Palestina e Medio Oriente, il tragico gioco delle parti

Ancora una volta abbiamo assistito al massacro israeliano della popolazione palestinese. In meno di una settimana ci sono stati più di 120 morti, quasi tutti civili, nei così detti bombardamenti “intelligenti”, quelli che avrebbero dovuto colpire solo “obiettivi militari”.
La prima considerazione è ovvia: tali “errori di mira”, che si ripetono in ogni angolo del mondo, durante le tante “operazioni di pace”, non sono “sviste”, ma hanno il preciso scopo di terrorizzare e fiaccare l’animo delle larghe masse sfruttate, per stroncare sul nascere ogni proposito di ribellione.
Bisogna, poi, inserire il conflitto palestinese nel più ampio scenario medio orientale ed arabo. Dal Nord Africa al Pakistan, abbiamo assistito ed assistiamo ad un susseguirsi di rivolte ed insubordinazioni, che coinvolgono milioni e milioni di sfruttati e lavoratori, rendendo tutta quell’area instabile. In tale situazione, ed in tale area, come si sa ricca di petrolio e gas naturali, si deve registrare anche un ridefinirsi dei rapporti di forza fra vari attori, come gli imperialismi occidentali, le “medie potenze” mondiali (Russia, Cina, India) e le borghesie di zona, con il loro inevitabile corollario, spesso contradditorio, di alleanze, conflitti latenti o palesi, scontri interni nella stessa fazione, e guerre per procura.
Dobbiamo, purtroppo, registrare che tali lotte e ribellioni sono stati alternativamente cavalcati e, spesso eterodiretti, dai sopra citati attori, determinando non certo una messa in discussione del sistema economico e sociale, ma, “bene che vada”, un cambiamento di cricche al potere, di involucri politici (dalla “dittatura” alla “democrazia”) o di alleanze internazionali, e tal volta nemmeno quello. E’ infatti sintomatico il ruolo importante svolto dal “nuovo” Egitto di Morsi, chiamato alla mediazione fra Netaniau ed Hamas, anche su “sollecitazione” americana, preoccupata di mantenere, come con Mubarak, un legame con tale paese.
Israele, come sempre, recita la parte sanguinaria di garante più fedele dei vari interessi occidentali in tale porzione di mondo, appoggiata non più “entusiasticamente” dal suo tradizionale protettore, gli U.S.A., a sua volta meno solido di un tempo, da quelle come da altre parti.
Il grande assente, in Palestina come altrove, allora, è la coscienza rivoluzionaria, la quale è causa-effetto di una reale indipendenza politica e militare delle classi subalterne. Del resto è una situazione tristemente comprensibile, in uno scenario di ripresa di movimenti di massa, in medio oriente e nei paesi arabi, ancora fresca. Ed in cui manca anche una saldatura con l’altrettanto fresca ripresa di conflittualità (anche se di tono nettamente minore) da parte del proletariato e dei soggetti colpiti dalla crisi economica in America ed Europa, specie del Sud. C’è, poi, da considerare che la tragica e farsesca fine dei paesi pseudo socialisti continua ancora oggi ad offrire alle ideologie dominanti argomenti per scoraggiare ogni ipotesi di superamento del capitalismo.

Detto ciò, è altrettanto tristemente comprensibile, come accennato, che tali generosi moti vengano utilizzati a proprio uso e consumo dalle varie fazioni imperialiste e borghesi, come dimostrano le immagini non certo edificanti dei rivoltosi libici che sventolano le bandiere italiane, francesi ed americane (come anche, sull’altro fronte, quelle della Libia di Keddafi, non meno alleata dell’occidente e dell’Italia di quella odierna), metafora visiva dei limiti che si portano dietro fin dalla loro nascita. Ed è un fenomento tutt’altro che nuovo: ad esempio, le rivolte che tra il ’53 ed il ’56 attraversarono i regimi stalinisti dell’est europeo furono, infatti, strumentalizzate dal patto atlantico in chiave anti russa, mentre si trattava di moti spinti da un reale ed istintivo rifiuto del lavoro salariato, tal volta corroborato da una, seppur vaga, coscienza di classe (a Berlino Est, nel ’53, gli operai urlavano in piazza “i veri comunisti siamo noi”).

