[PCd’I] Documento Interno del PCd’I sulla guerra civile in Italia negli anni 1919-1923

Documento Interno del PCd’I sulla guerra civile in Italia negli anni 1919-1923 (Caduto nelle mani della polizia nel corso del 1923)

La borghesia prepara la sua difesa militare

Subito dopo l’armistizio, per il Governo d’Italia, si presentò il problema di contenere lo spirito irrequieto dei soldati, la disciplina dei quali andava rilasciandosi giorno per giorno, mentre la popolazione tutta pervadeva uno spirito nuovo, una vivacità rivoltosa che per poco che fosse condotta avrebbe sboccato nell’insurrezione.
I depositi e gli accantonamenti sparsi per tutta la penisola, il mescolarsi dei militari alla vita civile coll’ardore di chi da più anni aveva cessato di essere altra cosa che non una macchina di guerre, rendevano il caso grave, ad esso il Governo impreparato. Fu il periodo segnato da zuffe scoppiate un po’ dappertutto fra soldati e carabinieri (Napoli, Trieste, ecc.), e che contiene episodi più gravi come Pietralata, i moti del carovita, la rivolta di Ancona, e culmina nell’occupazione delle fabbriche.
Il servizio di pubblica sicurezza dovette essere trasformato. Prima della guerra alcune migliaia di uomini, polizia e carabinieri compivano l’ordinario servizio di pattuglia e di piantonamento. Nei casi più gravi intervenivano i reparti di truppa. Parma nel 1908, la Romagna e le Marche nel 1914, Torino nel 1915 e nel 1917 avevano provato che tale forma mancava della omogeneità e della unità necessaria per un efficace intervento delle forze armate. Il dualismo fra polizia, carabinieri ed esercito rendeva lenta la messa in efficienza dei mezzi di repressione, slegato il movimento.
Il nuovo stato di fatto era tale che bisognava considerare l’Esercito come inutilizzabile in molti casi pericolosi.
Del problema di pubblica sicurezza fu investito in primo tempo direttamente l’alto comando e gerarchicamente tutti i comandi militari dipendenti. Le truppe di fiducia furono selezionate. Brigate scelte (Sassari ecc.), carabinieri, Regia Guardia di Finanza, Reparti di Cavalleria e di Artiglieria. Fu organizzato nell’Esercito un piccolo esercito per la pubblica sicurezza. Il Regno fu diviso in settori più piccoli dei corpi d’armata usuali, le città principali furono anche suddivise in settori. Ogni settore fu posto sotto un comando mobilitato responsabile, il quale sul luogo stesso disponeva di reparti in piena efficienza bellica.
Tali reparti disposti in rete di sorveglianza a custodia: carabinieri, polizia, corpi di guardia. Rete di repressione (reparti in servizio, Massa di riserva: brigate e divisioni dell’esercito mobile, scelte).
Gli ufficiali studenti, presso le scuole, ebbero ordine di costituirsi in Gruppi di 50 sotto il comando del più anziano di grado, e considerarsi sempre a disposizione del locale Comando Militare. In sicure case borghesi furono piazzate mitragliatrici in permanenza. Le disposizioni generali per il servizio furono: presidiare i punti più importanti in permanenza con grossi reparti (edifici pubblici della città, nodi ferroviari e stradali, fortilizi, polveriere, ecc. Gli stessi carabinieri, la finanza furono raggruppati sotto mano dei comandi di tenenza e di compagnia accasermandoli, abolendo molte piccole stazioni e brigate sparse. Furono assegnate loro mitragliatrici, depositi di bombe e cartucce. Delle batterie d’artiglieria furono piazzate presso i centri urbani. Grossi reparti di riserva (brigate e divisioni) furono collocati nei nodi di comunicazione. Il criterio che presiedette a tutta questa organizzazione fu: non disperdere le magre forze di cui disponevano in un servizio di preventiva repressione per il quale sarebbero state insufficienti. A questo il Governo dedicava le forze morali, l’abilità dei Prefetti e dei Funzionari a trattare le questioni locali, l’agilità dello Stato nel fingere di cedere alle masse nelle questioni politiche; lo spionaggio, la corruzione. In caso di rivolta conservare i punti strategici, quelli moralmente strategici per importanza politica oltre che materiale.
Cedendo anche di fronte a forze preponderanti, ritirarsi in modo di ammassare le forze armate, non lasciare reparti o uomini isolati.
Col concorso dei settori vicini circuire la zona dove l’insurrezione era scoppiata. Isolarla dal resto del Regno in modo che non potesse ricevere o mandare emissari. Tentare di trattare o temporeggiare. Quando per l’accrescere di queste riserve di mezzi si poteva passare alla repressione, farla con rapidità, energia, e proseguirla sino in fondo.
Anche militarmente la borghesia applicava il principio, aspettando di essere in forze per la rivincita, di cedere alle masse il terreno, ritirarsi sulle ultimissime linee, temporeggiare, apprestare il contrattacco. Inerzia assoluta, custodia di alcuni grandi depositi e magazzini con ordine categorico di difenderli.
Il popolo fu lasciato fare. Le autorità intervennero con azione politica molto coperta per incanalare il saccheggio prima nella formula del 50%, poi per lasciarlo spegnere del tutto. Le Camere del Lavoro non mancarono di aiutare con uomini propri tale azione governativa. Se questa azione non fosse riuscita e il saccheggio generale avesse assunto carattere rivoluzionario, non l’Esercito ma il piccolo esercito mobilitato di pubblica sicurezza sarebbe intervenuto certamente quando occorreva giuocare il tutto per il tutto.
Intanto la smobilitazione produceva grandi vuoti nelle truppe ed aumentava il numero dei malcontenti nel paese. La demagogia socialista, senza costruire organismi di lotta, polarizzava però tutti questi malcontenti e dava un contenuto ideologico alla voglia di menar le mani.
Elementi staccati e quasi dispersi cominciavano a preparare piccoli coefficienti per la lotta armata. La lotta di classe si definiva fra proletari e capitalisti. Nitti al Governo creò allora uno speciale organo di polizia, che pur avendo tutti i caratteri di una armata non era più sotto la diretta dipendenza della casta militare. Allontanata l’immediata minaccia di una ripresa della guerra, dopo il trattato di Versailles il Governo passò alla liquidazione dell’Esercito: uomini e materiali.
Aumentò il contingente nei carabinieri (65.000), nella Guardia di Finanza (35.000), organizzò la Guardia Regia (45.000), portò il servizio di spionaggio su basi più vaste con 12.000 agenti investigativi. Furono costituiti anche 18 Battaglioni Mobili di Carabinieri e 20 di Guardie Regie (organico del Battaglione 750 uomini, 28 Ufficiali, una o due sezioni mitragliatrici, sezione automobilistica). Anche la Guardia di Finanza fu raggruppata in Battaglioni (azione contro i minatori di Albona); la Guardia Regia ebbe squadroni di cavalleria. Ufficiali e sottufficiali di questi tre corpi frequentarono i corsi di aviazione, di artiglieria e altre specialità. La distribuzione dei Battaglioni Mobili nel paese fu ubicata in modo da possedere piccole masse di manovra nei punti di più facile spostabilità.
Le disposizioni tattiche precedenti furono rivedute, non modificate sostanzialmente. Le forze furono raggruppate intorno al Ministero degli Interni sottraendole all’alto comando dell’Esercito. L’organo tecnico di comando si ebbe nel gruppo dei Generali che fu chiamato a dirigere la Guardia Regia. Il Governo stabilì per decreto che anche un modesto brigadiere di provincia per ragione di ordine pubblico poteva adoperare il marconigramma e comunicare direttamente col Ministero degli Interni, scavalcando tutta la scala gerarchica. La borghesia, specie l’orgogliosa casta militare, si adombrò per questa situazione. Cominciò a mobilitare illegalmente suoi elementi in formazioni militari. Favorì l’azione di Fiume sperando così creare la necessità di una parziale mobilitazione dell’Esercito.

