NOTE sull’affaire Fincantieri Saint-Nazaire

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Premessa

Da comunisti quel che più interessa politicamente nella vicenda è il tentativo di utilizzare una disputa fra gruppi capitalistici (e vertici statali connessi) per scatenare una pretestuosa ondata di sdegno nazionalistico in Italia e legare così al carro del proprio padronato i lavoratori italiani.

Affidiamo all’articolo dei compagni di Cuneo Rosso che pubblichiamo di seguito la denuncia politica sulla sceneggiata socialimperialista che si è svolta parallelamente in Italia e in Francia.

Ci sembra, tuttavia, che andare un po’ più a fondo nella vicenda, scandagliando gli interessi in campo, consenta di capire un po’ meglio le dinamiche del nostro imperialismo e le sue relazioni con gli imperialismi concorrenti in un settore come quello militare che è di per sé strategico. Ci consente anche, ancora una volta, di ribadire come le guerre locali che le industrie militari italiane e francesi rendono possibili con il loro export, presentate in patria come salvifiche per i posti di lavoro e la “sicurezza”, non solo producono morte e distruzione nei teatri di guerre ma corrispondono anche a meschini calcoli di bottega, in cui la “politica nazionale” si riduce a usare le guerre in Africa o in Medio Oriente anche come “vetrina” propagandistica per vendere meglio il proprio parco armi.

L’articolo, sbilanciato sulla Francia per ragioni di spazio, non approfondisce gli aspetti politico diplomatici connessi, perché già analizzati in altri articoli (cfr. “Scippo” della quarta sponda?). Nostro l’impegno di approfondire in un prossimo articolo la denuncia nei riguardi dell’Italia e del suo apparato industrial-militare.

L’oggetto del contendere

I cantieri Saint-Nazaire (anche citati come STX France, o come DCNS in grazia dei passaggi di proprietà che li hanno riguardati), collocati alla foce della Loira, sull’Atlantico, esistono da circa 150 anni. Famosi per aver costruito, a partire dai primi decenni del 1900, i più grandi transatlantici europei, detti paquebots, 120 in tutto, e un gran numero di navi da guerra, negli anni ’70 sopravvivono costruendo petroliere. Nel 1984 li acquista la Alstom, una multinazionale francese, che sposta il core business sulle navi da crociera. Ma nel 2006 mette all’asta i cantieri, che al 75% passano alla Aker Yards, un gigante della cantieristica mondiale, controllato dalla finlandese New Aker Finyards.

Nel 2008 Aker Yards cede il controllo; il 66% va al gruppo sudcoreano STX Business Group che ridenomina i cantieri STX Francia, ma lo Stato francese ne acquista il 33%, garantendosi il potere di veto sulle future scelte strategiche (una scelta, sottolineiamo, analoga a quella che lo Stato italiano compie nei confronti di Finmeccanica).

Nel maggio 2016 il gruppo coreano fallisce e nel gennaio 2017 il tribunale di Seul mette in vendita la sua quota di Saint Nazaire.

Fincantieri e l’offerta di acquisto

Gli unici a presentare una offerta d’acquisto sono i vertici di Fincantieri, che propongono circa 80 milioni di € per il 66% dei cantieri, la quota detenuta dalla società coreana.

Fincantieri è nata negli anni ‘50 dalla fusione di quattro società italiane a partecipazione statale (CRDA, OTO, Navalmeccanica e Ansaldo) come specifica società addetta alla cantieristica dentro Finmeccanica, quindi dentro Iri; ancor oggi è controllata al 71,6% da Fintecna S.p.A., finanziaria del ministero dell’Economia e delle Finanze.

E’ leader per le navi da crociera (cruise); è molto competitiva nelle navi per il trasporto di gas, petrolio e prodotti chimici, è presente anche nella navalmeccanica ad alta tecnologia, nell’offshore (affidato alla controllata norvegese Ward), nei traghetti a elevata complessità e nei mega-yacht. Per quanto riguarda il settore militare copre una vasta gamma di prodotti (portaerei, navi d’assalto anfibio, fregate dedicate alla lotta antisom e multiruolo, cacciatorpediniere, pattugliatori).

Il duo Hollande-Le Drian

Nell’operazione di acquisto, Fincantieri è assistita da BNP Paribas in qualità di advisor finanziario. Nel corso delle trattative il presidente uscente Hollande pone al gruppo italiano il limite del 48% delle azioni incaricandolo di trovare dei partner per arrivare al 100%. Dopo 3 mesi di negoziati il 19 maggio 2017 si firma l’accordo: 48% a Fincantieri, 7% a Fondazione CR Trieste (nota 1). DCNS, cioè Direction des Constructions Navales Services, il gruppo pubblico francese di costruzioni navali militari acquisisce il 12% (nel giugno il gruppo cambia denominazione e diventa Naval Group). In questo modo lo stato francese controlla il 45%; ottiene anche garanzie riguardo all’occupazione per i 10 anni successivi e un diritto di veto in caso di vendita. La leadership industriale è riconosciuta a Fincantieri.

