Turchia: quale repressione dopo il golpe

Epurazioni di stato, arresti, violenze, persecuzioni contro i curdi: questo il primo bilancio del dopo golpe

La stretta autoritaria in Turchia è cominciata da tempo. Fino al 2009 arresti e repressione hanno riguardato principalmente i vertici dell’esercito, generali, capi di stato maggiore, con cui Erdogan ha pareggiato i conti (nel 98-99, quando era sindaco di Istanbul fu arrestato e imprigionato, in conseguenza del colpo di stato soft contro il governo Erbakan). Ma la repressione contro i militari ha solo aumentato la sua popolarità. Dopo il 2009 sono stati colpiti i giornalisti curdi (nell’indifferenza della stragrande maggioranza degli intellettuali turchi). Poi la repressione si è allargata a personalità politiche, del mondo economico e della cultura di Istanbul e gli arresti sono stati sempre più numerosi.

Fra il 2012 e il 2013 vengono arrestati più di 100 sindacalisti del pubblico impiego. Sono trattenuti in carcere per più di 8 mesi e poi assolti dai giudici. L’accusa è di terrorismo, come già per numerosi militanti comunisti, un anticipo di quello che avviene in questi giorni. Sempre di terrorismo sono accusati molti operai che scioperano nel 2014 e 2015 o i componenti dei consigli di fabbrica, in particolare quelli della componentistica auto.

Dopo il recente fallito golpe, arresti e fermi sono scattati immediatamente, senza alcuna indagine: evidentemente le liste erano già pronte e hanno raggiunto dimensioni impensabili, coinvolgendo ad oggi più di 70 mila persone (anche se sono stati rilasciati circa mille soldati semplici). L’azione repressiva è coordinata dal Ministero degli interni di cui è titolare Efkan Ala e dai servizi segreti guidati da Hakan Fidan, colpisce a vari livelli, dalla sospensione dal lavoro, al licenziamento, al fermo, all’arresto (nota 1). Il clima di intimidazione e di violenza (da sempre nelle carceri turche si pratica la tortura) ricorda le purghe staliniane. Si vuole dimostrare la colpevolezza dei militari e dei “seguaci di Gulen”, di cui si favoleggia siano dai 4 ai 5 milioni. Per tutto questo Erdogan è stato denunciato da Amnesty International che parla chiaramente di torture, violenze sessuali (anche sugli uomini), ecc.. Riceve invece la “comprensione” se non l’appoggio del sito web israeliano MES e di Al Jazeera (cioè del governo del Qatar, con cui la Turchia ha appena firmato un lucroso contratto militare) che pubblica solo articoli in difesa di Erdogan.

Lo stato di emergenza
Il 21 luglio l’Alto Consiglio nazionale di sicurezza sospende la Carta Europea per i diritti umani sulla base dell’art.15 della Carta stessa invocando, come ha già fatto la Francia di Hollande, lo stato di emergenza.

Lo stato di emergenza permette di imporre il coprifuoco, restringe il diritto a manifestare, limita la libertà di movimento nel paese e verso l’estero, consente il licenziamento dei dipendenti in deroga al contratto di lavoro, consente il fermo di polizia senza convalida del giudice per 30 giorni, consente la creazione di un tribunale speciale e di uno o più carceri di massima sicurezza,

Il governo ha dichiarato possibile la reintroduzione della pena di morte.

La repressione non ufficiale e la caccia al curdo.
Accanto alla “repressione ufficiale” c’è stata la violenza di strada, affidata ai fans del presidente.

Anche in passato l’esercito ha spesso delegato a gruppi paramilitari, es. i famigerati “lupi grigi”, con pestaggi e assassini politici mirati, in particolare di militanti curdi, sindacalisti e militanti di sinistra. Oggi, riferisce Etienne Coupeaux, specialista della Turchia, Università di Lione, in alcune città turche ci sono vere e proprie orde e gruppi d’islamisti e nazionalisti, che procedono per strada ad intimidazioni, aggressioni fisiche contro oppositori non meglio identificati. Nella sola giornata di sabato 16 luglio secondo fonti non ufficiali sono morte in questo modo circa 160 persone, quindi più di quelle morte per gli scontri legati al golpe (dal sito web Gli occhi della guerra, 18 luglio).