Il PSI si rifiuta di dirigere l’attacco proletario

Le masse tendevano a insorgere. Ma, ricche di elementi giovani, entusiasti, pratici anche delle norme elementari di guerra, mancavano di coordinazione. Il partito socialista non pensava a formare un organismo, che in quel momento, con poco sforzo, valutasse il problema e lo risolvesse: controllo e studio delle efficienze, situazione generale e particolare, armamento e norme applicate delle forze armate dello Stato. Valori tattici e strategici dei centri, delle strade, delle regioni, dei mezzi di trasporto. Effettivi reali di uomini ed armi; delle masse operaie e contadine, dei reparti di esercito nei quali fosse possibile penetrare; armamento del proletariato. Inquadramento e direzione. In tal senso, in alto ed in basso, c’era della buona volontà; mancava la chiara visione e la centralizzazione degli sforzi.
In ogni momento nel quale avvenimenti esterni causavano emozioni violente (eccidi, inizio di moti in qualche regione, ecc.) le masse non avevano idea netta di ciò che si dovesse fare, non avevano nessuna ossatura sulla quale appoggiare l’azione. Da qui la necessità di ammassarsi per intendersi, per cercare i capi, per ricevere parole d’ordine. Attraverso i soldati per l’abbondanza di materiali bellici mal custoditi, per l’affrettata liquidazione dei residui di guerra, il proletariato individualmente si armava. Ma l’efficienza di tale armamento non era organica. Il munizionamento minimo, insufficiente. Il sorgere di elementi tecnici, sia come uomini che criteri di direzione, era manchevole e lento, ostacolato dalla remissività stessa colla quale la borghesia sembrava accettare il suo destino di morente. Perciò non si valorizzavano capi militari.
La germinazione spontanea degli scatti proletari, faceva sì che sotto l’emozione tutti fossero solidali e frementi all’inizio, ma che incominciata la lotta questa morisse per stanchezza, diminuzione di combattenti, si esaurisse al secondo, al terzo giorno per mancanza di riserve, di uomini freschi che arrivassero in campo quando le guardie bianche sferravano il contrattacco. I collegamenti non venivano prestabiliti, né una azione aveva una consegna da assolvere quando l’altra fosse impegnata. Questo rendeva facilissima l’opera di isolamento da parte delle forze di Stato nella zona insorta.
Mancanza di capi, di armi, di munizioni, di collegamenti, di riserve, di piano d’azione, falso criterio col quale si cristallizzava la lotta su di un solo obiettivo (Camera del Lavoro, quartiere, città) invece di tendere subito ad espandersi oltre la periferia, ecco i principali difetti organizzativi da parte operaia nella lotta armata, fino al terzo […] del 1920.
Tipico fra tutti il moto di Ancona, che per le origini, lo sviluppo, le conseguenze tali difetti mette tutti in luce viva. E che essi fossero tali e gravi da ritrovarseli innanzi ogni qualvolta si ritornasse alla lotta di strada senza la preparazione necessaria, lo dimostra il fatto che il Governo riuscì dopo pochi giorni a soffocare quel tentativo insurrezionale malgrado la partecipazione ad esso di militari con armi moderne ed anche di qualche ufficiale dalla parte dei proletari.
A tutto si aggiunge l’opera traditrice della Social-Democrazia e dei funzionari del Governo, che con tutte le possibili lusinghe cercarono ammansire gli animi nel momento più aspro, per inferocire poi sui vinti.
Appena avvenuta la rivolta dei bersaglieri, che cacciarono gli ufficiali dalla caserma, la forza pubblica fu ritirata a quindici o venti chilometri intorno ove parte rimase tranquilla nelle sedi da nessuno disturbata. I rivoltosi si impossessarono di cinque forti. Un Comitato misto, rivoluzionario fu eletto. Molti elementi non guidati dalla nuova autorità che avrebbe dovuto far atto di vita imponendosi, visti dileguarsi i nemici, credettero tutto finito e si abbandonarono alla gioia. I difensori dei forti ruppero i fili telefonici e non cercarono di stabilire alcun collegamento fra loro. In tutta Italia la prima notizia dell’avvenuto fu portata dai ferrovieri.
Dappertutto grandi ansie, progetti d’attesa.
La direzione del partito socialista non sapeva come interpretare il movimento. Dalle grandi città vicine animosi partirono per raccogliere notizie e riferire. Intanto al terzo giorno due piccole cannoniere cominciarono dal mare a bombardare i forti. Un gruppo di artiglieri coi cannoni dei forti rispondeva. Un treno di guardie regie raggiunse la stazione, ma furono in gran parte ferite ed uccise. Un secondo treno si fermò poiché trovò il ponte ferroviario saltato. Allora, in forza di un battaglione circa, cominciarono l’aggiramento della città, impossessandosi d’uno dei forti stessi. Da allora altre forze sopraggiunte ripresero tutto avanzando in colonne aggiranti, appoggiate da una posizione dopo l’altra man mano che le riconquistavano e da intensissimo fuoco di mitragliatrici.

