.

I tratti comuni delle sollevazioni del 2018-2019

Ecco alcuni tratti caratteristici comuni delle sollevazioni:

*sono movimenti sociali imponenti, con milioni di manifestanti in Algeria e Sudan, centinaia di migliaia in Libano e in Iraq, decine di migliaia in Palestina e in Iran, espressione quasi ovunque di una forte spontaneità e di autentici processi di auto-organizzazione – per quanto le organizzazioni di opposizione ai governi/regimi contestati siano ovviamente attive in essi.

*Quanto a composizione di classe, sono movimenti sociali variegati, con una fortissima presenza di proletariato e semi-proletariato giovanile, e una notevole partecipazione dei ceti medi professionali (medici, avvocati, ingegneri, giornalisti, etc.) – uniti dalle bandiere nazionali onnipresenti nelle dimostrazioni, ma dagli interessi di fondo distinti e, soprattutto in prospettiva, divergenti, come già si tocca con mano in Algeria e in Sudan.

*Molto forte è la presenza e il protagonismo delle donne, soprattutto delle giovani generazioni, con caratteristiche differenti nei diversi paesi. Particolarmente ampia in Libano e Algeria, dove alcuni gruppi di donne hanno anche presentato specifiche rivendicazioni. Di estrazione sociale più vicina al ceto medio in Sudan (dove è nato un Forum delle donne), mentre in Iraq, dove gli scontri sono stati più sanguinosi e le masse in campo tra le più diseredate, la presenza femminile è notevole nell’aiuto volontario agli insorti (sul piano dell’assistenza medica), e negli scioperi studenteschi e degli insegnanti.

*I moti di protesta rivendicano la fine dei regimi esistenti, politico-militare in Algeria, militare-politico-religioso in Sudan, politico-confessionale in Libano, politico-settario-miliziano in Iraq, la totale liquidazione delle attuali élites al potere che hanno tutte perso legittimità agli occhi di larghissima parte della popolazione in quanto dispotiche, nepotiste, corrotte, al servizio dei ricchi e degli interessi stranieri – in Libano lo slogan ritmato è “Killun, yani killum” (Tutti vuol dire tutti). Vogliono la nascita di regimi civili democratici “a sovranità popolare”, rispettosi dei diritti e dei bisogni delle “classi popolari”, con l’esclusione dei militari dal potere.

*Salvo che in Iraq dove hanno dovuto rispondere ad una repressione sanguinaria, questi moti hanno adottato metodi di mobilitazione fino ad oggi pacifici per evitare di ripetere le terribili esperienze del recente passato – la guerra civile algerina del 1992-2002, con i suoi 200.000 morti, la non meno nefasta guerra civile libanese del 1975-1991, la mattanza siriana, il caos libico, etc.; anche se le sollevazioni non potranno aggirare il nodo della forza e della repressione statale che su di loro incombe – o si è già abbattuta, come in Sudan e in Iraq.

*Pressoché ovunque le manifestazioni esprimono l’aperto rifiuto delle ingerenze straniere. L’Hirak (movimento) algerino è quello che ha espresso con maggior forza questo rifiuto, in due modi del tutto inequivocabili: da un lato la cricca di potere formata dai quadri FLN e dai generali è accusata di aver svenduto il paese e la sua indipendenza ai satrapi del Golfo e alle multinazionali; dall’altro c’è in tutti i cortei il riferimento martellante alla guerra di liberazione nazionale contro la Francia, sotto forma di immagini dei ‘martiri’, di cartelli, di dichiarazioni, di slogan – uno dei più ripetuti è “i generali nella spazzatura, e l’Algeria conquisterà l’indipendenza” (Istiqlal-indipendenza è tra le parole-chiave dei 45 venerdì di lotta). Un sentimento analogo è presente anche nella mobilitazione libanese, riferito in questo caso ai governanti civili, in particolare ad Hariri, legato a doppio filo ai sauditi. In Iraq è sempre più acceso il rifiuto della presenza delle milizie iraniane, tra le più brutali nella repressione violenta della rivolta, e si accoppia con il rifiuto di lunga data della presenza di truppe, contractor e manager statunitensi. In Sudan è stata duramente contestata la partecipazione di truppe sudanesi alla guerra nello Yemen decisa per compiacere i sauditi, e in generale è respinta l’ingerenza saudita nella vita economica e politica sudanese. In questo quadro generale di aperto rifiuto delle ingerenze straniere, non mancano le contraddizioni: che altro senso avrebbe consegnare al-Bashir alla Corte internazionale di (in)giustizia dell’Aia se non quello di cedere al volere degli USA e delle altre potenze imperialiste primatiste assolute e imbattibili in materia di “crimini contro l’umanità”? che senso ha appellarsi all’Italia da parte di un gruppo di abitanti di Nassiriya contro gli eccidi di dimostranti da parte delle “forze di sicurezza” irachene (così sembra sia avvenuto a metà novembre) se non quello di chiedere al mandante-istruttore di sconfessare gli agenti che ha addestrato esattamente a quel compito?

I passi avanti rispetto al 2011-2012

Rispetto all’Intifada del 2011-2012, ci sono due novità di grandissimo rilievo politico: il minore credito dei partiti islamisti, e la minore o azzerata fiducia nei militari. Non è il caso di dimenticare, infatti, che nel giugno 2013 al-Sisi è salito al potere forte di una vera e propria (e tragicamente errata) investitura popolare dovuta, da un lato, alla fallimentare prova di governo data dai Fratelli musulmani e dall’altro al lascito ancora vivo del nasserismo.

Né è da dimenticare che negli anni ’80 e ’90 i primi grandi e accreditati collettori del malcontento popolare erano stati, in Algeria, il Fronte islamico di salvezza di Madani e Belhadj, e in Sudan, il movimento islamista di al-Turabi. Questa volta non sono sfuggiti alla generale perdita d’influenza dei movimenti politico-confessionali neanche Hezbollah e il partito di Moqtada al-Sadr. Nelle piazze libanesi ed irachene le proteste sono state animate propri dai settori sociali e “religiosi” di riferimento dei due partiti, e si sono dirette contro i governi sostenuti o composti da essi. Per il sistema di potere degli ayatollah iraniani, poi, le proteste di massa delle scorse settimane, per quanto subito stroncate con centinaia di morti, anche ragazzini di 13-14 anni, e migliaia di arresti, segnano un altro colpo di maglio dato dai lavoratori a una macchina oppressiva già lesionata e screditata dall’insostenibile polarizzazione sociale esistente tra un pugno di ricchi onnipotenti (con e senza le vesti religiose) e 50 milioni di famiglie assediate o minacciate dalla povertà – secondo la denuncia del sindacato della Bus Company di Teheran e dintorni.