Già in quella fase delle trattative, in piena campagna elettorale per le presidenziali, Macron si smarca da Hollande sottolineando che Fondazione Cassa di Risparmio Trieste, controllata di Unicredit, è un “pupo” della stessa Fincantieri, quindi la sua quota azionaria non è indipendente. Propone perciò l’entrata nell’azionariato di MSC, Mediterranean Shipping Company, dell’imprenditore italo-svizzero Gianluigi Aponte, a cui si devono le commesse, valutate intorno ai 12 miliardi di €, grazie alle quali il bilancio dei cantieri francesi è tornato attivo. MSC nel giugno 2017 si offre di entrare nel capitale di STX France assieme a Royal Caribbean Cruise Line (RCCL), e acquisirne il 20% per ciascuno (nota 2). La proposta è respinta dal potente ministro della Difesa Le Drian che, come ha ribadito anche di recente, non vuole un “crocerista”, sia pure di grande successo, in una partita “altamente industriale”.

Sponsor in Italia dell’operazione voluta dal duo Hollande-Le Drian è invece Jean Pierre Mustier, da poco amministratore delegato di Unicredit e che in passato ha lavorato in Société Générale.

L’opposizione di Macron

Macron, eletto presidente, riapre il 27 luglio la trattativa, sostenendo che gli italiani non devono avere più del 50%, oppure lo Stato francese nazionalizzerà temporaneamente i cantieri. Dà così corpo a una sua promessa fatta nel marzo 2017 proprio alle maestranze di Saint-Nazaire, forte dell’ostilità di alcuni sindacati alla proposta Fincantieri. Non va dimenticato che un’altra proposta parallela di Macron è che i 2700 lavoratori dei cantieri entrino nell’azionariato sia pure con un peso simbolico (il 2-3%). Come sottolinea ironico un esperto del giornale di destra La Croix, nel momento in cui Macron si appresta a riprendere in mano la “loi travail”, tagliando ulteriormente i diritti dei lavoratori, fa balenare davanti ai loro occhi lo specchietto per le allodole del diventare “azionisti” cioè “comproprietari” della loro azienda. Naturalmente in un settore così mondializzato come la cantieristica anche se lo Stato francese riuscirà a trovare i capitali per nazionalizzare, dovrà comunque rispondere a criteri di competitività e quindi difficilmente salverà i posti di lavoro se antieconomici. Ma intanto Macron ha incassato un rialzo di popolarità.

Diverse le motivazioni ufficiali esibite dal ministro francese dell’economia Bruno Le Maire all’incontro di fine luglio con Padoan e Calenda:

  1. il timore che in una eventuale crisi del settore navi da crociera, Fincantieri scaricherebbe la perdita dei posti di lavoro sui cantieri francesi;
  2. il timore che Fincantieri trasferisca le tecnologie di punta STX relative a navi di grande taglia ai suoi partner cinesi di CSSC (China State Shipbuilding Corporation) – (nota 3)
  3. il carattere strategico militare dei cantieri.

La risposta italiana alla linea Macron è stata picche (o otteniamo il controllo o niente), ma le trattative riprenderanno a settembre

Il quadro europeo

Il braccio di ferro in atto si colloca nel quadro europeo della cantieristica.

Uno studio del CE.SI (Centro Studi Internazionali), “L’evoluzione della cantieristica navale militare europea: un’opportunità per l’Italia, settembre 2016, sottolinea che solo Italia, Francia e Gran Bretagna coprono l’intero spettro produttivo navale convenzionale. Solo Francia e Gran Bretagna sono in grado di produrre sottomarini nucleari. Ci sono cantieristiche come quella inglese e spagnola che producono solo per il mercato interno. Lavorano invece per l’esportazione, oltre a Fincantieri e Saint-Nazaire, sia i cantieri tedeschi Thyssen Krupp Marine Systems che i danesi Damen. Fincantieri collabora con i cantieri tedeschi ThyssenKrupp per i sottomarini non nucleari e con la Francia per la produzione di fregate FREMM-BERGAMINI e Orizzonte (nota 4).

Nessun paese europeo ha oggi una marina moderna e militarmente soddisfacente, sostiene il CE.SI. Nessun paese, infatti, è in grado di investire in un programma di rinnovamento delle fregate, perché l’ammortamento di questi investimenti supera il budget possibile per le singole marine. Sempre secondo il CE.SI, dal momento che non è credibile un programma militare europeo, si deve puntare almeno a collaborazioni bilaterali come sta tentando Fincantieri con l’ipotesi di acquisizione dei cantieri di Saint- Nazaire. Un gruppo industriale franco-italiano avrebbe forti potenzialità sia in campo militare che in campo civile per quanto riguarda le navi di superficie.