Dare soluzioni a tavolino, e ci si riferisce ai tristi mugugni del “movimento” nostrano, soprattutto a migliaia di chilometri di distanza, è del tutto inutile. La liberazione dei lavoratori del Medio Oriente può essere opera solo di essi stessi. Noi non dobbiamo schierarci con una borghesia o con l’altra, ma denunciare gli avvoltoi imperialisti a partire da quelli italiani ed europei, stando nelle contraddizioni che anche da noi si aprono, nelle lotte sempre più diffuse, per favorire la saldatura fra lavoratori e sfruttati occidentali e quelli del Sud del mondo, a partire dall’unione con gli immigrati nel “nostro” paese, spesso provenienti dai teatri di tali tragedie e portatori dello stesso spirito di rivalsa.
Ed è del tutto inutile tifare “per chi spara”, come Hamas o chi per loro (salvo, poi, inorridire a casa propria se viene rotta una vetrina in corteo). Le frange di borghesia locale, molto spesso dietro a “chi spara”, infatti, hanno precise responsabilità in tale situazione, e non solo perchè, come evidente, non hanno interesse alla liberazione generale del proletariato ed alla rivoluzione sociale. Sono de facto un’ostacolo anche per la semplice e reale difesa dai massacri imperialisti, impedendo una generalizzazione dell’armamento proletario, cosa per loro più pericolosa degli stessi attachi imperialisti. Rischierebbero, infatti, di perdere il controllo sui “propri” sfruttati e di vedersi rigirate contro quelle stesse armi. Tali borghesie, come in questo caso quella che foraggia Hamas, spesso incapaci di conquistare nemmeno l’indipendenza nazionale, sono destinate a vendersi al miglior offerente, e di essere pedine degli imperialismi (dei paesi europei) o
delle nazioni (Cina, Russia) o delle potenze d’area (Iran) contrapposti a quello nemico (U.S.A.).
Allo stato attuale, comunque, non sembra imminente il momento in cui i movimenti insurrezionali di quei paesi si possano sbarazzare, da una parte o dall’altra, di tali dirigenze, apertamente (filo)imperialiste o meno, che, per un motivo o per un altro rispondono alle loro necessità immediate (dal rifornimento delle poche armi e delle risorse economiche, alla “protezione” ed all’appoggio internazionale da parte dei vari fronti contrapposti). E le espressioni progressive, come sono stati i Comitati Popolari palestinesi, per ora non hanno un peso rilevante; anche se, in Paesi come l’Egitto si sono sviluppati episodi di lotte operaie “alla vecchia maniera”, con scioperi duri e combattivi ed occupazioni di fabbriche.
Va, poi, ricordato, in questi ultimi anni, il crescente movimento di opposizione alla guerra nella stessa Israele, che si mischia a quello di lotta contro la crisi economica (che anche lì comincia a mordere lavoratori e “ceto medio”), che assume sempre più apertamente toni antisionisti, paragonando le persecuzioni israeliane a quelle naziste, ed ha dimostrato anche una alta conflittualità di piazza, con duri scontri con la polizia. E’ sintomatico che di tale opposizione israeliana non se ne parli, nè da parte dei mass media ufficiali e nè da parte dei menzionati “tifosi” filo islamisti nostrani, nonostante chi ne è partecipe, considerato un traditore, subisca una repressione similare a quella dei palestinesi. Forse è troppo difficile ragionare per classi sociali invece che per etnia…

Sperando che la vecchia talpa scavi bene, acuendo, nel medio oriente e nel resto del mondo, le contraddizioni fra sfruttatori e sfruttati, e favorendo l’unione di questi ultimi, oltre la razza e la religione, noi abbiamo il compito di portare alta la bandiera internazionalista, quì ed ora, nelle spire della crisi capitalistica, combattendo ogni borghesia ed imperialismo, in primis quelli di casa nostra.

Comunisti per l’Organizzazione di Classe 25.11.’12

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