Mancò l’attacco proletario

Della occupazione delle fabbriche Giolitti un anno dopo ha enunciato indirettamente la critica militare, quando in Parlamento ha detto: «Volevate che io facessi assediare le forze delle quali disponevo, nelle fabbriche degli operai?». Tatticamente considerate molte fabbriche, per la loro posizione, potevano rappresentare catene di fortilizi, nodi di vaste linee per paralizzare le forze dello Stato. Ma non tutte sarebbe occorso occuparle e fuori di esse conservare masse di manovra per spazzare il terreno e fondere le linee, in pochi giorni eliminare coll’avvolgimento gran numero di avversari.
L’occupazione della fabbrica era un grande fattore morale della azione operaia, una buona base per la lotta armata.
Gli operai furono eroici dappertutto. L’armamento ormai aveva raggiunto un grado che poteva considerarsi come un buon principio. Il munizionamento però era scarsissimo. L’inquadramento, i collegamenti regionali, non nazionali funzionavano, ed i capi locali con carattere essenzialmente militare ci furono.
I proletari in armi da se stessi si definivano guardie rosse. Facevano buon servizio di sentinella, di pattuglia, correvano disciplinati alle armi nei momenti di pericolo. Le masse agricole aspettavano fiduciose, pronte ad iniziare in modo più ampio l’invasione delle terre, che da qualche tempo compivano quasi ogni giorno qua e là.
Il criterio che guidò gli operai fu di difendere la fabbrica. Ogni fabbrica ebbe reticolati, sentinelle, milizia e comandanti (spesso un ex ufficiale estraneo al personale della fabbrica stessa). Dove la densità delle officine era sufficiente la difesa fu combinata in modo che una proteggesse e appoggiasse l’altra. A Torino un piccolo nucleo di esperti, oltre aiutare gli occupanti, colle conoscenze militari, studiò anche il progetto per passare all’attacco delle forze dello Stato. Trovò grave deficienza nelle munizioni ma non rinunziò che per il tradimento della Confederazione.
Lo Stato seguì un criterio ancora più ristretto di difensiva. Fra le difficoltà create dai ferrovieri, che fermavano i convogli, concentrò ancora più le proprie forze. Fu cura dei comandi di creare nuclei molto grandi e forti ammassando i reparti nelle posizioni principalissime. Da queste vaste zone staccavano pattuglioni e squadre in giri di ricognizione. Alcuni quartieri industriali dei centri maggiori furono completamente lasciati nelle mani degli operai, per tutto il tempo dell’occupazione.
I comandi militari consideravano che nella lotta la parte operaia tendesse ad espandersi, quindi diedero alle loro forze il compito di circuire e limitare. Temevano che gli operai creassero grandi linee avvolgenti che man mano avanzando da paesi e città tendessero a congiungersi, spezzassero le comunicazioni, tagliassero zona da zona, reparto da reparto. Rompere queste linee, circuire invece, non lasciare isolate le proprie formazioni, dominare per quanto era possibile la manovra. Mantenere intatta e sgombra la rete ferroviaria e stradale, i suoi nodi più importanti, queste furono le preoccupazioni dei capi militari.
Nell’occupazione delle fabbriche cinquecentomila operai stettero oltre un mese in armi contro poco più di centomila militari (i duecentomila uomini dell’Esercito regolare erano passivi ed incerti). Le due tattiche furono così strettamente difensive, da non dar luogo quasi a nessuna zuffa, a poche decine di morti e feriti.

Il movimento difensivo borghese

L’occupazione delle fabbriche, e tutte le agitazioni di quel periodo, accelerarono la creazione dei fasci. Il fascismo era già costituito in piccoli nuclei fra i proprietari agrari dell’Alta Italia, che con tale formazione intendevano difendere le loro proprietà dall’invasione dei contadini, dalle quali la legge non li garantiva sufficientemente. Parte degli elementi militari vedevano con simpatia il costituirsi in fasci delle forze conservatrici, davano volentieri il loro appoggio esperto. Il movimento aveva carattere puramente militare, era quasi segreto, diffidente, temeva di mostrarsi. Restava localizzato. Erano squadre di aristocratici, di giovani proprietari che prendevano nomi eroici e che nella loro zona, spinti dall’odio per le masse che li andavano espropriando, timorosi dell’azione del Governo che al loro parere non difendeva più gli interessi della loro classe, che faceva della democrazia, cercavano di avere una forza a propria disposizione. Come dicevo l’elemento militare abbondava. L’occupazione delle fabbriche, questo inizio di rivoluzione così tremendamente calmo, fece gettar via gli ultimi scrupoli al Governo.
Fatta retrocedere ancora una volta la classe operaia coll’intrigo, Giolitti e gli uomini di governo temendo un nuovo sviluppo accettarono il corpo della guardia bianca che la borghesia voleva. Il Duca d’Aosta, certamente anche per fini personali, fu il padrone zelante di questi nuclei che si andavano formando. Egli intraprese un giro di celebrazioni locali della vittoria del Piave. Ad ognuna di queste preparate con metodo, consacra un manipolo fascista consegnando loro un gagliardetto.
L’azione fascista accennava a cominciare. Con le prime azioni di ben modesta mole, nelle campagne, piccole zuffe e rappresaglie slegate tra loro.
Dal movimento sovversivo italiano nel 1915 si erano distaccati un gruppo di giovani che avevano, molti solo per lucro, appoggiato l’intervento in guerra. Fra essi primeggiava Mussolini col suo giornale. Era nemico degli uomini principali del movimento socialista, per odio, per la febbre di divenire. Davanti agli occhi della borghesia possedeva già una gloria antiproletaria: l’incendio dell’Avanti del 1919.
Nel periodo che precede le elezioni amministrative del 1920 Mussolini e molti rinnegati si orientano decisamente verso la reazione. Anzi ne prendono audacemente la direzione politica. Essi intuiscono che col fascismo avrebbero compiuto la loro ascensione fino ad impossessarsi dello Stato. Concepirono di allargare le basi fino a farne una forza formidabile, irrobustirne immensamente lo squadrismo coll’assoldamento, garantirne l’ascesa colla corruzione e la penetrazione in tutte le branche della burocrazia, nei corpi di armata, nella giustizia. Audacemente tracciarono un piano di azione in grande stile e l’iniziarono. La borghesia urbana ed industriale fu convinta della necessità di organizzare le forze reazionarie e cominciò la tassazione per somme grossissime in modo di mettere capitali ingenti a disposizione del nascente fascismo.
Da buoni marxisti al rovescio seppero muovere le forze antiproletarie in modo da ottenere intorno a sé la polarizzazione non solo di molti strati borghesi, ma anche di forze semi-proletarie (spostati di guerra, disoccupati ecc.); misero a base dello squadrismo quella parte più povera del proletariato passiva ed oziosa, che come Marx aveva detto sarebbe stata sempre più pronta ad allearsi con la reazione, lasciandosi comperare. I Fasci per le origini e l’avvedutezza dei capi ebbero carattere militare. La prima organizzazione fu la seguente: al Fascio (sezione) erano iscritti i soci contribuenti, che pagavano una quota fissa mensile (decine, centinaia, migliaia di lire); i membri delle squadre d’azione. Il Fascio era diretto da un segretario politico. Al suo fianco vi era un comandante militare dal quale dipendevano i capi delle squadre di azione (sottilissime a Roma, ad esempio di tre membri ciascuna), Il rapporto numerico era di circa nove decimi i primi, un decimo i secondi. Quando occorreva agire, le squadre di azione, pagandole bene, assoldavano anche altri elementi della mala vita, prendendoli in lontane città e portandoli sul posto di azione (ad esempio parecchi malviventi romani, a Roma antifascisti, hanno fatto gli squadristi in Liguria per periodi più o meno lunghi).
La prima operazione di insieme fascista fu la conquista del basso Po nel novembre 1920 – gennaio 1921. La scelta dell’Emilia non fu fatta a caso. Impossessarsi dell’Emilia voleva dire colpire uno dei centri più vivaci del socialismo, incunearsi fra Nord e Centro Italia. A Bologna il risentimento degli agrari era più forte che altrove, per il modo violento col quale erano stati colpiti i loro privilegi. Quindi più facili le simpatie borghesi per la repressione violenta.
Il 4 novembre a Roma c’era stata la cerimonia militare delle bandiere dei reggimenti presentate al Re. Negli ambienti socialisti si aveva la sensazione che in tal giorno si iniziasse l’azione anti-proletaria nazionale, si diceva fosse nel programma l’incendio delle camere del lavoro, delle cooperative ecc. Che D’Annunzio sbarcasse sulle coste della Penisola. Che l’azione iniziale sarebbe stata contro il Ministero ed il Parlamento. Che oltre i legionari fiumani vi avrebbero preso parte i fascisti, i combattenti, gli arditi, ecc. Questo era il riflesso pubblico di un programma che i capi della reazione si erano posti, soffocare il socialismo, schiacciare il proletariato, impossessarsi dello Stato. Ma per assolverlo bisognava costruire un organismo militare (legioni fasciste), coordinare una azione (partito fascista) combattere una guerriglia che costò alle due parti centinaia di milioni (sovvenzioni, assoldamento di squadristi, distruzione di beni proletari) oltre ventimila uomini uccisi, migliaia e migliaia di feriti.