Il fatto che sia in Italia che in Francia questa ipotesi “europea” sia osteggiata deriva da una serie di considerazioni. La prima è che nel ramo navi da crociera e navi militari Fincantieri è un concorrente diretto di Saint-Nazaire, quindi la loro fusione, sostengono fonti francesi, può aver solo lo scopo di ridurre uno dei due e rafforzare l’altro. In più la momentanea floridezza di Saint-Nazare deriva dalle commesse di navi da crociera ottenute da Mediterranean Shipping Company (MSC), che non vuole Fincantieri nel capitale di Saint-Nazaire. Al contrario i cantieri erano stati messi in grossa difficoltà proprio dal ministro Le Drian, favorevole all’attuale accordo con Fincantieri, per aver fatto saltare la fornitura delle portaelicotteri Mistral alla Russia nel 2016.

L’unica esperienza di collaborazione franco-italiana è, a tutt’oggi, in campo militare, per le fregate Fremm e Orizzonte, e non è stata esaltante. Le frizioni sono state infinite e alla fine oggi i due paesi vendono in modo indipendente le fregate ai loro clienti stranieri e facendosi concorrenza aperta. E i mercati a cui si rivolgono sono spesso gli stessi, ad esempio i paesi mediorientali.

Nel 2015 la Francia ha collocato le sue Fremm in Egitto per un miliardo di €. Poche settimane fa Fincantieri ha firmato un contratto di 4 miliardi di € con il Qatar per la fornitura di fregate, miniportaaerei, pattugliatori, vincendo sulla volata il concorrente francese. Italia e Francia sono ora in corsa anche per la fornitura di fregate all’Australia e al Canada.

Lo stato dell’arte

Quando Macron dice che i cantieri sono “strategici” si riferisce evidentemente alla produzione militare. Ma non solo in quanto strumento di potenza.

L’industria militare è stata in questi anni molto importante sul piano economico, per la quota di occupazione che garantisce (nota 5), ma anche per il crescente peso del settore nell’export. Nel mercato delle armi la Francia si colloca di volta in volta al terzo o quarto posto nel mondo come venditore (nota 6). Questo export ha consentito nel triennio 2013-2015 di ridurre il deficit di bilancio ogni anno di una quota oscillante fra il 5 e l’8%.

Il settore di punta è rappresentato dall’aereonautica: 24 Rafale venduti nel 2015 all’Egitto e altrettanti al Qatar; un massiccio export elicotteristico. La Dassault Aviation ha trasformato i bombardamenti in Siria in una vetrina per i propri prodotti collocati in Qatar, Arabia Saudita, Kuwait (24 elicotteri Caracal). Anche la marina militare si difende bene (2 portaelicotteri Mistral destinate alla Russia e poi acquisite dall’Egitto, un contratto plurimiliardario con l’Australia per la produzione in loco di sottomarini…)

La pausa estiva nelle trattative italo-francesi servirebbe, secondo indiscrezioni, al prosieguo di trattative sotterranee in corso fra Naval Group (ex DCSN) e Leonardo (ex Finmeccanica) per una futura collaborazione nelle navi militari di grandi dimensioni. Leonardo potrebbe condizionare Fincantieri a fronte di una prospettiva di collaborazione ad ampio raggio nel militare. Infatti per quanto il mercato delle crociere sia ricco, se i vertici statali franco-italiani trovassero la quadra sul settore militare, tutto il resto si combinerebbe.

Tuttavia è certo che la Francia non includerà mai l’Italia nella produzione sottomarina nucleare e che in generale c’è una notevole ruggine fra Francia e Germania da un lato e Italia dall’altro sull’argomento apparato militar-industriale.

Non è un segreto che Finmeccanica, oggi Leonardo, da almeno vent’anni, si tiene fuori dai programmi europei prediligendo la collaborazione con Washington. L’Aeronautica italiana ha ottenuto grossi successi commerciali, ma resta fuori dal triangolo aerospaziale che unisce Parigi, Londra e Berlino. Tuttavia le dimensioni di Leonardo non le consentono di entrare in concorrenza con Lockheed o Boeing, ma neanche con i colossi statali russi e cinesi. E se l’Italia ha speso come tutti i paesi europei per la produzione degli Eurofighter Typhoon, poi ha comprato gli F 35 Usa, con scarsi risultati in termini di creazione di posti di lavoro e un raddoppio nella spesa prevista.