Grande novità! Che registra in generale l’inarrestabile processo di laicizzazione della società arabe e medio-orientali, e in particolare il logoramento dell’ipotesi islamista, sia radicale che moderata, una volta che sia sottoposta alla dura prova dei fatti. Centrata anche sotto questo aspetto la denuncia del sindacato iraniano che vede nel governo e nello stato iraniani degli esecutori delle politiche dettate da FMI e Banca mondiale (altro che Corano!): con tanto di programmi di aggiustamento strutturale, privatizzazioni estensive, zone di libero scambio, compressione dei salari, licenziamenti di massa, taglio dei sussidi statali e inflazione, mercificazione del diritto all’istruzione, appropriazione privata delle risorse pubbliche da destinare all’assistenza e sicurezza sociale, stipendi milionari e lucrosi proventi per i clan favoriti e le loro stirpi. Una sorta di remake delle scandalose disuguaglianze sociali dei tempi dello Scià. E per quanto sia impresa ardua battere in demagogia e capacità di manipolazione il clero di ogni confessione, la realtà bussa alle residenze dorate di questi impostori con la sua mano di acciaio. Il tempo loro concesso sta scadendo…

Grande novità, sottolineiamo, in particolare per quei paesi in cui la spaccatura confessionale è stata per decenni un ostacolo pesantissimo all’unità del campo degli sfruttati, come in Libano, in Iraq, nella stessa Algeria e in Sudan. È altrettanto rilevante che in Algeria si siano ritrovati insieme uniti nelle dimostrazioni arabi e amazigh (berberi), sottraendo al gioco del potere e dei poteri esterni che lo puntellano, l’annosa carta coloniale francese della divisione “etnica” – “siamo tutti amazigh”, si è gridato forte ad Algeri. Anche in Sudan Bashir e il suo clan sono stati contestati per aver usato la carta della divisione etnica: “ehi, razzista/i, siamo tutti Darfur”, si è gridato forte a Khartum.

Il catalogo delle buone notizie include l’amplissima presenza e lo speciale protagonismo delle donne nelle sollevazioni, anzitutto delle leve giovanili e studentesche. È vero: erano in piazza anche nel 2011-2012, benché per la stragrande maggioranza delle femministe metropolitane la cosa sia stata allora, al pari di oggi, un non evento. Questa volta, però, l’integrazione delle donne nel movimento di lotta e la forza delle loro specifiche rivendicazioni è stata ancora maggiore, specie in Algeria, Sudan e Libano. Se la cosa si generalizzerà nelle future tornate di questo lungo conflitto, come pensiamo e auspichiamo, saranno cavoli acidi per tutti quei bestioni, arabi ed europei, che si sono dilettati a dileggiare le donne arabe e “islamiche” quasi fossero schiave nate, felici di inginocchiarsi davanti ai maschi da sempre e per sempre.

La reazione dei poteri costituiti, locali e globali

La reazione dei poteri locali ha combinato la violenza terroristica (il terrorismo di stato) con tattiche attendiste per cercare di sfiancare le lotte.

Sui confini di Gaza Israele ha schierato contro la marcia del ritorno un centinaio di cecchini liberi di uccidere a piacimento – per la “comunità internazionale” (dei briganti) ne ha piena facoltà. In Sudan il 3 giugno i militari hanno puntato tutto sul potere dissuasivo di un massacro esemplare (oltre 100 morti in un giorno a Khartum) scatenando contro i dimostranti che assediavano il quartier generale dell’esercito le forze speciali (gli ex-Janjaweed) allenate ai macelli in Darfur. Gli è andata male: davanti all’ingigantirsi del movimento, infatti, hanno dovuto liquidare Bashir e iniziare a trattare. A Baghdad, Nassiriya, Najaf, Karbala, Kut e Bassora il governo iracheno, spesso tramite le milizie filo-iraniane, ha fatto laghi di sangue: centinaia di assassinati e almeno 17.000 feriti, per terrorizzare i manifestanti, i pubblici dipendenti, insegnanti e studenti in sciopero, e stroncare il blocco dei porti e delle raffinerie. Anche in questo caso la forza della rivolta popolare non è stata piegata. Il premier Mahdi ha dovuto rassegnare le dimissioni e la massima autorità sciita irachena, al-Sistani, ha pensato bene di invitare le cricche di profittatori al potere ad abbassare il tiro e indire nuove elezioni – a questo punto, i compiti terroristici sono passati alle milizie filo-iraniane. In Algeria e Libano la posizione dei circoli di governo è stata più prudente e attendista. Anche in Algeria al posto di comando c’è sempre la repressione nella forma di arresti mirati degli agitatori ritenuti più pericolosi, incluso Lakhdar Bouregaa, un veterano della guerra di indipendenza di 86 anni; ma finora senza massacri. Centinaia di arresti con un occhio di riguardo agli amazigh (berberi) additati per essere i fomentatori del “disordine”, “falsi algerini”. In aggiunta, una bella dose di terrorismo propagandistico incurante dei paradossi – i governanti accusati nelle strade di avere svenduto le ricchezze del paese alle multinazionali (italiane, francesi, statunitensi, britanniche, tedesche, russe, cinesi, turche) presenti in forze sul territorio algerino, e ai satrapi del Golfo, si permettono di dare dei “traditori, perversi, mercenari dei francesi” e, per buon peso, omosessuali, ai milioni di dimostranti che si prefiggono di conquistare una nuova e definitiva “indipendenza” dai capitali stranieri. Il movimento non si è fatto intimidire e con la sua imponenza ha decretato l’uscita di scena di Bouteflika e fatto slittare per due volte le elezioni presidenziali. Ora che le elezioni delegittimate si sono tenute, con una partecipazione reale più bassa dell’ufficiale 39%, e l’élite politico-militare-affaristica al potere cerca di dare forza all’eletto Tebboune, sono cominciate le bastonature di massa. Dove? A Orano, città dalla grande tradizione di lotta, nella quale l’affluenza alle urne è stata vicina allo zero. In parallelo si intensifica il clamore intorno al rischio (inesistente) di una secessione degli amazigh. La stessa scena si è materializzata quasi in contemporanea a Beirut, dove a metà dicembre si sono verificati i primi duri attacchi alle manifestazioni, mentre la feccia della nomenklatura nazionalista cerca di dirottare la collera popolare contro i rifugiati siriani e palestinesi, e di rinfocolare le divisioni intra-libanesi su basi confessionali.