IL P.S.I. è incapace di risposta militare

Le sezioni socialiste, il 4 novembre per porsi sulla difensiva, mobilitarono. A Roma il segretario federale convocò i soci alle sedi dei circoli a mezzo del giornale. Quelli che per mancanza di affiatamento coi compagni (c’era stato chi aveva intuito il pericolo ed aveva subito indicato adunate segrete fuori dai locali soliti) andando alle sedi furono arrestati.
A Bologna il Comitato fece piantonare la camera del lavoro, rinchiudendosi dentro con quante armi poté racimolare e con 96 compagni in parte trasportati in camion da Imola. Essi per tre giorni aspettarono con coraggio. Ma senza un servizio di vedette avanzate nel cuore della città intorno alla sede o ai probabili punti di adunata del fascio. Solo provviddero ad attaccare di quando in quando qualche pattuglia di perlustrazione. Dirigeva questo gruppo deciso e animoso, non un modesto capo militare che sentisse tutta la responsabilità dell’azione da compiere e per gli accorgimenti di essa desse la sua esperienza e volontà, ma un deputato oratore, affaccendato in mille maneggi pieno di cariche e di caricature. Nella camera del lavoro egli aveva le suppellettili domestiche, la moglie, i figli. Questo lo portava più a riflettere che rallegrarsi ed entusiasmarsi coi propositi risoluti dei difensori ed a condividerli. Quando la difesa armata della camera del lavoro si dimostrò un atto vicino a compiersi e non una smargiassata di sola apparenza questo uomo perdette la testa e chiese per telefono l’intervento della questura.
I difensori avevano compiuto un primo atto di forza fermando nelle vicinanze un tram sul quale scorrazzavano i fascisti ed obbligandoli a scendere. Avvenuto poi l’assalto di una pattuglia d’avanguardia fascista (ex-arditi, alpini, ecc. guidati dal tenente Pappalardo) contro il portone principale li respinsero a colpi di rivoltella. Dopo questo episodio l’On.le Bucco fece chiudere il portone e depositare le armi in casa sua. Intanto la guardia regia aveva circondato l’edificio e due ore dopo la battaglia (durata quasi un’ora) venne ad arrestare i difensori.
Pochi giorni dopo il Consiglio comunale socialista, nuovo eletto doveva insediarsi a Palazzo d’Accursio. I fascisti dissero che avrebbero questo impedito e lanciarono un manifestino nel quale invitavano donne, vecchi, fanciulli a stare a casa quel giorno. La sezione socialista elesse un direttorio della difesa. Furono portate delle bombe al Palazzo, costituite delle squadre di giovani nei quartieri. Tutto questo ebbe il difetto della improvvisazione. I comandanti non furono sperimentati, né gli uomini ebbero il tempo di educarsi. Il piano di difendere il palazzo e presidiare la piazza chiuse preventivamente l’azione socialista nel cerchio delle forze di Stato destinate al servizio durante la cerimonia. Alla periferia non fu data alcuna parola d’ordine né fu stabilito alcun collegamento preventivo.
Appena la prima pattuglia di circa 30 fascisti in ordine sparso, con impeto spezzò i cordoni di cavalleggeri i socialisti che male avevano risposto alle consegne avute si sbandarono sospinti dalla folla impaurita. Dall’interno del palazzo fu sparato e fu lanciata qualche bomba. Altri 500 fascisti sopraggiunsero a passo di corsa, inquadrati, le guardie regie cominciarono il fuoco contro il palazzo. L’azione socialista non ebbe alcun sviluppo e fu sorpresa alla sprovvista non essendo nulla preventivato.
Nei giorni seguenti prevalse il parere dei timidi, sospendere ogni azione mentre i fascisti imbaldanziti incominciarono la catena di sopraffazioni individuali, le spedizioni punitive, protetti dal prefetto e dai funzionari. L’elemento locale fremeva, da altre città gruppi di operai chiedevano di essere inviati sul campo della lotta, ma nessuno intendeva coordinare queste forze.
Impostisi a Bologna i fascisti si irradiarono nella provincia. Uno o più camion carichi di uomini armati piombavano nei quartieri operai, nei villaggi, specie la notte. Si dividevano il circolo, la lega, la cooperativa, uccidevano, ferivano, e fuggivano via subito, tornando alle sedi, disperdendosi per le loro residenze. I proletari mancavano di collegamento, falsi allarmi succedevano ai falsi allarmi. Quando i briganti arrivavano la difesa era impreparata, stanca, insufficiente.
In tale periodo e nella regione i fasci hanno questa forma: gruppo dei comandanti-squadre d’azione, manipoli di pochi uomini assoldati in altre province e mantenuti presso grandi agrari in modo quasi clandestino per agire; fasci delle città dei piccoli comuni che raccoglievano tutte le forze reazionarie, ne organizzavano i rancori, l’opinione, contro le organizzazioni, gli organizzatori, le masse operaie. Costoro facevano l’opera di spionaggio, di indagini, di segnalazione, su quanto i proletari tentavano, pensavano, dicevano, gli elementi giovani dei fasci raggruppati anche loro in squadre servivano da grosso nelle spedizioni punitive.
Il tipo d’azione era: individuato l’obiettivo, stabilirne la resistenza possibile, piombarvi sopra con forze adeguate e vincere. Per l’operazione gli squadristi avevano armi, munizioni, camion ecc. di sottomano dalle autorità militari. Se una improvvisa resistenza li sbaragliava, allora sopravveniva la spedizione più grossa, le forze dello Stato legalmente intervenivano.
La borghesia non è stata mai troppo tenera con i propri squadristi che ha disprezzato in ragione di quanto gli sono costati. In molti episodi li ha adoperati solo per provocare, lasciandoli massacrare tranquillamente. La borghesia in tutta la lotta contro il proletariato ha tenuto aperto un conto dove gli uomini caduti da una parte o dall’altra sono sempre stati segnati sulle attività. Anzi uno spostato di meno fa più piacere che non un operaio, buono animale da lavoro, quando sarà tornato docile. Quando gli squadristi perdono la legge ha buon pretesto per intervenire, e speculando sui morti, reprimere con le armi e col Codice.
La propaganda morale per il fascismo era fatta dal Popolo d’Italia, in forma ampollosa, violenta, criminale, dalla stampa borghese in genere, che iniziava con un generico appello al contrattacco; artatamente alterava tutti i fatti con un unico scopo: dimostrare la prepotenza dei bolscevichi, la rovina che essi portavano nel paese, la necessità di rintuzzarli. La critica alle dottrine socialiste procedeva per false affermazioni, paradossali menzogne. La Russia era descritta come un inferno abitato da belve.
La guerra e la vittoria celebrate come due tempi sacri ed eccelsi che bisognava riconsacrare con un cruento sacrificio d’uomini. Il combattente descritto non come il contadino e l’operaio che per le trincee e i campi di battaglia aveva portato il suo stoico coraggio, il suo umile spirito, i suoi pidocchi ma come lo spettro di un corrucciato eroe, che maledicesse alla follia dei disfacitori della Patria. Cortei, parate, bandiere, soprattutto canzoni. Belle, bruttine, arie nuove, arie vecchie. Danaro in circolazione, proveniente dalle casse dei capitalisti, da quelle dello Stato. Ed il tono era unico, agire, ricorrere alla forza per combattere il bolscevismo. La clava è stata nuovamente adorata col culto selvaggio dei cannibali epilettici.
La contropropaganda socialista invece mancò di unità, di chiarezza, di previsione, fu incerta, inefficace, contraddittoria, poco virile. I capi non avvertirono quanta realtà vi fosse nelle tendenze reazionarie. Smisero anzi il precedente linguaggio massimalista, mangiaborghesi, per assumere un tono umile, da perseguitati. Nell’episodio, nella polemica, su di esso, perdettero la visione dell’insieme.
Da Bologna l’azione fascista si irradiò nel Ferrarese, la propaganda, intensa fatta con mezzi vastissimi, in Toscana. A Ferrara i socialisti più audaci organizzarono la difesa presidiando i locali pubblici; respinsero in primo tempo l’assalto fascista alla camera del lavoro, al palazzo della giunta, al comune socialista. L’azione è così sanguinosa per i fascisti, la loro disfatta così terribile che non possono sperare in una rivincita. Gridano all’imboscata bolscevica (questo trucco lo seguiteranno ad usare sempre quando le buscano).
Lo Stato interviene, gli arresti in massa spezzano la resistenza operaia. Anzi il Governo appoggia l’azione fascista coll’imporre il disarmo delle due province emiliane. S’intende che a deporre le armi è il solo proletario nelle modeste stanze del quale carabinieri e polizia frugano, battono, rompono. Lo Stato ritira in tal modo 5.000 fucili, migliaia di rivoltelle, pugnali, baionette, munizioni, bombe, proiettili in grande quantità. I fascisti hanno i loro depositi nelle ville dei signori, nei magazzini militari, quindi restano armati, aumentano di prepotenza. La loro forza locale essendo oramai a più migliaia di uomini, la parte di borghesi e di imbecilli consenziente ai loro metodi è ormai numerosissima.
Mentre i maggiorenti del partito [socialista] si allontanano smarriti, piccoli nuclei di eroici operai, poggiando sui centri non attaccati ancora dal fascismo che man mano divengono più lontani, malgrado i bandi, le morti, gli arresti, le condanne, iniziano, sotto il vessillo del partito comunista, una audace guerriglia, che infligge colpi paurosi ai bottegai, ai borghesi, agli agrari che hanno ripreso con alacrità la loro funzione di parassiti sociali, protetti dal fascio locale al quale danno quattrini, voti, lodi ed il braccio di tanto in tanto quando si può fare un po’ di spavalderia senza pericolo. In Imola gli elementi più combattivi del partito socialista italiano si erano costituiti in frazione comunista dal settembre. Il 21 gennaio 1921 a Livorno fu spezzata finalmente l’unità col peso morto, cogli opportunisti del partito. Il sorgere dei partito comunista era una grande promessa, che fu poi lealmente mantenuta, al proletariato d’Italia. Ma la reazione era già troppo robusta. L’unità geografica delle masse (e perciò quella strategica) era già spezzata a Ferrara, a Bologna, cadeva a poco a poco la valle del Po.