I filoatlantici dicono che comunque l’F-35 è venti anni avanti al Typhoon, i detrattori dicono che l’Italia rinuncia a un cacciabombardiere europeo, del quale abbiamo già pagato i costi di sviluppo e produzione, per comprarne uno americano il cui sviluppo è ancora tecnologicamente immaturo e i cui costi sono sempre più alti. Non solo, affermano anche che Finmeccanica è ridotta al ruolo di subfornitore e assemblatore di Lockheed. Ottiene buone commesse nel settore elettronico, grazie a Selex Es, ma rischia di restare esclusa dalla gara, ad es., per rifornire il Pentagono di aerei di addestramento. Il penchant di Finmeccanica per gli Usa è lo specchio del resto delle recenti scelte di politica estera italiana, con il governo Renzi superallineato con Obama nelle spedizioni militari. Il governo Gentiloni non ha spostato gli assi portanti, anche se sul fronte libico le acque si fanno più limacciose.

L’ipotesi di un’aeronautica franco-tedesca

In questo quadro la Francia di Macron potrebbe decidere di puntare principalmente su un asse franco-tedesco nell’aeronautica; nell’incontro Merkel-Macron del 13 luglio a Parigi pare si siano presi accordi per il caccia di quinta generazione finanziato dal fondo europeo, da cui l’Italia è esclusa.

Il progetto di un caccia di quinta generazione (nota 7) è stato da poco presentato alla ribalta internazionale dalla Russia, si tratta del Sukoi T-50, un caccia multiruolo monoposto che entra ora in produzione. Gli Usa ne stanno progettando due, grazie alla Lockheed Martin, e cioè l’F-35 Lightining II e l’F-22 Raptor.

Macron vuole sfruttare il fatto che dopo la Brexit l’unico deterrente atomico europeo sarà quello francese e che esso potrebbe essere un elemento da mettere sul piatto a livello di negoziati con la Germania. La Francia propone un modello che avrebbe come base il Rafale di Dassault Aviation. Il progetto sarebbe integrato dalla produzione di un elicottero d’attacco Eurocopter “Tiger” (sviluppato dalla francese Aérospatiale e dalla tedesca MBB), da un programma di missili tattici ASM e dalla creazione di unità congiunte equipaggiate con aerei da trasporto militare C-130 J “Super” Hercules. Il recente intervento della Luftwaffe in Siria e Iraq ha dimostrato, secondo i francesi, l’inconsistenza della flotta aerea tedesca che, pur forte 198 aerei da combattimento, fra cui Tornado ed Eurofighter, è andata incontro a una serie di incidenti tecnici che ne hanno lasciato a terra più della metà per diversi mesi. La Germania ha quindi, secondo Macron, bisogno della tecnica francese, mentre ha la potenza economica necessaria e il necessario peso politico in Europa per sostenere il progetto.

Il caccia franco-tedesco sarebbe un modello più concorrenziale rispetto all’Eurofighter Typhoon, il jet UE prodotto in partnership da Italia, Germania, Spagna e Regno Unito, il cui destino è un po’ incerto dopo la Brexit, perché Bae System potrebbe ritirarsi e puntare sull’F-35. Ipotesi che potrebbe valere anche per Finmeccanica se restasse, come sembra, esclusa dal caccia franco-tedesco.

Lo scontro sull’apparato industrial-militare in Francia

Ma prima che Macron e La Maire precisino la loro strategia futura, devono definire all’interno del quadro politico francese i rapporti fra esecutivo e vertici militari.

In Francia, come in molti paesi a capitalismo maturo, il complesso militar-industriale vede una stretta connessione fra vertici politici, vertici militari e vertici dell’industria militare (nota 8) al fine di garantire l’efficacia e l’efficienza del braccio armato dello Stato e la sua coerenza con gli interessi complessivi della “nazione”, cioè dei settori borghesi prevalenti. Già sul finire della presidenza Hollande ci sono stati screzi sul programma di riduzione della spesa militare, con i vertici militari contrari. D’altro canto il duo Hollande-Le Drian aveva il pieno appoggio degli ambienti militari e industriali nella loro politica di promozione dei prodotti militari francesi e nella politica estera decisamente guerrafondaia, senza contare il credito d’imposta di quasi un miliardo di € concesso nel solo 2015 all’industria militare. Scrive Claude Serfati nel suo libro “Le militaire. Une histoire française” che c’è “una profonda coerenza di interessi fra gli interventi militari in Africa, che permettono di testare sul terreno le armi prodotte dalle imprese francesi e le esportazioni di armi destinate al Medio Oriente” e rispetto all’Europa osserva che si ha l’impressione che la Francia veda l’Europa soprattutto come un mezzo per finanziare la sua industria bellica, in particolare per quanto riguarda Ricerca&Sviluppo. Contemporaneamente Serfati sottolinea la mancanza di un consistente movimento antimilitarista in Francia, paragonabile a quello inglese; al contrario l’immagine del settore militare come garanzia di posti di lavoro e sicurezza ha preso largamente piede. Il terrorismo ha alimentato questo aspetto e giustificato gli altri aspetti antilibertari, come il mantenimento delle leggi di emergenza che danno allo Stato francese attuale tratti sempre più bonapartisti.

