Una catena di disastri capitalistici, che non debbono essere pagati dalle classi lavoratrici

Siamo entrati in una grande crisi, forse la più colossale della storia del capitalismo. L’innesco è stato la diffusione a scala mondiale del Covid-19.

Questo virus è un prodotto della natura, ma all’origine di tutti i coronavirus c’è un insieme di attività capitalistiche: la deforestazione su grande scala, gli allevamenti intensivi e l’agro-industria, il furto delle terre nei paesi del Sud del mondo per impiantare monoculture, lo sregolato sventramento dei territori per la ricerca dei metalli rari, la folle urbanizzazione. Questa aggressione alla natura, in particolare alle zone ancora selvagge della natura, crea l’ambiente ideale per virus come il Covid-19, che hanno già prodotto altre epidemie negli ultimi 20 anni. E l’estremo inquinamento dell’aria, un altro prodotto del capitalismo, ha creato le condizioni favorevoli alla diffusione dei virus.

Per questo diciamo che il Covid-19 è un virus capitalistico. Altrettanto capitalistica è la grande crisi sanitaria ed economica che ne è derivata. Sia il governo cinese, sia il governo italiano e quelli di tutta Europa, e infine il governo degli Stati Uniti, hanno dovuto fare ricorso a misure eccezionali perché nessuno dei sistemi sanitari di questi paesi si era preparato a fronteggiare una epidemia di questo tipo.

L’impreparazione degli stati europei, a iniziare da quello italiano, ha qualcosa di criminale perché da anni sia l’OMS che gli studiosi vicini alla classe lavoratrice avevano previsto l’arrivo di epidemie a scala globale. In realtà questi stati, a iniziare dallo stato italiano, non hanno mai messo la salute della popolazione al primo posto, e tanto meno quella dei lavoratori. Hanno messo al primo posto il profitto e la parità del bilancio statale, tagliando la spesa sanitaria a favore di quella militare e alle valanghe di misure a sostegno delle imprese. In Italia negli anni ’80 c’erano 530.000 posti letto negli ospedali pubblici, nel 2017 erano stati ridotti a 191.000: nel mentre la popolazione era salita di 4-5 milioni. In un paese che si vanta di essere la 7-8^ potenza industriale del mondo, al momento dell’esplosione dell’epidemia c’erano solo 5.000 posti di terapia intensiva, e mancavano i medici, gli infermieri e i reparti specializzati necessari!

Questa criminale impreparazione ha gettato nel panico il governo Conte. E ha rafforzato il caos e la protervia con cui sono state adottate misure sempre più dure di confinamento della popolazione, per evitare la rapida diffusione dell’epidemia e con essa il completo collasso delle strutture sanitarie pubbliche. Anche gli altri governi europei, uno dopo l’altro, si stanno muovendo sulla stessa linea per mascherare le loro colpe. Sia a Milano che a Madrid, sia a Parigi che a Londra, mancano mascherine e ventilatori polmonari, non c’è più posto negli ospedali; in compenso, però, abbondano i cacciabombardieri e i carri armati.

In Italia sono state prese rigidissime misure di confinamento della popolazione, ma per oltre un mese milioni e milioni di operai, facchini, commesse, impiegati impegnati in attività che non sono in alcun modo essenziali, sono stati costretti dai padroni e dal governo ad andare a lavorare, e senza alcun tipo di precauzione. Governo e mass media parlano di guerra contro il virus, ma quella in corso è piuttosto una guerra contro milioni di lavoratori e lavoratrici costretti a rischiare la vita, e a favorire – contro la loro volontà – l’allargamento dell’epidemia. Con i boss di Confindustria Lombardia e Veneto e di Confetra in prima fila nel rivendicare la licenza di uccidere.

È stata solo l’iniziativa degli operai delle fabbriche e dei facchini e dei driver della logistica, la loro decisione collettiva di restare a casa o scioperare che ha imposto all’asse padronato-governo il parziale blocco delle attività non essenziali. Del resto, non c’è altra via: la classe lavoratrice può difendere la propria salute solo da sé stessa. Non può aspettarsi alcun regalo né dallo stato né dai padroni.