La strategia del fascismo

La borghesia, nelle zuffe quotidiane, impiegando sue creature ma non se stessa, logorava le forze e gli uomini del proletariato, il quale invece pagava di persona ed ogni giorno perdeva coloro che morivano, coloro che riuscivano a colpire, subito dopo imprigionati o costretti alla fuga.
In marzo, preparata l’opinione pubblica, gli uomini di azione, le armi, l’affiatamento colle autorità, la penetrazione nello spirito dei locali carabinieri e guardie regie, il comando e i collegamenti, le informazioni complete sulle forze operaie, sui capi, in molta parte della Toscana i fasci iniziarono la prima azione in grande stile, la conquista di questa regione.
In due mesi di vita gli uomini del giovanissimo P.C. avevano lavorato in Toscana. Sezioni numerose nelle città, buone sezioni nelle campagne. Simpatia di forti masse operaie e contadine per il comunismo. L’allegro spirito massimalista un po’ rodomontesco, poco costruttivo non poteva essere distrutto di colpo, ma era stato abbastanza organizzato per renderlo costruttivo. L’armamento delle sezioni era incominciato, qualche principio di collegamento regionale si andava stabilendo.
Il giorno 27 a Firenze i fascisti tennero un grande corteo dopo il quale divisi in squadre cominciarono a provocare gli operai coll’imporre di togliersi i distintivi, le cravatte ecc. Le forze armate erano mobilitate, accresciute di numero e presidiavano la zona, senza intervenire. Gli operai cominciarono a rispondere. Una bomba fu anche lanciata su un corteo fascista. I gruppi operai come norma di combattimento seguivano la più elementare: contrattaccare i fascisti quando questi si presentassero nel quartiere. I fascisti invece tenevano una tattica ad irradiazione; in nuclei di attacco dal centro alla periferia. Compivano le loro puntate come le pattuglie d’assaggio di un piccolo esercito di manovra che aveva il grosso nei reparti di carabinieri, nelle guardie regie, ammassate nei punti strategici. Non appena le zuffe si generalizzavano e tutta la massa operaia combattiva, colle poche sue armi, fu impegnata, la forza pubblica sferrò l’attacco in appoggio dei fascisti.
La battaglia durò quattro giorni, si estese alla provincia, alle province vicine. Mentre essa infuriava, manipoli di esecutori fascisti cercavano i capi comunisti, individuati già come uomini e come abitudini, da tempo, e li sopprimevano (Spartaco Lavagnini, 1° marzo).
La truppa usò mezzi moderni di combattimento. Il paesino di Scandicci ad esempio fu espugnato con le autoblindo e impiegando una batteria da 75. Empoli-Signa-Prato tennero testa, furono espugnate a fatica. I fascisti venivano alloggiati nelle caserme e armati. Squadre di fascisti, carabinieri e guardie regie correvano nei punti di maggior resistenza.
Staffette in bicicletta li hanno più di una volta preceduti sulla strada, hanno gettato l’allarme fra i contadini, che li hanno accolti con raffiche di fuoco riunendosi in fretta in punti adatti. In totale si ebbero 20 morti, 150 feriti, 1.500 arresti. Queste cifre ufficiali devono essere state ben superate dalla realtà.
I fascisti si accamparono in Toscana. Ma prima di potersene dire padroni dovettero ancora lottare per parecchi mesi, perdere uomini, compiere brutalità e sopraffazioni. Qua e là, malgrado l’aiuto continuo, la protezione delle forze armate, l’adesione degli strati borghesi locali, subirono lutti, sconfitte, umiliazioni.
Prefetti e commissari di polizia gesuiticamente dichiarano che ai cittadini banditi dai fasci essi non possono garantire la vita. Centinaia di carabinieri in abito borghese agiscono, dirigono le squadre fasciste, sono l’ossatura maggiore. A Pisa il generale comandante la divisione manda i cannoni per sfondare la camera del lavoro che da una notte resiste. In maggio, come in altre regioni, il proletario toscano riprende la lotta contro i fascisti in modo più vivo.
L’azione fascista durante il 1921 nella conquista successiva delle regioni segue il metodo del colpo di spalla locale; esso si basa sull’esatto apprezzamento del principale difetto del partito socialista, primo educatore delle masse italiane: il federalismo ed il regionalismo. Il partito non aveva una forma centralizzata, una solidarietà così educata che ad ogni colpo dato su una parte rispondesse la rivolta del tutto. I capi ad uno ad uno credevano la loro posizione piccolo-borghese, social-democratica locale, così equilibrata da garantirli da ogni accesso nel collegio, nel comune loro. In tale situazione le forze relativamente piccole del fascismo ebbero buon gioco.
Lavorato moralmente l’ambiente e le autorità, le disperate squadre di azione, venivano a provocare. Gli operai sottostavano. Zuffe, morti feriti. Intervento dello Stato, arresti, disarmo. Terrore fascista, spedizioni punitive. Defezioni. Costituzione del fascio locale, corruzione dei funzionari in suo favore. Condanne, bandi, affermazione della reazione. La maggioranza del corpo d’operazione fascista passa ad agire in altra regione. Adunate fasciste parziali, generali, secondo lo sforzo che si deve compiere.
Gli operai sono impregnati del semplicismo massimalista. Pieni di fede e di audacia dicono: Qui non vengono. E accarezzano le vecchie pistole, i fucili, le poche munizioni che individualmente hanno portato dal fronte o hanno comperato lesinando sul pane. Alla prima provocazione tutti scendono in piazza. La lotta si identifica colla zuffa. Le riserve per provvedere alle seguenti fasi del combattimento non vengono preparate. Gli stessi combattenti non hanno chi li sostituisca quando cadono o vengono tagliati fuori. Restano facilmente isolati, spezzettati, sopraffatti. Assediati non hanno chi li soccorra. E la reazione stravinse.
Ma nelle file lo spirito di lotta, dopo qualche settimana, si riaccende nei migliori, essi non più impacciati dallo spirito di difesa d’un patrimonio proletario ormai distrutto colpiscono con metodo, imparano la guerriglia sorda che stanca il nemico, lo esaspera. Se questo stato di cose da una parte agguerrisce il proletariato, lo corrode dall’altra, perché nell’agguato e nella rappresaglia fa perdere di vista ai proletari l’azione di massa e quella di insieme per la lotta di classe.
Dal marzo al settembre 1921 l’evoluzione militare fascista procede insieme a quella politica. Mentre le squadre locali terrorizzano le popolazioni agricole nelle province invase, e intorno a queste si polarizzano tutti gli sfruttatori più cinici dei contadini, uno stato maggiore si definisce, prepara sempre più complessi piani di espansione e dominio.
Il Ministro Bonomi non può fare macchina indietro in un momento nel quale, il proletariato ancora forte, il nuovo P.C. potrebbe subito riprendere tutto il terreno perduto, e continua a dare il consenso governativo all’azione del fascismo. Permette anche una maggiore partecipazione attiva dei militari nel movimento fascista. Il fascismo metodicamente sviluppa le seguenti azioni: Propaganda fascista fra gli ufficiali, sottufficiali, guardie regie, carabinieri e finanza. Sviluppo di una grande azione su Alessandria per avvicinarsi a Torino; di un’altra verso la Liguria; di una terza sull’Alto Veneto e Trieste; d’una quarta per la valle del Tevere, Umbria, Orvieto.
I membri del giovanissimo partito comunista (che alle elezioni ha raccolto 300 mila voti), pagando di persona, organizzano la resistenza operaia. Lanciano la parola d’ordine (21 luglio) delle formazioni militari, dell’armamento, delle risposte. Ma il fascismo dispone già di troppo terreno, si è troppo valorizzato. Mentre il proletariato è avvilito dai riformisti che consigliano l’umiltà (appello Turati-maggio) peggio ancora fanno i patti di pacificazione (agosto), esso moltiplica le forze e le attività. Fa grandi adunate di forza 10, 15, 20 mila squadristi che su un piano coordinato passano all’azione. Le città che meglio resistono con begli episodi sono Parma, che accerchiata da mesi, tiene testa. L’assalto contro Parma si sferra nella notte. Gli operai difendono la città. Intervengono le autoblindo, ci sono morti e feriti.
Da Tortona, presa nel cerchio che si stringe intorno ogni giorno di più, animosi giovani passano al contrattacco sui centri vicini, colpiscono dei fascisti. Il proletariato della città li appoggia, minaccia e compie energici gesti di piazza in loro sostegno, occorrono tre mesi per asservirlo. A Pordenone l’azione si svolge così: in aprile una perquisizione improvvisa della polizia (prossimi alla linea del Piave quei proletari erano armati). Adunata fascista nella vicina Sacile. Pattuglie fasciste vengono all’assalto delle città. Gli operai si ritirano in frazione Terre, loro quartiere. Dalle trincee colle armi resistono, respingono, sbaragliano i fascisti dopo un giorno di lotta furiosa. Allora interviene la autorità militare con molta truppa, gli operai si arrendono. La città viene militarmente occupata, arresti, disarmo. Compiuta la sottomissione intervengono i fascisti che favoriti dal Prefetto e dal comando, incendiano, distruggono, battono ed uccidono.
I fascisti tiranneggiano nelle zone invase da mesi, ma il proletariato locale si risveglia. A Chiusi gli operai riprendono le armi e vengono a conflitto (3 morti e numerosi feriti). I fascisti spingono nuove punte verso Roma e Civitavecchia, ricevono una dura lezione (un morto e 24 feriti); in Romagna il fascista Platania viene ucciso.
Torino è il centro criticamente operaio d’Italia, anche militarmente il più forte e meglio organizzato.
Per quanto nella massa siano nati malumori e stanchezze per l’eroismo sprecato così nella occasione delle fabbriche, la città fa pensare e dà soggezione a coloro che vorrebbero schiacciarla. Il Governo incomincia a sostituire tutti i reparti di truppa, i funzionari più democratici, prepara le forze sufficienti a contenere e schiacciare qualunque moto serio della popolazione. Intanto da Alessandria i fascisti attaccano in forze verso Torino. Sono spedizioni punitive che vanno su Brá, Casale, ecc. Alla popolazione operaia di Torino si lanciano sfide e si fanno minacce. È chiaro il programma di provocare per tentare la soffocazione armata. I fascisti locali vengono obbligati ad una guerriglia di strada, nella notte tengono imboscate, fanno sciocche provocazioni. Il 28 aprile oltre 100 fascisti protetti da altre pattuglie e dalla forza pubblica, assalgono ed incendiano la Camera del lavoro (ore 3 del mattino). La difesa interna organizzata da mesi, appunto per l’attesa troppo prolungata, e perché isolata al centro stesso dell’attacco malgrado il sacrificio dei suoi componenti, non risponde allo scopo e resta sopraffatta. Questa azione voleva provocare il proletariato per dar pretesto ad inviare il terrore legale. Il proletariato torinese resistette al suo impulso di rappresaglia immediata, dando prova di freddezza e di sensibilità politica non comune.
Il 5 maggio a Viterbo sulla via di Roma guidata da giovani comunisti della capitale, l’intera popolazione si oppose alla formazione di un fascio locale e all’intervento di fascisti da altre città. In armi a difesa della sua libertà comunale.