Sotto la guida dei loro consiglieri e soprastanti europei, statunitensi, sauditi, qatarioti, russi, cinesi, i potentati borghesi locali si sforzano di uscire dai guai con il metodo applicato nel 2011-2012: liquidare alcune figure-simbolo (Bouteflika, al-Bashir, Mahdi, Hariri) allo scopo di conservare il più possibile intatti gli apparati e i meccanismi di dominio consolidati e rispondenti alle necessità di controllo su tutta l’area dei capitali transnazionali. Le concessioni effettive alle piazze ribollenti sono state finora assai modeste. In Sudan è stato varato un complicato processo di transizione lungo ben 39 mesi verso un potere politico interamente civile (elezioni fissate per il 2022); epperò il controllo delle forze armate sui ministeri-chiave della Difesa e degli Interni resta assoluto, e il loro diritto di veto sulle decisioni del nuovo governo la dice tutta su quanto i generali siano determinati a bloccare ogni effettivo cambiamento. A capo del governo, è stato messo l’economista britannico-sudanese Hamdok, ex-funzionario della Deloitte&Touche, dell’African Development Bank e delle Nazioni Unite, non esattamente un rivoluzionario preso dalla strada. In Algeria lo stallo è totale: solo negli ultimi giorni Tebboune ha aperto un piccolo spiraglio al “dialogo” nella speranza di dividere l’hirak. Una dinamica analoga, ma molto più insanguinata, è in corso in Iraq, dove il premier Mahdi si è dimesso, qualche militare e poliziotto è stato punito per aver sparato ad alzo zero sui manifestanti, ma non è stato preso nessuno dei provvedimenti rivendicati dalle masse diseredate. Spettacolare il testacoda in Libano: per fermare la sollevazione, il governo Hariri è arrivato a promettere la revoca delle misure anti-popolari, il dimezzamento degli stipendi dei ministri, una più forte tassazione dei ricchi e, roba da non credere!, un “contributo” di 3-4 miliardi di dollari del sistema bancario libanese al risanamento del bilancio statale… sennonché, alla fine di un lungo giro dell’oca che ha visto il miliardario Hariri dimettersi da capo del governo, è arrivata la ricandidatura dello stesso Hariri, il bersaglio n. 1, anche se non il solo, della sollevazione. È la prova provata della irriformabilità del sistema di potere esistente – sebbene alla fine il capo dello stato Aoun gli abbia consigliato di farsi da parte (mettendosi dietro le quinte per un po’) per incaricare un “tecnico”, Hassan Diab.

Il punto è questo: come ha provato la furiosa reazione contro-rivoluzionaria seguita alle sollevazioni del 2011-2012, il compimento della rivoluzione democratica anti-imperialista nel mondo arabo e in Medio Oriente, un vero, ampio riconoscimento di diritti alle classi sfruttate e la radicale redistribuzione della ricchezza rivendicati da queste sollevazioni, sono in frontale contrasto con la stabilità del capitale globale. A loro volta questi radicali cambiamenti sono in frontale contrasto con il dominio imperialista su questa area strategica del mondo esercitato attraverso élites capitalistiche autoctone, economiche, politiche, militari, confessionali, amministrative, sempre più integrate al capitale globale e separate dalle proprie genti. La democrazia borghese, il welfare restano, ad oggi, lussi esclusivi dei paesi imperialisti. Lussi anche in Occidente tutt’altro che garantiti a prescindere, se solo si tiene a mente l’esperienza del nazi-fascismo (che non è stata una semplice “parentesi”), e i continui giri di vite degli ultimi decenni all’insegna di una combinazione tra politiche di austerità e autoritarismo preventivo e repressivo. Se questo accade in Occidente, figurarsi in Algeria e in Libano, in Sudan e in Iraq! Per non parlare del campo di concentramento di Gaza e della spietata dittatura anti-operaia iraniana.

Del resto, cosa i “nostri” governanti pensino di queste sollevazioni popolari e proletarie lo si può capire dal micro-spazio che riserva loro il sistema dei mass media (istituzionale per definizione). Ciò che prevale di gran lunga è l’ordine di oscurarle, affinché rimanga credibile il mantra secondo cui “quel mondo fermo a 1400 anni fa” non è in grado di formulare alcuna rivendicazione “moderna” che possa riguardare anche la classe lavoratrice e la gioventù italiana e europea. Possono mai mettere in primo piano manifestazioni che smentiscono su tutta la linea la chiave di lettura confessionale (sunniti contro sciiti) spacciata ogni giorno come la fondamentale chiave di lettura di tutti gli avvenimenti arabi e medio-orientali? Manifestazioni che mettono sotto accusa i regimi più ligi al FMI o pronti a piegarsi senza fiatare ai super-padroni del mondo? Sollevazioni che, mettendo in questione i governi amici, mettono al contempo a rischio i grandi interessi economici e militari che l’Italia ha nel Maghreb e nella regione medio-orientale? Tutt’al più si potrà parlare di “uso eccessivo della forza” da parte dei poteri locali, come ha fatto l’ipocrita burocrazia dell’Unione europea, sempre con cura e molta misura, però. E lo si farà solo quando il governante di turno non è sufficientemente gradito e si spera di sostituirlo con qualche personaggio ancor più subordinato del perdente di turno. Ma, parlando in generale: che mille al-Sisi, al-Assad, Soleimani nascano in terra araba e in Medio Oriente! È questa la trasversale preghiera laica che i Mattarella e i Draghi, i Salvini e le Merkel, i Macron e i Johnson fino agli insignificanti figuranti Di Maio e Zingaretti, rivolgono al loro dio denaro con relativi ordini di scuderia per servizi segreti, truppe regolari, truppe mercenarie, managers, esperti, giornalisti e altri tipi di mercenari del “pensiero”. Non per nulla da decenni, quando dalle sollevazioni di massa e dalla lotta anti-imperialista emergono i Ben Boulaid, Ben M’hidi, Amirouche, i Lumumba, i Sankara; e quando dalla lotta di classe del proletariato arabo e medio-orientale nascono intrepidi militanti comunisti della causa proletaria (pensiamo alla leva di giovani marxisti che nei primi anni ’80 diede vita al Pcd’Iran); le sentenze di morte vengono comminate e fulmineamente eseguite senza bisogno di processi. Eppure – se gli antagonismi che stanno dietro alle sollevazioni sociali arabe resteranno operativi, e come può essere altrimenti? – neanche la più efferata delle repressioni potrà impedire il ritorno in forze della rivoluzione sociale.