I “fedeli” di Erdogan si sono abbandonati a vari episodi di linciaggio contro membri dell’esercito, altri militari sono stati presi a cinghiate, uno anche decapitato vicino al ponte sul Bosforo. Successivamente molti sostenitori di Erdogan, si sono accaniti contro i quartieri curdi di Istanbul: negozi dati alle fiamme, aggressioni nei confronti di passanti ed in generale una violenza indiscriminata. Vengono anche attaccati i profughi siriani e le donne senza velo. Dichiara al sito web Globalist un attivista curdo: “Io come attivista curdo ho paura. Non organizzerei mai una manifestazione in questo momento. Ci aggredirebbero subito. Mi sento davvero senza speranza, posso dire che è uno dei periodi più neri della mia vita. Se un golpe c’è stato, non c’era certo in ballo la democrazia, ma una lotta di potere fra due movimenti islamici entrambi forti, quello di Erdogan e quello di Gulen. Ma la repressione colpirà presto l’opposizione di sinistra e anche i curdi, come al solito” (Globalist 20 luglio).

I curdi sono rei di aver partecipato in massa alle manifestazioni dei giovani in piazza Taksim nel 2013 e di aver votato HDP, un partito che apertamente molti esponenti del governo vorrebbero “sradicare”. Secondo il sito web statunitense The Atlantic in passato una fetta consistente di curdi inurbati e conservatori, fra cui commercianti, piccoli imprenditori ecc, simpatizzavano per Erdogan e approvavano la repressione del PKK. La nascita del HDP, un partito di sinistra che cerca di rappresentare la lotta alla discriminazione, ha però attirato i voti degli aleviti sia curdi sia turchi, ma anche di fette radicali della popolazione turca liberal e modernizzante. Già ai primi di maggio era stata abolita l’immunità parlamentare, un provvedimento per consentire l’arresto dei deputati filo-curdi. L’HDP aveva preannunciato ricorso alla Corte Costituzionale. Dei 59 deputati curdi 50 sono sotto processo con l’accusa di simpatie per il PKK; accusa che si estende anche a deputati non curdi se difendono i diritti civili dei curdi o denunciano la mattanza nel Sudest del paese (La Stampa 20 maggio 2016). L’HDP del resto ha riunito intorno a sé attivisti operai, esponenti di altre minoranze come gli aleviti, molti turchi di sinistra o anche solo sensibili al problema dei diritti civili. Accanto al leader Demirtis, la copresidente Figen Yüksekdağ, ad esempio, è turca. La caccia al curdo nelle grandi città è un corollario dei bombardamenti sul Kurdistan turco. Viceversa ai bombardamenti nel Sud turco si affiancano arresti di massa in tutto il paese, ad es. 500 persone arrestate nel luglio 2015 a Istanbul, Ankara, Konya e Manisa, accusate indifferenziatamente di essere del PKK o dell’ISIS. Il molte situazioni la caccia al curdo è tutt’uno con gli attacchi ai lavoratori perché oggi i curdi sono una fetta importante del proletariato nelle grandi città della Turchia. Lavorano nei settori dove le paghe sono più basse e i turni di lavoro più lunghi, come il tessile, oggi affiancati dai bambini e dalle donne siriani dei campi profughi.

La guerra nel Kurdistan
Da tempo il governo turco preme per la creazione di una “zona di sicurezza” nel Nord della Siria, ma fino ad oggi ha trovato la netta opposizione dei paesi occidentali, in particolare degli Stati Uniti. Secondo alcuni osservatori, il blocco della base di Incirlik, ancora senza elettricità, con i 2500 militari USA ridotti all’inazione e gli ufficiali turchi sotto inchiesta, potrebbe rientrare nel tentativo di ricontrattare la concessione della base in cambio di ancor più mano libera nel Nord Iraq, dove i raid sono ripresi con estrema violenza il 21 luglio contro gli indipendentisti curdi.