[Il Partito Comunista]

Il partito comunista tiene fede ai suoi patti verso il proletariato. Nel periodo di lotta armata oltre l’azione politica, svolge speciale cura verso l’organizzazione militare.
Il 21 luglio lancia il proclama per la formazione delle squadre di giovani adulti, la nomina dei capi, dei fiduciari, la formazione delle zone, l’istruzione tecnica ecc. Accanto a questa azione, da alcuni elementi scelti fa svolgere un’azione più costruttiva di studio, d’informazione, di raccolta, di penetrazione nell’esercito, nei magazzini, nelle officine militari dello Stato, sui loro mezzi ecc.; una terza azione viene fatta nella lega mutilati invalidi e reduci di guerra perché questa assuma il carattere tecnico militare che l’esperienza della massa dei suoi iscritti deve darle. Perché sia un centro non di rivendicazione, ma di forze, e forze scelte dalla classe operaia per la lotta armata. Questo programma venne agitato per oltre 4 mesi. Finché cessa di essere pubblico per divenire illegale (avendo i socialisti mantenuto il Consiglio direttivo della lega nelle loro mani).
Ai primi di agosto, essendo sorta in Roma una formazione chiamata “Arditi del Popolo”, dato il modo col quale i suoi dirigenti dicono di voler condurre la lotta, l’esecutivo del partito Comunista lancia un proclama di avvertimento per gli operai. Sempre in Roma, un giorno improvvisamente i capi di questi arditi inviano alle sezioni comuniste della provincia dei messaggeri a portare l’ordine di venire in forza alla città dove reparti militari sono pronti per iniziare la rivolta. Centinaia di rivoluzionari partono, arrivano, non trovano nessuno che li raccolga oppure vengono arrestati. La sera precedente degli elementi anarchici avevano imposto alla camera confederale del lavoro la proclamazione dello sciopero generale. La federazione e la sezione comunista non furono avvertite che indirettamente all’ultimo momento. Malgrado ciò furono mobilitati gli aggruppamenti collegati fra loro, e intorno a questi furono raccolte quante più si poté di queste forze cercando centralizzarle sotto unico comando. Questo per aspettare preparati gli avvenimenti del corso dei quali aveva informati i comunisti e che essendo basati su semplici ipotesi non si producono.
Il 7 agosto il P.C. lancia un avviso ai propri iscritti avvertendoli che il programma degli arditi del popolo, enunziato dai suoi capi, è ristabilire l’ordine e la normalità della vita sociale, ubbidire ai capi degli arditi al di fuori al di sopra di tutti i partiti ecc. Inoltre avverte che questi capi come l’Argo Secondari, sono legati a filo doppio da parentele e da interessi a Giolitti, quindi invita i propri membri a lavorare per l’organizzazione militare di classe, quella comunista, non lasciandosi trascinare su falsa strada.
In ottobre i fascisti continuano gli assalti, per le distruzioni nelle regioni dove si sono imposti da mesi. E spesso le prendono ancora. A Poggio Teneste, fuori Firenze, le loro squadre vengono sbaragliate ed i reali carabinieri devono accorrere a difenderli.
Per il congresso che prepara a Roma, il partito fascista codifica il proprio organico. Il P.F. ha la sua oligarchia politica la quale per spandersi e dominare bisogna si affermi più saldamente. Ha la sua gerarchia militare colla quale inquadra migliaia di spostati, di uomini della decomposizione sociale pronti a vendersi alla reazione, quando a lei occorre. La sua base finanziaria irrobustita dall’oro capitalista. (Ad esempio gli armatori di Genova diedero un milione perché fossero spezzate le organizzazioni portuali). Perciò dopo gli assalti di prova al Governo per la questione del fref… [sic].
Il partito è nazionale. Accanto alla sua gerarchia politica è istituita la sua gerarchia militare. Si stabilisce la parificazione dei gradi militari della milizia fascista con quella dei dirigenti del partito fascista. Il segretario politico, capo della milizia. Segretario politico della regione, comandante di coorte. Segretario provinciale, comandante di Legione ecc. I membri del partito sono divisi in membri contribuenti, membri effettivi. Questi ultimi si suddividono: in triari (riserva) e principi (squadre di azione). I principi formano i manipoli comandati dal centurione, le centurie (centurioni) le legioni, le coorti. I triari hanno uguali formazioni ma non sono obbligati alla partecipazione attiva nell’inquadramento e nelle azioni. Ogni centuria ha un suo gagliardetto ed un nome eroico (spesso millantatore).
Il battesimo della milizia fascista non è buono. Le sette o ottomila camicie nere adunate a Roma in occasione del congresso al quale ogni congressista è venuto accompagnato da un gruppo di colleghi inquadrati, dopo le prime prepotenze fasciste vengono messi a posto dagli operai. Si proclama lo sciopero generale. Treni che portano fascisti vengono fermati e assaliti fuori della città. Gli aggruppamenti comunisti di quartiere sono alla testa della resistenza operaia. Nei quartieri operai sono pronte vere battaglie con mezzi abbastanza efficaci, pattuglie di giovani operai si spingono verso il centro, paralizzano la polizia, costringono i fascisti a scomparire dalla circolazione. Dopo una notte di ansia nel Mausoleo di Augusto dove tenevano il congresso, le camicie nere partono rapidamente dalla città, accompagnate da guardie regie e carabinieri per essere difese, Vi sono 6 morti, 200 feriti, arresti numerosi, ma il proletariato celebra la sua vittoria modesta ma eroica. La cattiveria fascista si riversò in Umbria, le bande in fuga ad Orvieto uccidono e feriscono e da lontano minacciano Roma.