I nodi che la nuova Intifada ha davanti

Questo ritorno è in atto. Ed è potente. I massacri, le minacce di massacri, la coriacea resistenza dei regimi contestati che si fanno forti del supporto dell’establishment capitalistico globale, non hanno potuto impedire il riemergere alla superficie del moto rivoluzionario dopo così pochi anni. In sé e per sé è una grande vittoria. Ma adesso queste sollevazioni si trovano davanti dei complicati nodi da sciogliere. Quello fondamentale è: cosa dovrà venire dopo la fine degli odiati regimi attuali, che tipo di potere, quali compiti economico-sociali dovrà assolvere, quale collocazione internazionale avrà? Finora non c’è stata una risposta chiara, tantomeno una risposta chiara in termini di classe ed egemone, a questi interrogativi. Se c’è, non riflette ad oggi gli interessi dei proletari e degli sfruttati, la forza sociale numericamente maggioritaria nelle mobilitazioni, e determinante nello scuotere i poteri costituiti. Questa mancanza è anzitutto il riflesso locale di un deficit globale di autonomia della classe lavoratrice, e rende incerto anche il cammino, tutt’altro che concluso, al rovesciamento degli attuali assetti di potere. Tuttavia i sommovimenti rivoluzionari continuano, non accettano più dei semplici cambiamenti di facciata e di toni. Le rivoluzioni imparano strada facendo a superare le proprie esitazioni e i propri errori. Nell’apprendere ciò che è necessario apprendere è decisiva, per le masse, l’esperienza diretta. E poiché si tratta in larghissima prevalenza di masse di giovani, c’è da attendersi che apprenderanno più in fretta. I segnali ci sono. Gli ostacoli, anche.

Esaminiamo un po’ più da vicino l’evoluzione della situazione prima in Sudan, poi in Algeria.

In Sudan i termini che meglio sintetizzano il messaggio della “gloriosa rivoluzione” sono: “libertà, pace, giustizia”. Libertà sta per libertà democratiche, negate in quel paese pressoché “da sempre”, prima dal colonialismo britannico, poi, salvo brevi parentesi, da ricorrenti regimi militari o clerico-militari. Pace sta per fine delle guerre intestine che dal 1983 hanno devastato il paese nelle regioni del Sud, Darfur, Sud Kordofan, Blue Nile, provocando oltre 2 milioni di morti, 4 milioni di rifugiati e sfollati, e una catena di carestie. Giustizia sta per “giustizia sociale”, e giustizia sociale per alcune misure basilari contro la dilagante miseria. L’illibertà, le infinite guerre e la miseria di massa sono i portati del vecchio/nuovo colonialismo (sanzioni Usa, morsa del FMI, etc.) e del vecchio regime tributario verso le petrolmonarchie del Golfo. Perciò, per trasferire la parola d’ordine “libertà, pace, giustizia” dal piano ideale a quello materiale, bisognerà necessariamente battersi contro i vincoli esterni, passare sopra le macerie del sistema di potere organizzato da Bashir e dai suoi, e creare un “potere popolare” rivoluzionario democratico capace di affrontare con decisione i nemici esterni e interni.

Al momento la marcia verso questa meta si è arrestata a un compromesso al ribasso, visti i rapporti di forza, concluso a inizio agosto tra il vertice dell’esercito e la Sudanese Professionals Association, un organismo che riunisce associazioni professionali di diversi ambiti (medici, avvocati, ingegneri, insegnanti, giornalisti, etc.). Tale compromesso non comporta rotture con gli usurai del FMI (ma la rinegoziazione del debito) né prevede lo scioglimento delle odiate RSF (Rapid Support Forces) responsabili degli eccidi degli scorsi mesi. La nascita di nuove istituzioni civili, fondata sui classici meccanismi elettorali, è dilazionata di 39 mesi, e sul loro funzionamento c’è l’ipoteca dei militari. Si è aperta perciò una “fase di transizione” caratterizzata dalla coabitazione all’interno del Transitional Sudanese Government tra i comandi militari e la SPA, che è il perno delle Forces for Freedom and Change, una coalizione di decine di forze politiche e sociali, e ha finora svolto un ruolo importante all’interno delle mobilitazioni. È da notare che nel suo trentennio il regime militare-confessionale di Bashir aveva permesso alle associazioni professionali dei ceti medi una certa libertà d’azione. Aveva invece sciolto i sindacati operai nel 1989, salvo farli rinascere dall’alto tre anni dopo come “sindacati d’impresa” con la missione anti-operaia di “mobilitare le masse per la produzione e per la difesa dell’autenticità dello stato islamico”. Perciò il proletariato industriale del Sudan (minatori, operai degli zuccherifici, ferrovieri, portuali, aeroportuali, autisti) e quello dei servizi (postali, infermieri) è entrato nella sollevazione con un handicap di disorganizzazione che sta cercando di superare con la propria riorganizzazione sindacale. Il suo peso è stato comunque determinante per infliggere al vecchio blocco di potere i primi colpi. Sono stati gli scioperi generali del 28-29 maggio e del 14 luglio a “convincere” i generali a compiere, e rapidamente, un primo cedimento alla sollevazione. L’accordo siglato il 18 luglio e formalizzato il 4 agosto elude però le più drammatiche questioni sociali: le guerre intestine, le condizioni di miseria ed emarginazione di sfollati e rifugiati, i salari e i diritti dei lavoratori, la punizione dei crimini compiuti dagli Janjaweed e dagli alti comandi militari, l’abolizione della shari’a e il riconoscimento dell’eguaglianza dei diritti per le donne, l’ipertrofico bilancio militare, il debito estero, etc. Per cui è molto probabile, se non certo al 100%, che l’attuale governo di coalizione non andrà lontano. Brutto segno, se questa previsione dovesse essere smentita.