Da un anno circa, in pratica dal luglio 2015, da quando Kobane, in Siria, ha resistito all’assedio dell’ISIS, attirando l’attenzione internazionale sulla Rojava e dando visibilità mediatica al PYD curdo, la tregua coi curdi è saltata. Da parte turca ha pesato il bisogno elettorale di Erdogan di aggregare intorno a sé un “partito d’ordine” ricreando un pericolo curdo che giustificasse la repressione dei concorrenti politici. La Turchia ha mantenuto mediamente buoni rapporti col PDK (Partito democratico curdo) di Barzani, attuale presidente del Kurdistan iracheno, ma ha ripreso i bombardamenti sui guerriglieri e le postazioni militari sia del PKK (Nord dell’Iraq) che del PYD (Nord della Siria); il PYD è trattato da fiancheggiatore del PKK, ma la ragione vera dell’intervento turco è impedire nel modo più assoluto che si crei un corridoio di comunicazione fra curdi siriani e quelli iracheni. Nel settembre 2015 migliaia di poliziotti e reparti dell’esercito sono inviati nella città di Cizre, di 130 mila abitanti, in maggioranza curdi, sul confine con Siria e Iraq. Tra settembre e dicembre ci sono 258 morti fra i civili curdi, di cui 33 bambini, centinaia di case distrutte, tanto che l’Alto Commissariato ONU affianca Amnesty International nella denuncia della continua violazione dei diritti umani (Nena news 19 gennaio 2016).

Nella circostanziata documentazione ONU si denunciano anche le discriminazioni subite dai curdi, uomini e donne, nell’accesso al lavoro, si parla di “attacchi razziali indiscriminati”, di arresti ingiustificati, di esclusione dei bambini curdi dall’istruzione.

La lotta ai curdi turchi assume connotati di rara ferocia nel febbraio 2016 a Derya Koç e di nuovo a Cizre, con circa 160 vittime civili (la maggior parte delle vittime sono donne e bambini). Da mesi nel Sud della Turchia l’esercito turco ha imposto il coprifuoco; in molte città quartieri o edifici considerati covi di militanti curdi sono stati attaccati con carri armati, artiglieria pesante e bombardamenti aerei, causando alle danni devastanti. Ma nel contesto di un’Europa terrorizzata dall’afflusso dei profughi siriani, Erdogan ottiene la “solidarietà” di Angela Merkel, ansiosa di affidare al massacratore il compito di carceriere dei profughi e il silenzio complice delle cancellerie europee. Da questo momento in poi ogni attentato che avviene in Turchia viene se possibile attribuito dal governo turco al PKK con picchi di bombardamenti e distruzioni in marzo e maggio, quando i raid riguardano anche la Turchia Sud-orientale a Nusaybin e nelle aree limitrofe all’Iraq, per “distruggere i santuari dei ribelli”. Negli ultimi due anni l’altro partito del Kurdistan iracheno, il PUK (Unione Patriottica Curda), guidato dalla famiglia Talabani, ha potuto contare sulle risorse petrolifere di Kirkuk. Si è ulteriormente avvicinato all’Iran e ha riassorbito un’ala separatista (Gorran). Di recente si è vociferato di un progetto per la costruzione di un oleodotto fra Kurdistan e Iran, che andrebbe a sostituire il flusso attuale di petrolio via strada dal Kurdistan alla Turchia.

Il nuovo PUK-Gorran ha 42 deputati nel Parlamento del Kurdistan iracheno contro i 38 del PDK, che non ha più la maggioranza e comunque fatica a giustificare un’alleanza, sia pure tacita, con Erdogan.

Erdogan è stato costretto a partecipare alla guerra all’ISIS, ma vede con irritazione che gli Usa armano le fazioni curde, considerate più affidabili se non più efficaci in funzione anti-ISIS.

