PANDEMIE E CENSURA: quando il numero dei morti è un elemento della concorrenza

Pochi sanno che la cosiddetta “spagnola” la più ampia pandemia mai conosciuta (500 milioni di contagiati), diffusasi in tutto il mondo fra il 1918 e il 1920, ebbe origine in uno o più paesi rimasti sconosciuti. Ma la Spagna fu il primo paese a darne informazione, in quanto, non essendo coinvolta nella prima guerra mondiale, la sua stampa non era soggetta alla censura di guerra. Negli altri paesi, il violento diffondersi dell’influenza fu tenuto nascosto. Il morbo uccise prevalentemente giovani adulti precedentemente sani, fra i 20 e i 40 anni, in particolare falcidiò i soldati ammassati nelle trincee o negli ospedali militari e colpì soprattutto gli strati poveri della popolazione che vivevano in quartieri superaffollati e malsani. I morti sono stati calcolati fra i 50 e i 100 milioni. L’enorme oscillazione delle stime non è dovuta allo scarso sviluppo delle statistiche a quel tempo, ma appunto alla censura feroce che i governi applicarono, per non indebolire psicologicamente il “fronte interno”. Con l’ovvio risultato di aumentare la possibilità di diffusione del morbo (morirono fra il 10 e 20% degli infettati).

Anche in Italia il contesto storico, la guerra, e le conseguenti condizioni (malnutrizione, campi medici e ospedali sovraffollati, scarsa igiene) contribuirono ad una superinfezione batterica che uccise, in genere dopo un lungo e molto doloroso periodo di malattia. Ma la censura e il disprezzo per la vita umana, rafforzato dalla guerra e tipico di una società autoritaria, fecero la loro parte.
La pandemia contagiò circa 4 milioni e mezzo di persone, circa il 12% dei 36 milioni di abitanti. I morti stimati sono 650.000 (un numero pari o superiore ai morti per cause belliche). Ma all’epoca non se ne parlava sui giornali o nei comunicati del governo, nelle città erano proibiti gli annunci mortuari, i cortei e i funerali, per “non demoralizzare la nazione”. Qualche scuola fu chiusa, ma incolpando una fantomatica epidemia di tifo.
Fu una decisione “letale” che alimentò la strage, perché i morti si concentrarono nella seconda ondata di influenza, quella invernale, che avrebbe potuto essere prevenuta o limitata. Si trattò, scrive uno storico, di un enorme “olocausto medico” non solo per il numero molto elevato di medici e infermieri che vi morirono, ma anche per il colpevole silenzio delle autorità sanitarie che la definirono una “banale influenza”.
Morire in guerra era eroico, morire di influenza da sfigati.
Anche a posteriori la censura funzionò, niente libri, romanzi, poesie che ne parlassero, nessun convegno medico che ne traesse insegnamento, i primi libri che uscirono dedicati alla spagnola coincidono con l’epidemia cosiddetta “asiatica”, alcuni decenni dopo.

La guerra non fa che accentuare un normale costume dei governi: nascondere le magagne che potrebbero nuocere al governo stesso o al paese . Nel capitalismo, in pace o in guerra, la debolezza dell’uno diventa mezzo di attacco dell’altro. Da qui la tendenza, quando l’evidenza non si può più negare, alle tesi complottiste (che non mancarono anche nel 1918) oppure la tendenza a minimizzare o a nascondere i dati. Non è difficile. In fondo, senza il tampone rivelatore, si può dire che il tizio è morto di polmonite, infarto, tumore o quant’altro. Perché era vecchio o già malato.
Anche oggi abbiamo assistito allo stesso spettacolo. Il governo cinese che tiene nascosto per settimane il coronavirus, arrestando addirittura il medico che ne denuncia la presenza e tacciandolo di allarmismo (l’equivalente in tempo di pace del disfattismo). Ne andava di mezzo il “made in China”. E in Europa sovranisti populisti e anche normali presuntuosi a pensare che certo i cinesi si potevano ammalare, perché mangiano i topi vivi, chissà come sono i loro ospedali, magari si curano mangiando le formiche e poi sono gialli.

Quando è toccato all’Italia, anzi al Lombardo Veneto (come dice la maliziosa news che tutti abbiamo visto “quando il virus ti prende in parola” caro Salvini), lo stesso ritardo e nell’adozione di misure di isolamento, o meglio di mezze misure per non danneggiare i profitti del “made in Italy” (si è continuato ad andare al lavoro come se niente fosse), col risultato di una propagazione esponenziale. Lo stesso schema vediamo negli altri paesi europei e negli Stati Uniti: business as usual, minimizzazione delle infezioni da parte dei governi, fino a quando i contagiati sono migliaia…

Non manca il solito Trump a dire che è tutto sotto controllo, che è una normale influenza mentre il Washington Post gli predice che il coronavirus sarà la sua Cernobyl.

In realtà ne sappiamo poco o nulla e le previsioni sono tutte azzardate.
Certo per ora la stessa borghesia italiana e il suo governo italiano sono preoccupati per una possibile catastrofe dei loro profitti (la Borsa ha perso il 30%…) e chiede misure drastiche. Troppo tardi, ma meglio tardi che mai.

A noi tuttavia non stanno a cuore i profitti dei padroni, ma la sorte dei lavoratori: che medici infermieri e paramedici abbiano le protezioni necessarie, come tutti coloro che devono continuare a lavorare, che venga assunto nella sanità tutto il personale necessario seguendo le graduatorie per contenere il superlavoro e far fronte all’emergenza. Che coloro che non stanno perdendo giornate di lavoro a causa della crisi sanitaria abbiano garantita la normale retribuzione. E se ci si dice che dobbiamo lavorare dobbiamo avere intatto il diritto di scioperare a difesa della nostra salute e dei nostri diritti. Ci sono tanti modi di esercitare la censura, uno è quello di dare molte informazioni, ma scelte con cura. E’ nostro dovere dar voce a chi in questo momento lavora in prima linea, negli ospedali, nelle fabbriche, i cui diritti sono costantemente violati, come per i lavoratori delle cooperative, i precari, e quant’altro. Non è certo il momento di abbassare la guardia. E non ci riferiamo al virus, che prima o poi se ne andrà, ma al sistema capitalistico, che anche dopo sarà sempre qua.