Il Sudan Revolutionary Front, che raggruppa i movimenti guerriglieri delle zone più povere del paese, il Partito comunista sudanese, il Coordinamento generale degli sfollati del Darfur, Girifna ed altre forze ancora hanno disconosciuto l’intesa di agosto e invitato a continuare la lotta contro il governo Hamdok, che pretende di essere un governo di pacificazione nel nome della terzietà e superiorità dei “competenti” – l’ingannatrice formula del “governo dei tecnici” (del capitale) già sperimentata qui in Italia. Se da un lato i colloqui tra governo e movimenti guerriglieri sono iniziati, dall’altro le proteste di massa (di limitata estensione: migliaia o decine di migliaia, al massimo) non sono finite. Il loro baricentro è nel proletariato (nel senso più ampio del termine) e nei contadini poveri dei villaggi: gli sfollati non vogliono più sopravvivere accampati e abbandonati; ci sono operai, minatori e tecnici che pretendono l’allontanamento dei vecchi dispotici e corrotti dirigenti d’impresa, la punizione dei militari che hanno represso per decenni le proteste dei lavoratori e l’allontanamento delle forze di rapido supporto (ex-Janjaweed) dagli impianti minerari; i kanabi, lavoratori stagionali del Darfur, non accettano più di essere discriminati; i portuali contestano i contratti-capestro imposti da ditte estere; gli abitanti dei villaggi funestati dall’estrazione e dalla produzione di sostanze cancerogene chiedono la fine di questi tormenti. I sindacati hanno avanzato la richiesta di un salario minimo a 195 dollari (sul presupposto che una famiglia di 5 componenti abbia bisogno, per vivere, di almeno 340 dollari mensili) e rivendicano la totale detassazione dei salari più bassi con l’introduzione di una tassa patrimoniale sulle ricchezze. Queste spinte di lotta che premono per andare avanti, restano finora frammentate. Ma non sono isolate perché continuano anche le proteste studentesche per lo stato rovinoso dell’istruzione, la carenza di pane, il dissesto dei trasporti, etc. E restano in piedi anche molti comitati di quartiere, che hanno avuto un ruolo-chiave nelle mobilitazioni degli scorsi mesi, e comitati di resistenza nati sui luoghi di lavoro, nei villaggi (dove si chiede l’annullamento dei debiti dei contadini) e in alcune città.

Sul fronte opposto anche le cricche e le gang che per trent’anni hanno sostenuto il patto caserma-moschea stanno riorganizzandosi con il supporto dei padrini sauditi ed egiziani, all’insegna di cortei e slogan contro le donne (vedi il movimento di Abdel Hai Yusef). Né si sono evaporate le milizie islamiste, mentre è rimasta in campo la figura minacciosa di Dagalo-Hemeti, il capo delle Forze di supporto rapido, che appare già in campo per le presidenziali future. Quanto alle potenze estere, nemiche giurate della sollevazione, gli Stati Uniti, per ora, non aboliscono le sanzioni decretate nel 1993 in modo da mantenere un autonomo spazio di condizionamento degli attori del compromesso. Insieme con loro, e in concorrenza con loro, Russia e Cina manovrano per frenare, svuotare il moto rivoluzionario impantanandolo nelle secche di una molteplicità di distinte e separate trattative. FMI e Banca mondiale, da parte loro, non promettono regali di sorta. A certi esponenti dell’SPA piace poetare sulla “rivoluzione di velluto”. Le forze della controrivoluzione capitalista-imperialista, però, tutto preparano al moto rivoluzionario sudanese salvo che un cammino sul velluto. Sembrano averlo afferrato quei militanti di strada che giurano: “Se questo consiglio [il governo di coalizione] non soddisfa le nostre aspirazioni e non risponde ai nostri interessi, non esiteremo a fare un’altra rivoluzione. Lo rovesceremo proprio come abbiamo fatto con l’ex-regime”.

In Algeria i nodi fondamentali da sciogliere sono analoghi. La principale differenza è che in Algeria il movimento generale non si è fermato davanti alla elezione di Tebboune, prosegue disconoscendo la sua legittimità. Ma anche in Algeria il nodo del dialogo con l’elite militar-affaristica ancora in sella è aperto. E c’è già una differenziazione tra la tendenza ad esplorare la possibilità di un compromesso che è riconducibile a settori delle classi medie, e la tendenza a proseguire fino alla convocazione di un’“assemblea costituente realmente sovrana”. Nei mesi scorsi la Conferenza nazionale della società civile che ha coinvolto un’ottantina di associazioni professionali e organismi socio-politici, si è pronunciata per una transizione democratica che avvenga sotto un “governo delle competenze nazionali”, un governo di “tecnici”, cioè – un’ipotesi che sta comparendo negli ultimi tempi anche a Beirut e Baghdad, e che appare un suggerimento delle “istituzioni internazionali” per disattivare la mobilitazione di massa. Si cerca di incanalare l’odio di massa per l’incompetenza e la corruzione degli attuali governanti su un binario che porterebbe le sollevazioni al loro suicidio. Mentre il neo-presidente Tebboune tende la mano all’Hirak fregiandolo addirittura del titolo sacro di “benedetto”, si affacciano sulle piazze personaggi non troppo discreditati del vecchio regime, come l’economista Smail Salmas che preconizza un’economia perfino più orientata alle esportazioni di quella attuale, e quindi maggiormente dipendente dal mercato mondiale. Da varie parti si parla di “grandi cantieri per le riforme”, inclusa la riforma della costituzione. Per cui pure in Algeria la sollevazione è davanti ad un dilemma: andare avanti fino in fondo facendo tabula rasa del vecchio assetto di potere (“i generali nella spazzatura”) e della sua subordinazione agli interessi del capitale globale euro-gringo e cinese, ottenere che “il potere sia riconsegnato al popolo” mobilitato nelle strade e auto-organizzato; oppure accettare l’offerta del nuovo titolare di El Mouradia, altisonante nelle formule e poverissima di contenuti reali (Tebboune ha solo ventilato una riduzione del prezzo delle patate…), fermare o almeno frenare le mobilitazioni, e delegare ai “competenti” e alle opposizioni di sua maestà una trattativa dall’esito fallimentare scontato.