Macron ha comunque goduto dell’appoggio di Le Drian al momento della campagna elettorale e ha pagato il suo debito confermandolo ministro, sia pure spostandolo dalla Difesa alla politica estera. Sylvie Goulard, del gruppo Bayrou, è stata ministro della Difesa per un giorno; è stata sostituita da Florence Parly, manager a Air France e poi in SNCF, anche lei proveniente dall’ENA, anche lei collaboratrice del gruppo Rothschild, con esperienze di governo con Jospin. Il marito, Martin Vial, è presidente dell’Agenzia delle Partecipate di Stato, siede nel consiglio di Amministrazione di Thales. Parly deve far fronte a una riduzione di 850 milioni di € nel suo budget, mediare fra gli industriali che mirano a investire in prodotti per l’esportazione, i militari che vogliono più soldi per il personale e Macron che vuole ridurre il personale per puntare su prodotti di alta tecnologia in grado di controbilanciare il calo del peso economico in Europa.

Le dimissioni il 19 luglio del Capo di Stato Maggiore Pierre de Villiers, dopo uno scontro pubblico con Macron, è il primo capitolo di un braccio di ferro in atto.

L’estate dà all’esecutivo francese il tempo di prendere le sue decisioni.

Un asse politico militare con l’Italia è molto più complesso, nei tempi brevi, di un asse franco-tedesco, visti anche gli attriti nel teatro nord e centro africano, ma in tempi di multipolarismo gli esiti a sorpresa non si possono escludere.


Nota 1: Fondazione Cassa di Risparmio Trieste, controllata dal gruppo Unicredit, è la banca attraverso cui Unicredit sostiene Fincantieri e la rete di oltre 4mila aziende della Venezia Giulia, che costituiscono l’indotto di Fincantieri a Trieste.

Nota 2: Aponte ha fondato MSC nel 1970, occupandosi prima di rotte commerciali e poi anche di crociere, quando nel 1988 ha acquisito la flotta Lauro. Oggi gestisce 500 navi portacontainer (di cui 193 di sua proprietà) che operano in tutto il mondo, toccando 270 porti. I dipendenti sono 28 mila. MSC ha firmato una commessa da 12 miliardi di € coi cantieri Saint-Nazaire per la costruzione di 10 grandi navi da crociera e si è impegnato per altre 4.
Royal Caribbean Cruises Ltd è una compagnia di crociere norvegese-statunitense, fondata nel 1968, con sede a Miami, che controlla il 25,6% di tutto il mercato crociere.
Sia MSC che RCCL vedono come il fumo negli occhi la concorrenza cinese nel settore crociere e temono che i legami di Fincantieri con i gruppi cinesi si tradurrebbero in passaggio di tecnologia europea avanzata a eventuali cantieri cinesi, mettendoli in grado di produrre navi da crociera sofisticate e competitive come quelle che i cantieri Saint-Nazaire stanno costruendo per loro.

Nota 3: Nel maggio 2017 Fincantieri ha firmato con CSSC una lettera di intenti per creare nel distretto di Baoshan un parco navale che rifornisca il mercato cinese di navi da crociera.
Con la stessa società e Carnival Corporation, Fincantieri ha firmato un accordo per la costruzione nel cantiere Waigaoqiao Shipbuilding (SWS) di Shanghai di due navi da crociera.

Nota 4: Le fregate classe Orizzonte sono prodotte in Francia da Horizon Sas, detenuta per il 50% da Armaris, una società di cui di cui è azionista unico DCNS, oggi Naval Group. A sua volta DCNS è per il 75% dello Stato francese e per il 25% di Thales.

Nota 5: L’industria degli armamenti francese occupa 160 mila addetti, contro i 180 mila dell’industria chimica e i 220 mila dell’automobile. Essi sono concentrati in alcune regioni dove fungono da volano per il resto dell’economia. I deputati di queste regioni ne rappresentano gli interessi con grande impegno.
Senza contare che nei prossimi anni si prevede la creazione di 40 mila nuovi posti di lavoro nel settore che è in espansione.

Nota 6: L’export di armi francese valeva 4,8 miliardi di € nel 2012, 8,4 miliardi nel 2013, 16 nel 2015.