Lo sfruttamento e la violenza contro i profughi
L’ondata di violenza di questi giorni ha in parte oscurato una diversa forma di violenza che viene esercitata contro i profughi siriani e iracheni. La stessa ONU ha denunciato (in ritardo rispetto alle ONG presenti nella zona) che le donne siriane nei campi profughi vengono spesso violentate o rapite per avviarle alla prostituzione. Dei circa tre milioni di profughi siriani presenti in Turchia, un milione sono bambini, meno di un terzo ricevono una qualche forma di istruzione. Migliaia sono costretti a lavorare per procurare cibo, acqua e vestiario a sé e alla famiglia. Secondo Human Rights Watch i bambini sono preferiti agli uomini per il lavoro; sono utilizzati per produrre tessuti, borse, scarpe in fabbriche umide e malsane, per 12 ore al giorno, dormono all’interno delle fabbriche, sotto i banchi di lavoro, in letti improvvisati costituiti da una singola coperta e da scarti di materiale tessile; oppure lavorano nei campi di mele o frumento senza alcuna tutela. Un ragazzino riceve in media 150 dollari al mese, una donna 200. In Turchia il salario minimo è di 420 dollari, il salario medio di un operaio comune è di 650 dollari.

Ai profughi non vengono concessi permessi di lavoro e quindi necessariamente lavorano in nero; solo 10 mila hanno ottenuto uno contratto di lavoro legale (di solito medici, ingegneri o alte specializzazioni) per la strenua opposizione degli imprenditori turchi che non vogliono applicare ai profughi il salario minimo fissato per legge.

I profughi quindi stanno in parte sostituendo i curdi come esercito industriale di riserva, come i curdi hanno una lingua diversa, uno status legale che li discrimina, sono stati sradicati con la violenza dal luogo di origine.

Se è giusto denunciare questo sfruttamento ancor più si deve denunciare l’ipocrita complicità dell’Unione Europea che ha promesso a Erdogan 6 miliardi di €, guardandosi bene dal controllare come poi i profughi ne beneficiano. L’importante è che la Turchia se li tenga.

Riuscirà Erdogan a piegare sotto il giogo del dispotismo la Turchia?
Il 25 luglio si è tenuta la prima manifestazione post golpe in Piazza Taksim, a Istanbul; convocata dal CHP (nota 2) che aveva chiesto solo bandiere nazionali turche e ritratti di Ataturk, vi hanno partecipato migliaia di persone. Che non si sono limitate a condannare il golpe, ma hanno gridato “Taksim ovunque, ovunque resistenza”, lo stesso delle manifestazioni antigovernative di Gezi Park del 2013, e anche “no alla dittatura, con l’uniforme o senza”.

Erdogan ha uno zoccolo duro di sostegno nell’esercito, nei servizi segreti, nelle campagne fra la piccola e grande borghesia anatolica. Per molti turchi il periodo del suo governo coincide con un miglioramento significativo dei livelli di reddito. Raccoglie consenso per il richiamo ai valori della famiglia e della tradizione, oltre che per l’esaltazione dell’orgoglio nazionale (e l’annesso programma “ottomano”).

Ma oggi non cerca più il consenso, schiaccia 70 mila oppositori reali o potenziali per spaventarne centinaia di migliaia, ha bisogno di esibire una violenza senza precedenti. Che può indicare una tale sicurezza da non dover neanche salvare la faccia “democratica”, oppure l’unico modo per conservare il controllo, perché le contraddizioni stanno moltiplicandosi.

Nota 1: il quadro va aggiornato giorno per giorno ed è una nostra rielaborazione su notizie Reuters, Ansa ecc.
Repressione
Arrestato a Istanbul Orhan Kemal Cengiz, noto editorialista del quotidiano Ozgur Dusunce e soprattutto avvocato per i diritti umani.
Chiusi d’autorità 1.043 tra scuole private e dormitori studenteschi, 1.229 fondazioni e associazioni e 35 strutture sanitarie; inoltre 34 radio, 15 università, 19 sindacati, un numero imprecisato di associazioni di volontariato fra cui Kimse Yok Mu, impegnata in Palestina (un tempo voluta da Erdogan, viene ora sacrificata al recente accordo con Israele).

Nota 2: il CHP – Cumhuriyet Halk Partisi, Partito Popolare Repubblicano – è un partito d’opposizione, moderato, erede della tradizione kemalista.