Al momento sembra prevalere una incerta via di mezzo: proseguire la mobilitazione, senza però farla trascrescere in un movimento di sciopero generale illimitato per dare la spallata decisiva, e senza riempire di contenuti sociali stringenti la parola d’ordine centrale di questo anno di massicce dimostrazioni del venerdì: “civile, non militare”. In questo mix di decisione/indecisione si fa strada l’idea insidiosa di porre una sola pre-condizione al “dialogo”: la liberazione dei detenuti politici di opinione. E cerca di inserirsi anche la nuova direzione dell’UGTA, il vecchio sindacato di stato che è stato finora del tutto solidale con l’esercito e il clan di Bouteflika, ma che – investito dalla protesta dei suoi stessi iscritti – ha dovuto liquidare il suo inamovibile segretario Said, accusato di avere reso il sindacato uno strumento del padronato, per sostituirlo col più giovane e dinamico Saim Labatcha. Costui, dialettizzandosi con il richiamo alle origini della rivoluzione anti-coloniale dominante nelle manifestazioni, ha promesso di riportare il sindacato “sulla strada dei fondatori” per farne un sindacato “indipendente, democratico, combattivo” al servizio esclusivo della classe operaia. Nel vuoto o semivuoto di altre iniziative, Labatcha si segnala chiedendo la revisione degli accordi tra UE e Algeria in quanto svantaggiosi per i lavoratori algerini e propone una svolta radicale nella politica fiscale fissando un dignitoso livello di salario minimo, abbassando le imposte sui salari e introducendo un’imposta patrimoniale sulla ricchezza. In questo modo punta a strappare una nuova delega da parte del proletariato industriale allontanando gli operai dalle piazze, dove sono stati finora in modo disperso, confusi nella folla, senza una propria distinta posizione. Per quanto la perdita di credibilità dei gruppi islamisti lasci spazi che nei primi anni ’90 gli erano preclusi, specie nella grandissima massa dei disoccupati, dubitiamo assai che l’UGTA, per decenni sindacato di stato allineato al governo, possa portare a termine una simile rigenerazione. Così come dubitiamo assai che ciò che rimane in Algeria, Sudan, Libano, Iraq dei vecchi partiti “comunisti” interamente stalinizzati e nazionalizzati, possa avere un ruolo da protagonisti nel prosieguo dello scontro. I sommovimenti rivoluzionari sono sempre la culla di nuove forze e di nuove leve. E finché avanzano, hanno una creatività esplosiva che riduce in polvere tutto ciò che il tempo ha rinsecchito.

Certo, data la forza del fronte controrivoluzionario interno ed esterno, nessuno può dire come la situazione evolverà. Lucida ci pare l’analisi di M. Rechidi, il segretario del Partito socialista dei lavoratori:

«Le radici profonde dell’Hirak popolare sono sempre vive: il potere corrotto e autoritario, l’assenza delle libertà democratiche, il disastro economico e sociale prodotto dalle politiche liberali e dal dominio delle potenze straniere e delle loro multinazionali sul nostro paese. Detto in altro modo, ciò che milioni di algerini e di algerine denunciano attraverso la parola d’ordine “basta con il sistema”, è ancora lì. (…) Dopo questo episodio politicista effimero [il riferimento è alla grancassa di stato intorno alla partecipazione popolare ai funerali di Salah – n.], l’Hirak può guadagnare in maturità, dopo dieci mesi di mobilitazioni, facendo un salto di qualità, strutturandosi da un lato con l’auto-organizzazione di base, e dall’altro introducendo, accanto alle rivendicazioni democratiche, le rivendicazioni economiche e sociali [dei lavoratori – n.]. È in questo modo che potremo arrivare a costruire un rapporto di forza che ci permetterà di arrivare ad un’Assemblea costituente sovrana! La lotta continua!».

A sua volta Samir Larabi (di questa stessa area politica) nota come sia più che mai necessario creare comitati popolari, collettivi auto-organizzati, se si vuole costruire l’alternativa al regime di potere attuale. È inimmaginabile, sostiene, far cadere il sistema attuale senza aver preparato il “sistema alternativo”, “un potere popolare fondato sull’auto-organizzazione, quella dei comitati di officina, dei sindacati combattivi e anzitutto dei comitati popolari in tutte le province dell’Algeria. È questa costruzione, la dinamica della costruzione dell’auto-organizzazione che rimpiazzerà il sistema attuale”. Un passo dopo l’altro, ci si sta avvicinando nella lotta alle questioni decisive per la vittoria di questo movimento rivoluzionario d’area. E senza dubbio un altro passaggio obbligato del suo procedere in avanti è quello della tessitura di fili unitari tra i diversi paesi. Dice bene Sara Abbas, intervistata sugli avvenimenti sudanesi da “Historical Materialism” (il 27 maggio):

«La prima ondata di rivolte arabe ci ha dato alcuni ammonimenti, ad esempio: che gli attacchi della controrivoluzione giungono velocemente e in profondità, e che non dobbiamo smantellare troppo presto i movimenti di strada perché sono tutto quello che abbiamo. Guardando ora al futuro, ad un livello molto strategico, dobbiamo sostenerci a vicenda (non solo nel mondo arabo, ma in Medio Oriente e in Africa in senso lato) perché ogni vittoria rende più solida la base delle nostre correnti rivoluzionarie. E ogni dittatore e regime repressivo che rimane in piedi lavora per minare i nostri movimenti in tutta la regione. Una cosa ancora più importante: dobbiamo passare dal nazionalismo all’internazionalismo. È un compito decisamente arduo per questa regione. Ma dobbiamo. Va bene l’orgoglio per la tua nazione, ma il nazionalismo è un’arma a doppio taglio. Mobilita e al tempo stesso offusca la vista. Il primo passo per arrivare all’internazionalismo è bloccare la competizione a chi soffre di più. Le nostre sofferenze non sono uniche; le nostre oppressioni gravano anche su altri [popoli], e così dev’essere anche per le nostre resistenze, se vogliamo prevalere. Per non restare fermi all’attuale situazione, dobbiamo resistere esattamente nello stesso modo. Il Sudan e l’Algeria ci mostrano la forza dell’attingere al nostro straordinario registro culturale e storico per informare le nostre tattiche di resistenza».