Nel maggio 1922 prendono a pretesto i funerali del bersagliere romano Toti morto in guerra, fanno una adunata in forze nella città. Operai comunisti nel quartiere S. Lorenzo, attaccano il corteo, lo sbaragliano senza farsi sorprendere, con tattica risoluta, rapida e fattiva. La polizia con auto blindate infuria sulla inerme popolazione, uccide, ferisce, arresta 500 operai. La tattica dei comunisti si era svolta così: esili gruppi collegati col centro di comando con le vedette. Tre adunate prestabilite per il momento di azione, pochi minuti di fuoco, sparire tutti, tornare ad adunarsi nuovamente in un nuovo punto lontano sempre in ordine sparso, rapporto di quanto era avvenuto, ordini della nuova azione da svolgere. Ristabilire subito il velo delle vedette e dei collegamenti, la nuova ritirata e la nuova adunata, Fin dal 1921 erano stati adottati tali criteri. La formazione organica era stata costituita da un piccolo nucleo di esperti militari dei quali tre avevano funzioni di comando. Essi sceglievano i capi degli aggruppamenti (da venti a trenta di quartiere). Ogni aggruppamento aveva le sue tre, quattro, cinque e sei squadre scelte d’autorità. Ogni organizzato era fatto consapevole che in momenti di azione doveva essere capace di condurre dieci o dodici operai.
Questa organizzazione ebbe momenti floridi e di crisi, ma i suoi insegnamenti giovavano. Il nucleo di esperti rappresentava un mezzo di affiatamento e di chiarificazione. I capi di aggruppamento avevano ogni quindici giorni una adunata a tipo rapporto militare, nella quale facevano relazione al comando del lavoro di sorveglianza, controllo, inquadramento compiuto, colla difficoltà, le obiezioni incontrate. Dopo un riassunto generale del comandante veniva distribuito l’ordine del lavoro per la quindicina seguente. Per esperimentare praticamente come funzionavano il collegamento e la disciplina, furono fatte improvvise adunate notturne scaglionando secondo un piano prestabilito formazioni sottilissime per tutta la città. Alle ispezioni risultarono cifre di duemila, tremila operai che silenziosi e tranquilli, possibilmente armati, senza conoscere se si sarebbe ingaggiata una lotta o no venivano a mettersi a disposizione. Anche nei diversi scioperi tale organizzazione funzionò. Si ottenne la mobilitazione di forze in modo non appariscente, il loro collegamento continuo col centro unico.
L’organizzazione militare comunista riuscì a compiere un lavoro modesto e semplice ma organico. Procurò armi. Con metodo sorvegliò depositi, caserme, fortezze e fabbriche militari.
In provincia il fascismo dall’Abruzzo scendeva in valle Aniene, dove Tivoli comunista tenne testa fino alla metà del 1922. Nella Valle del Tevere Orte resisteva. Civitavecchia, Viterbo facevano argine alle infiltrazioni lungo la costa Tirrena. In Romagna invece sui margini data la lunga serie di lotte politiche locali il fascismo penetrò come l’acqua in una spugna attraverso gli elementi repubblicani. Ma per penetrare nel cuore di Romagna occorse una vasta azione. Nel 1922 oltre diecimila fascisti portati da Bologna e da Ferrara, forze che miravano ad Ancona, furono fatte avanzare per la linea Ravenna-Forlì, dal nord al sud. Solo il tradimento dei repubblicani, che dopo aver fatto l’alleanza con gli operai passarono ai fascisti, permisero a costoro di avanzare rapidamente e di affermarsi. La Romagna diede squadre gagliarde, fu teatro di lotta continua, vivace di rappresaglie e di uccisioni. Elementi fascisti e comunisti, residenti nella località stessa si sono colpiti con odio e senza pietà tra loro.
Nel 1922 lo squadrismo ha raggiunto la sua massima espressione. Accresciuto immensamente di numero ha perduto di disciplina. Le prime squadre aristocratiche “disperate” sono sparite, sono state “assorbite”. I loro elementi ritirati e assorbiti dai comandi. La tattica non è più quella del manipolo di arditissimi che con l’impeto, l’azione a fondo, riescono o cadono. Adunate grandi per numero di elementi eterogenei politicamente e materialmente, che si impongono principalmente colla forza del numero, sui quali l’autorità dei capi deve imporsi con energia e che malgrado questa nelle loro furfanterie ricordano un po’ le bande nere che per loro conto seguivano le piccole armate del XVI secolo. Piani strategici semplici, di pressione avanzata per la linea più breve. Colonne che rapidamente convergono e si ammassano. Partono dal punto base di adunata e volgono sull’obiettivo. La base dove le riserve affluiscono man mano e in zona sicura fuori dal pericolo di contraccolpi e di sorprese. L’obiettivo individuato chiaramente, dettagliata la manovra di attacco. Prestabilita la ritirata in caso di insuccesso.
I depositi d’armi fascisti sono stati sempre quelli dell’ esercito stesso. Ma deposito minore aveva ogni fascio nelle capaci cantine, nelle ville dei suoi membri ricchi, la massa operaia aveva le armi proprie mal custodite nei poveri domicili; dopo l’occupazione delle fabbriche, specie in Piemonte, presso i contadini furono nascoste partite ingenti di fucili e mitragliatrici. Ma la situazione rovesciata ha fatto fiorire la delazione, la paura; molto materiale bellico é stato così scoperto ed abbandonato, altro gettato nei fiumi sepolto nella terra senza precauzione.
L’oligarchia politica che domina nel fascismo sente il bisogno di affermarsi più saldamente oramai. La sua gerarchia militare colla quale inquadra quando gli occorre migliaia di spostati, di subproletari, di uomini della decomposizione sociale, pronti sempre a vendersi alla reazione. Le sue finanze irrobustite dall’oro capitalista; i soli armatori di Genova ad esempio diedero un milione per abbattere le organizzazioni portuali.
Perciò gli assalti di prova al governo per la questione del prefetto Mori, per la giunta provinciale di Trento e dei comuni tedeschi dell’Alto Adige (adunata in Trento di ventimila fascisti di Verona, del Polesine, della Lombardia ecc.).