Nota 7: Nella corrente pubblicistica militare la definizione di “5th generation” è un po’ vaga, ma si riferisce a un jet militare su cui si monterà il meglio della tecnologia disponibile fra cui “sistemi stealth, avionica avanzata, controlli cibernetici, design e propulsori di ultima ingegneristica”.

Nota 8: Per dare un’idea dell’articolazione dell’industria militare francese, ricordiamo per il settore terrestre Nexter, Panhard e Renault Trucks Defense; per l’aereonautica EADS, SAFRAN e Dassault; per l’elettronica Thales e Sagem; per il navale DCNS; per la missilistica MBDA. Tutti questi gruppi industriali sono sotto lo stretto controllo della Direzione Generale degli Armamenti (DGA) che garantisce la coerenza strategica della, ricerca, degli investimenti e dello sviluppo dei singoli settori. La DGA ha uno stato maggiore di ingegneri militari che si interrelazionano con le direzioni delle imprese legate alla Difesa e con il Premier e il ministro della Difesa; essa gestisce circa 11 miliardi di € per l’acquisto di armi destinate all’Armée francese.


Fincantieri: arruolati nella guerra alla Francia, o uniti nella lotta internazionalista ai padroni e ai governi di Roma e Parigi?

Due note sulla vicenda Fincantieri/Chantiers de l’Atlantique, a partire dai fatti.

I fatti sono noti. Macron ha deciso di nazionalizzare “a tempo” i Chantiers de l’Atlantique di Saint-Nazaire: non vuole che Fincantieri, che li ha appena comprati, abbia il controllo su di essi. Pretende che il controllo sia a metà: 50-50, invece che 67-33 a favore des italiens. Altrimenti, minaccia, non se ne fa nulla.

Immediata la reazione del boss di Fincantieri, Bono: “Siamo italiani ed europei, ma non possiamo accettare di essere trattati da meno dei coreani” (stava dicendo: da meno dei musi gialli, ma si è trattenuto per via dei grossissimi affari in ballo con la Cina). Altrettanto secco il ministro Calenda: “Non accettiamo di ridiscutere sulla base del 50-50”. Intorno, il coro della ‘libera stampa’ a suonare la stessa canzone, stesse note, stesse parole, ritornelli, etc., e gonfiare le vene del nazionalismo italiano, dell’orgoglio nazionale italiano contro lo sciovinismo francese e Macron, fino a ieri il bel salvatore dell’Europa, divenuto ora un secondo orrido Marine Le Pen…

Fin qui, niente di particolare, salvo una rettifica di una certa importanza da fare. Certo: è scontro tra stato-capitale francese/stato-capitale italiano, con la posta primaria delle grandi navi di lusso e, soprattutto, delle maxi-commesse belliche – lo chiarisce bene Bono: “I principali programmi militari sono quelli navali. Possiamo pianificare i prossimi 30 anni”. Ma, e di questo si tace accuratamente, è anche uno scontro capitale italiano-capitale italiano (per così dire) in quanto il grande alleato di Macron in questo tentativo di sabotare le intese precedenti è l’MSC di Aponte, un armatore italiano, che aveva tentato di mettere le mani sui Chantiers in cordata con la statunitense Royal Carribean International, senza riuscirci. E l’MSC non è un’azienduccia da nulla, è un gigante del trasporto navale, secondo nel mondo solo a Maersk. Dunque: lo scontro intorno ai Chantiers de l’Atlantique è un doppio scontro incrociato tra grandi pescecani del capitale globale, e le loro protesi politiche, che ha un preciso oggetto: la pelle da conciare dei lavoratori francesi, italiani e delle altre cento nazionalità del lavoro emigrato-immigrato, maggioritario tanto nei cantieri italiani di Fincantieri quanto a Saint-Nazaire (almeno 5.000 lavoratori immigrati e 2.700 lavoratori francesi), in vista di una contesa all’ultimo sangue con le rampanti imprese asiatiche, cinesi anzitutto.

Davanti a questo scontro, cosa avviene qui in Italia, a sinistra?

Calcato l’elmetto in testa, l’elmetto di guerra non quello anti-infortunistico, apre la mitragliata di dichiarazioni patriottiche Potetti, responsabile Fiom Fincantieri. Siamo davanti al risultato peggiore “per l’Italia”; il governo è stato finora debole; deve farsi sentire, pretendere ‘reciprocità’, se no ci scippano le fregate e altre lucrose commesse belliche: “è necessario difendere le nostre produzioni e le professionalità delle lavoratrici e dei lavoratori italiani di Fincantieri” – dice questo, dopo che anche la Fiom ha lasciato pressoché dimezzare i dipendenti diretti di Fincantieri in 15 anni, ha accettato la decurtazione di 1.500-3.000 euro di salario l’anno con l’ultimo accordo aziendale, ha sottoscritto le “flessibilità” di orario nei cantieri, dove regna tuttora una forma di semi-schiavismo tra i lavoratori degli appalti, etc. Squallida demagogia sindacal-nazionalista per difendere l’Italia (il capitale made in Italy) e l’azienda-Fincantieri, e legare al carro del padrone e dello stato i lavoratori – lo stesso padrone che negli ultimi vent’anni, supportato dallo stato, è andato avanti sospingendo all’indietro i lavoratori italiani e immigrati alle sue dipendenze, come ha denunciato in un recente documento il Comitato di sostegno ai lavoratori della Fincantieri di Marghera.