In effetti, a quel che ci è dato sapere, si sono instaurati nei mesi scorsi rapporti di confronto e di collaborazione tra le sollevazioni sudanese ed algerina. Lo testimonia, tra gli altri, Frieda Afary della Alliance of Middle East Socialists che parla anche di “espressioni di sostegno [alle rivolte in Sudan e Algeria] da parte di progressisti e rivoluzionari in Tunisia, Marocco, Libano, Siria (Idlib), Egitto”. Ancora poca roba, diranno gli eterni scettici, però la direzione di marcia è quella giusta!

Rompere il silenzio!

Denunciare il “nostro” imperialismo!

I grandi poteri globali lo vedono meglio di noi. Osservano con molta preoccupazione la durata o lo svolgimento degli avvenimenti algerini, sudanesi, libanesi, iracheni. C’è poca ciccia per loro. E, specie in Algeria, è palpabile una radicata avversione verso di loro. Non demordono, si capisce. UE, Stati Uniti, Russia, Cina, e le petrolmonarchie hanno subito riconosciuto l’elezione di Tebboune. Scrutano gli sviluppi della situazione per vedere se e come possano trarne vantaggi. Dopotutto la borghesia algerina è in grosse difficoltà non solo per via delle piazze bollenti; le risorse del fondo sovrano si sono esaurite nel 2017, sicché nel 2018 il bilancio statale è stato costruito con un deficit record del 13%. Quanto a risorse finanziarie, gli altri paesi in rivolta sono messi peggio. Il Libano ha un debito pubblico pari al 152% del pil, e anche se le sue banche sono tuttora piene di depositi, appare vicino al collasso. Il Sudan, dissanguato dalle criminali sanzioni occidentali e dalle guerre intestine, è al 126%. L’Iraq è appena attorno al 60%, ma il dissesto della sua economia e dei servizi non è inferiore a quello del Sudan. Gli avvoltoi globali lo sanno. E sono lì in agguato, pronti con nuovi prestiti usurai e consigli corrispondenti. Per intanto si accoltellano sulla spartizione del bottino libico (150 miliardi di dollari subito, a dir poco), e approfittando del caos libico e di altre tensioni mettono ancor più gli stivali sul terreno africano e medio-orientale. Trump invia in zona altri 14.000 soldati. La Francia bombarda una decina di paesi africani pressoché quotidianamente. L’Italia – che ha appena varato una massiccia spedizione bellica in Niger – ha i suoi inamovibili contingenti militari in Iraq (circa 1.000 uomini, 305 mezzi terrestri, 12 aerei) e Libano (oltre 140 uomini). E in tutti e tre i casi i contingenti militari sono lì anche per istruire le locali forze di repressione contro i “disordini”. Per non parlare delle imprese, a iniziare dalle onniprensenti ENI, Saipem, Ansaldo, Astaldi, Danieli, Condotte, Leonardo, Iveco, Salini-Impregilo, Technimont, Todini, etc., col codazzo dei sciur Brambilla, leghisti o piddini cambia niente. Nella sola Algeria ci sono oggi più di 2.000 italiani, 20.000 francesi, 42.000 cinesi, e non si tratta di turisti…

No, non ci saranno “rivoluzioni del sorriso” né in questo paese né in questa regione. Il Mediterraneo è già da tempo un mare di guerra: la guerra agli emigranti dall’Africa e dal Medio Oriente. E giorno dopo giorno sta affollandosi di navi e contingenti militari d’ogni provenienza. Il Medio Oriente è in stato di guerra permanente dal 1948. Ecco l’altro nodo inaggirabile delle sollevazioni arabe e medio-orientali: il confronto-scontro con gli interessi imperialisti. Sotto questo profilo è di buon auspicio che, rispetto alle sollevazioni del 2011-2012, le piazze arabe e iraniane di oggi si aspettino ben poco dalle democrazie occidentali, le stesse che hanno appena svenduto per l’ennesima volta i curdi, dopo averli usati cinicamente nella guerra all’Isis. Non a caso da più parti, quando si vuol delineare il tipo di democrazia che le piazze arabe e africane vogliono, si avanza il concetto di afrocrazia. Un concetto senza dubbio molto nebuloso e dichiaratamente interclassista, ma che pretende possa e debba darsi in Africa una democrazia differente da quella che regna in Occidente, una democrazia popolare fondata su antiche tradizioni che consentirebbero la diretta consultazione dei cittadini, il dialogo, il consenso, l’inclusività, la leadership revocabile, etc. Utopia, senza dubbio. Indicativa, però, di due sentimenti di massa promettenti: gli oppressi arabi, africani, iraniani, non ne possono più di essere schiacciati da regimi (capitalisti) dispotici e autoritari. E dopo aver perso la fiducia nel “modello del socialismo reale”, la stanno perdendo anche nel “modello occidentale”, considerato elitario, manipolatorio e corrotto.

Il più naturale complemento di questo duplice sentimento, è il rifiuto, mai così ampio, del “modello patriarcale”, dell’“eterna sottomissione” della donna. A parte l’America Latina, non c’è oggi un’area del mondo in cui le donne siano altrettanto in prima fila negli scontri sociali, nella contestazione dei poteri costituiti, pubblici e privati. Vanti pure la rugosa Europa “avanzata” le sue nuove “lady di ferro” alla testa dei governi, a Bruxelles, alla BCE, che è impossibile distinguere dai loro partner di sesso maschile accomunati nel gelido unisex dei funzionari del dominio capitalista-imperialista! Dall’“arretrato” mondo arabo e medio-orientale ci arrivano ben altre figure di donne vere coraggiose, ribelli, rivoluzionarie, in un caleidoscopio di colori e di vivide personalità quali solo i movimenti rivoluzionari sanno generare.

Detto almeno l’essenziale sull’ampiezza e la radicalità di questi movimenti, occorre anche rilevare la loro difficoltà ad “andare fino in fondo”, a dotarsi di una strategia e di una tattica per farla finita con i rispettivi regimi e prendere il potere, in assenza di organizzazioni rivoluzionarie a base proletaria, mentre le borghesie contro cui si battono possono farsi forti del loro intreccio con il capitale internazionale. Questa assenza ci accomuna a quelle aree, e gli avvenimenti di così grande portata in corso nel mondo arabo – e in parallelo, non casualmente, in America Latina – ci mostrano quanto è urgente colmarla anche nelle metropoli dell’imperialismo. E ci sollecitano a lavorare alla formazione di una tendenza internazionalista rivoluzionaria e a coordinarci alle forze che ovunque si muovono in questa direzione.