Il fascismo mira al potere

Il fascismo ha corrotto i corpi armati e gli ufficiali dell’esercito. Mobilita le sue forze. Spodesta i prefetti, con una simultanea azione nelle diverse città dove questi non sono sue creature, fa marciare cinquantamila uomini su Roma. Per tre vie è l’affluenza. La Valle dell’Aniene, ferrovia e strada, per la Valle del Tevere, ferrovia e strada, per la Valle Tirrena, ferrovia e strada. Le tre adunate sono Mentana-Monterotondo-Tivoli-S. Marinella. Il comando generale risiede in Perugia. Dietro spiegamento di forze il Governo viene ceduto dal Re ai fascisti. Solo qualche operaio isolato nella sublime collera, getta eroicamente la sua vita per eroica protesta. Essi sono comunisti, delle province invase specialmente, da tempo rifugiati a Roma.
Arrivata al governo l’oligarchia fascista cerca di stabilire il proprio Impero. Essa avverte che il pericolo maggiore per il suo potere può uscire dallo spirito di malvagia anarchia col quale ha condotto all’azione di violenza politica elementi infimi della società. Perciò nel campo militare o semimilitare compie il seguente lavoro: scioglimento di tutti gli squadrismi a cominciare dal proprio che trasforma o meglio tenta di trasformare in organismo nazionale controllato dal Governo, disciplinato e scelto, scioglimento delle squadre nazionaliste, liberali, dannunziane, repubblicane, ecc.
(Lo squadrismo per la debolezza del Governo aveva raggiunto proporzioni che potrebbero definirsi a chi più o meglio armava fra i diversi partiti. I nazionalisti avevano 30.000 camicie azzurre, alcune migliaia di camicie kaki i costituzionali, altre centinaia di camicie rosse i repubblicani, fino nei giovani comunisti nasceva la mania della camicia nera o rossa…).
Nello svolgere questo programma il Governo fascista anche sui propri adepti imperversa con decreti, manifesti, arresti. La guardia regia viene sciolta, gli ufficiali ridotti di numero sui quadri, aboliti i battaglioni mobili dei carabinieri.
Per inquadrare le forze dello squadrismo e per avere una forza più disciplinata interamente sottomessa, il Governo fascista crea una forza propria: la M.V.S.N. È questo un grande organismo politico militare, destinato ad essere strumento unicamente della nuova oligarchia. Essa è agli ordini del capo del Governo al quale il comando generale è direttamente subordinato. Il reclutamento é volontario, sono ammessi tutti i fisicamente capaci dai 17 ai 50 anni, già iscritti ai fascisti, e dopo qualche tempo anche quelli della milizia nazionalista.

da “Il Partito Comunista”, n. 41-43, 1978

fonte: Circolo di Iniziativa Proletaria Giancarlo Landonio – Via Stoppani,15 -21052 Busto Arsizio –Va-

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