A questo tal Potetti si è subito affiancato il portavoce degli eurostoppisti, Cremaschi. Più brillante di lui, ha coniato un’efficace formula propagandistica: “L’Italia, come tutti i paesi del Sud, nella UE è colonia, mentre la Francia è paese coloniale. (…) O rompiamo con la UE, o siamo e resteremo una colonia“. E in mezzo ha piazzato una frase agghiacciante: “in un hotspot ci è finita anche Fincantieri”… l’ing. Bono e i suoi scagnozzi, dunque, come i richiedenti asilo africani… uhm.

L’Italia-colonia? Che spudorata menzogna! Solo perché ha in Francia appena 2.000 imprese con 100.000 salariati alle loro dipendenze contro un numero forse maggiore di imprese francesi in Italia con 240.000 dipedenti? Si è mai vista una colonia che esporta capitali in tutti i continenti? che si piazza all’ottavo posto nel mondo per estrazione dei profitti fuori dal proprio territorio, profitti da investimenti esteri – investimenti esteri che da vent’anni sono sempre maggiori di quelli esteri in Italia? che possiede oltre 40.000 imprese nella sola Romania, e altre migliaia in Serbia, in Albania, in Tunisia, in Senegal, in Cina oltre che in tutti i massimi paesi capitalisti del mondo, Francia inclusa? che possiede milioni e milioni di ettari di suoli agricoli e urbani fuori dall’Italia, e pozzi di petrolio e miniere, etc.? che ha 22 missioni belliche in giro per il mondo? che ha nelle sue mani forti quote di debito estero dei paesi poveri, e buone quote di titoli di stato degli altri paesi indebitati del Sud Europa, la Grecia per prima? Se così è, e così è, a quale traguardo aspirano gli eurostoppisti di Cremaschi? A non essere più “colonia”. Dunque, si deve dedurre logicamente, ad essere come la Francia, o magari sopra la Francia, nella gerarchia del capitale globale. Se si inviperiscono perché la Francia non ci tratta da pari, non può essere altrimenti. Il traguardo è quello di essere un paese colonialista, o cos’altro? Per quanto si continui inutilmente a negare, anche in lunghi saggi (su cui a suo tempo verremo), che la prospettiva euro-stoppista sia una prospettiva nazionalista, essa lo è invece al 100%. Nazionalismo “operaio” o “popolare”, ma il contenuto di fondo non cambia rispetto al nazionalismo capitalista-imperialista dei Bono&Calenda dietro i quali i dirigenti Fiom ed Eurostop, giustamente riunificati, si sono schierati di corsa, d’impeto, gli è venuto da dentro, dal ‘cuore’. Questo, mentre si stanno programmando trent’anni di grossi investimenti bellici, cioè di guerre da fare

Sempre da questa sinistra, una sinistra davvero sinistra, sentiamo strepiti ancora più acuti. Con la Francia i governi italiani “balbettano”, bisognerebbe battere il pugno sul tavolo: prima di Renzi, che l’ha appena detto, lo ha sostenuto su “Contropiano” Astengo, un anti-renziano si deve immaginare, a riguardo dell’iniziativa di Macron in Libia. Astengo è così furioso per il tesoro che l’ingordo Macron e la Total hanno sottratto, o tentato di sottrarre, all’Italia, che arriva a chiedere le “urgenti dimissioni del governo per manifesta incapacità“. Incapacità in cosa? Nella tutela dell’interesse nazionale, ovvio. E i sindacalisti sovranisti di Usb a rimorchio, a lagnarsi della “ennesima misera figura del nostro paese”, della “insopprimibile voglia di farci male [come nazione, come capitale nazionale] che da anni si è impossessata della politica italiana”.