Queste nostre note sono ancora sommarie e insufficienti, ne siamo coscienti. Tuttavia ci basterebbe aver suggerito a menti aperte e calde di confrontarsi con le sollevazioni arabe e medio-orientali, di imparare da esse, e di dare sostegno senza se e senza ma ai nostri compagni e compagne di classe e di lotta che stanno sfidando i loro e i nostri governi. Il contributo che i sommovimenti arabi e iraniani stanno dando alla ripresa della lotta di classe in Europa è vitale: come si fa a non vedere il nesso profondo tra lo scuotimento ininterrotto del suolo algerino e l’accensione della lotta di classe in Francia? Ci viene da chiedere agli organismi che fanno parte della Rete sindacale internazionale: come mai state tardando tanto a prendere iniziative di sostegno alla ripartenza dell’Intifada araba? Ci viene da chiedere ai militanti anti-militaristi tuttora attivi in Italia: cosa aspettiamo a denunciare le nuove manovre di guerra (non solo in Libia! Non solo in Siria!) e ritornare a propagandare con forza l’immediato ritiro di tutte le truppe italiane e degli affaristi-avvoltoi italiani dalla regione? Ci viene da chiedere alle militanti femministe per il 99%: non è venuta l’ora di attaccare frontalmente la lugubre arabofobia e islamofobia che ha strutturato l’immagine corrente delle donne arabe e “islamiche”? non è arrivato il momento di schierarci anima e corpo dalla parte di queste magnifiche combattenti? Cosa aspettiamo, compagni e compagne?

Per parte nostra proponiamo alla rete degli organismi e dei militanti che partecipò all’assemblea di Napoli del 29 settembre contro il governo Conte-bis per una fronte di lotta anti-capitalista, e a tutti i comitati, i collettivi, i movimenti, i compagni e le compagne che non sono rimasti indifferenti di fronte ad esse, di indire per i primi di marzo un’iniziativa nazionale di sostegno alle sollevazioni arabe e medio-orientali e di denuncia dell’azione di guerra delle potenze imperialiste, e in primo luogo dell’Italia, contro di esse.

È vero: ci troviamo in un contesto pantanoso, con una classe proletaria che appare addormentata, sfiduciata, influenzata da una propaganda razzista mai stata così aggressiva, e dei movimenti di lotta che sembrano impermeabili a queste tematiche. Ma siamo certi di poter fare leva sul fatto che in Italia e in Europa, attraverso le migrazioni internazionali, è nata una classe lavoratrice sempre più immediatamente multinazionale, tale per esperienza diretta, materiale, quotidiana. Un’esperienza che può essere, che è un antidoto, alla diffusione di sentimenti, pregiudizi, comportamenti razzisti tra i lavoratori e le popolazioni autoctone. Da anni le proletarie e i proletari immigrati, a cominciare dalla logistica, stanno dimostrando che non intendono essere trattati come carne da macello. E siamo certi che il messaggio di lotta proveniente di nuovo dalle piazze arabe e iraniane li rafforzerà in questa loro determinazione. Hanno voglia i loro rispettivi governi di spacciare, ancora una volta, la menzogna di “movimenti manovrati dall’esterno”! I fatti mostreranno in modo inequivoco, se già non l’hanno fatto, da che parte stanno i grandi poteri del capitale globale: se sono a favore, o contro queste sollevazioni. Siamo altrettanto fiduciosi nell’effetto-contagio: quello oggettivo c’è già (vedi Algeria-Francia). Si tratta di lavorare in modo intenso e sistematico per quello soggettivo, che non può essere mai del tutto spontaneo, specie quando si tratta di lavoratori appartenenti a paesi dominanti e a paesi dominati, per le ragioni che a suo tempo Marx e Lenin hanno spiegato in modo magistrale. Si tratta, quindi, di compiere il massimo sforzo per preparare il terreno alla rinascita dell’organizzazione politica internazionalista rivoluzionaria della classe proletaria.

Come è avvenuto nel 2011-2012, il fronte della contro-rivoluzione – pur con tutti i suoi laceranti conflitti interni – pare di nuovo saldarsi contro le nuove sollevazioni di massa, mettendo in campo le armi di sempre: guerra, repressione, inganni, illusioni elettorali, confessionalismo, oppressione di genere, nazionalismo, razzismo. Il dovere degli internazionalisti rivoluzionari è raccogliere il grido di lotta che ci arriva dal mondo arabo e medio-orientale (e insieme dalle Americhe centro-meridionali). Lavorare a costituire un fronte proletario internazionale ed internazionalista che si metta di traverso all’aggressione in atto contro la ripresa dell’Intifada araba (contro e le parallele sollevazioni di massa nelle Americhe centro-meridionali). Tessere una rete di collegamento internazionale tra le forze rivoluzionarie che opponga alle catastrofi capitalistiche incombenti la prospettiva del socialismo internazionale.

1 gennaio 2020

 

Il cuneo rosso – Pagine marxiste – Gruppo comunista rivoluzionario

Tendenza internazionalista rivoluzionaria – tend.int.riv@gmail.com

  • È spassoso leggere sul sito del “Sole 24 ore”, a firma R. Bongiorni, la seguente descrizione del sistema fiscale libanese: «Il Libano non è uno solo. Ci sono due realtà, l’una accanto all’altra. C’è il Libano dei ricchi, quell’1% della popolazione che detiene il 25% della ricchezza. E quello dei libanesi normali (di cui un quarto vive con meno di 5 dollari al giorno). Costretti a pagare per ricevere in cambio dei pessimi servizi. Quando si tratta di fisco, il Governo diviene estremamente egualitario. Il sistema fiscale (circa il 60% delle entrate fiscali è costituito dal pagamento dell’Iva) si basa in larga parte sulla tassazione indiretta, applicata dunque ai beni di consumo. Tasse che colpiscono tutti allo stesso modo, ricchi e poveri.» Ben detto, salvo la conclusione (“allo stesso modo”) che è logicamente sbagliata.