Per tutti costoro, insomma, è l’ora di rilanciare l’interesse nazionale contro i nemici esterni che lo limitano, e i lavoratori, implicitamente o esplicitamente, sono chiamati ad arruolarsi in questo scontro dietro, e sotto, i “propri” padroni e il “proprio” governo, l’attuale o, meglio, un nuovo governo che sia più determinato nel far valere gli interessi del capitale nazionale. Non è la prima volta che dai sindacalisti, più o meno “rivoluzionari”, arrivano appelli patriottici. Accadde già nella prima e nella seconda carneficina mondiale, o nelle immediate vicinanze di esse. La prospettiva è sempre la stessa, da allora fino ad oggi: conquistare “un posto al sole per l’Italia”, il “nostro paese”, le “nostre” aziende, così anche i lavoratori italiani potranno abbronzarsi un po’… Conquistarlo battendoci contro i lavoratori di altri paesi, le “loro” produzioni (cioè: i loro posti di lavoro) e le loro “professionalità” (cioè i loro salari, al dunque: le loro condizioni di vita).

A questa prospettiva di intensificata concorrenza tra lavoratori e di conflitti tra nazioni, che in Italia ha come punto di riferimento per la Fiom il partito di Renzi, e per i sindacalisti che hanno rotto con Fiom e Cgil solo sul piano organizzativo, non su quello ideologico-politico, il blocco di Eurostop, bisogna contrapporre una posizione internazionalista operante, che non sia solo ‘di principio’, sebbene i principi siano importanti, ma si traduca in una precisa e coerente iniziativa politica. Da anni, dentro e fuori il Comitato di Marghera, abbiamo pressato perché si organizzasse un primo coordinamento a scala nazionale dei delegati combattivi dei diversi cantieri, a quasiasi sigla sindacale appartengano, ma – finora – senza risultati. Rilanciamo oggi questa proposta a scala più ampia, almeno europea, sapendo che nei Chantiers de l’Atlantique sono presenti compagni che si richiamano all’unità internazionale tra i proletari sfruttati di tutti i cantieri e di tutti i paesi, e che ci si deve impegnare a raggiungere quanto meno i cantieri rumeni dai quali ci sono arrivati segni di forte scontento.

Se i pescecani alla Bono&Calenda, gli Aponte, i Gentiloni, i Macron si scontrano tra loro per il bottino, i lavoratori non hanno interesse a parteggiare per nessuno di loro. Né è più vantaggioso, per i lavoratori italiani o francesi, parteggiare per il proprio stato o il proprio paese, cioè per il “proprio” capitale. Ha detto bene un delegato CGT di Saint-Nazaire intervistato da Repubblica-Tv: “abbiamo cambiato quattro padroni in pochi anni, lo stato francese, i norvegesi, i coreani di STX, ora Fincantieri, ma noi lavoratori stiamo sempre peggio“. Di chiunque sarà, alla fine, la proprietà dei Chantiers de l’Atlantique, per i lavoratori della cantieristica il problema resta lo stesso: organizzarsi insieme, tra cantieri e tra paesi, per battersi insieme contro i padroni della cantieristica italiani, francesi, tedeschi, etc., e gli stati che li spalleggiano. Per mettere fine alla giungla, allo schiavismo degli appalti e imporre decine di migliaia di assunzioni stabili; per conquistare l’unificazione al rialzo delle condizioni contrattuali tra proletari dei diversi cantieri, e tra lavoratori autoctoni e immigrati; per riconquistare i livelli salariali perduti, sganciandoli dalla produttività; per radicare tra i lavoratori la prospettiva del lavorare meno, lavorare tutti a parità di salario; per riconquistare l’agibilità politica e sindacale dentro gli stabilimenti.

Il caso-Fincantieri è diventato in queste settimane emblematico. Ma, è evidente, il caso-Fincantieri rimanda all’intero settore metalmeccanico, e da questo alla condizione e al futuro della intera classe lavoratrice in Italia e in Francia: basti pensare che i falsi difensori del “lavoro italiano” sono i Renzi, i Padoan, etc., autori del brutale Jobs Act, e l’altrettanto falso difensore del “lavoro francese” è l’autore dell’altrettanto brutale, contro i lavoratori, Loi Macron. L’alternativa di fondo sempre più stringente che viene avanti, non solo in Italia e in Francia, nel mezzo di una grande crisi irrisolta, è questa: o una nuova ondata di funesto nazionalismo “operaio” alla coda degli interessi padronali e statali, o la rinascita della prospettiva internazionalista, su tutti i piani: politico, sindacale, organizzativo, e non solo ideologico. Con la sistematica, energica denuncia del nuovo boom della spesa bellica e del militarismo, a cui si vogliono legare i lavoratori della cantieristica, e non solo.

I tempi stringono. Gli organismi politici che si richiamano a una prospettiva internazionalista, e i circuiti del sindacalismo “di base” che rifiutano la concorrenza tra lavoratori, debbono darsi una mossa, e far seguire alle parole fatti coerenti e conseguenti. Rispetto ai promotori del “nazionalismo operaio” e “popolare”, siamo già in ritardo!

1 agosto 2017

Redazione de “il cuneo rosso” – Marghera
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