Lo stato, del tutto inefficiente nelle sue strutture sanitarie (tanto da dover chiedere aiuto all’estero), si è mostrato efficiente solo nell’attuare misure restrittive e repressive con polizia, carabinieri, esercito, guardie carcerarie. Emblematico di questo “stato d’emergenza”, con il quale si cerca di far ingoiare ogni nefandezza, è l’indifferenza e la cappa di silenzio calata sui 13 detenuti morti nel corso della rivolta delle carceri, che difficilmente si sono tutti suicidati. Il governo ha usato la repressione nelle carceri per lanciare un chiaro avvertimento di carattere generale: la ribellione sociale non verrà tollerata, chi sfida lo stato dovrà affrontare i suoi apparati militari, che ripristineranno l’ordine (capitalistico) costi quello che costi.

Nel frattempo la crisi del coronavirus ha innescato una gigantesca crisi dell’economia mondiale, di cui non abbiamo ancora visto tutta la profondità. Le borse di tutto il mondo hanno iniziato prima a crollare, poi ad andare su e giù all’impazzata come sulle montagne russe, perché i pescecani del capitale finanziario avevano scommesso montagne di denaro sulla crescita indefinita dell’economia. E li ha presi il panico quando hanno capito che si andava dritti dritti verso una dura recessione, che mette a rischio i loro super-profitti.

Pur essendo ancora immersi in un caos di proporzioni inimmaginabili, i capitalisti di tutto il mondo e i loro governi stanno apprestando piani per scaricare i disastri da loro prodotti sulle classi lavoratrici. La loro fondamentale preoccupazione è: salvare le imprese, salvare le banche. Perciò stanno mettendo in campo migliaia di miliardi di euro e dollari, attuando un enorme indebitamento degli stati che contano di scaricare sulle nostre spalle. Si replica, in grande, la scena del 2008: nessuna rimozione delle cause strutturali della crisi, ma ulteriore crescita del capitale fittizio e delle relative speculazioni con rischi moltiplicati di fallimenti a catena.

I poteri forti danno per scontato che la crisi produrrà licenziamenti di massa, grandi masse di disoccupati, acuti conflitti di classe. Per questo stanno perfezionando vecchi e nuovi strumenti di controllo e di repressione a tappeto per cercare di stroncare sul nascere l’inevitabile ribellione degli sfruttati. Il loro sogno, il sogno della Confindustria e di tutti – senza eccezione – i partiti che siedono in parlamento, destra centro sinistra, è di trasformare la crisi del loro sistema sociale in una crisi della classe lavoratrice, una crisi da lacrime e sangue.

E nei loro programmi c’è l’intento di far pagare il prezzo più alto agli immigrati e alle immigrate, e alle popolazioni del Medio Oriente, dell’Africa, dell’America del Sud con una catena di nuove guerre, embarghi, e ogni genere di estorsione neo-coloniale delle loro ricchezze. Nulla è escluso nei loro programmi di ripresa dell’accumulazione, neppure un nuovo massacro mondiale. Non a caso il termine che viene martellato in questi giorni bui è: guerra. “Siamo in guerra”, “economia di guerra”, con l’accompagnamento di ogni sorta di fanfara nazionalista e razzista.

Le classi lavoratrici di tutto il mondo possono e debbono spezzare questo sogno capitalistico, che per loro e l’umanità intera sarebbe il più orribile degli incubi. La crisi del sistema capitalistico non può e non deve essere pagata dalle classi lavoratrici. Questa doppia catastrofe non è frutto del caso, di chi sa quale misteriosa combinazione di fattori o di segreti complotti: è un “capolavoro”, opera in tutto e per tutto di un sistema sociale decadente, decrepito, è il prodotto dalla sua aggressione illimitata alla terra, alla natura, a chi vive del proprio lavoro (sfruttato e oppresso), all’intera specie umana, la cui sopravvivenza è messa ormai in pericolo.

Questa doppia catastrofe apre una fase di grandi sconvolgimenti sociali e politici, e mette le classi lavoratrici di fronte a una secca alternativa: o la discesa nell’abisso verso brutali forme di schiavitù, o una grande, storica battaglia per liberarsi dal capitalismo, diventato ormai il più spietato e mortale di tutti i virus.

Questa battaglia è cominciata già oggi con la difesa attiva della nostra salute, e ancora una volta il SI Cobas ha svolto un ruolo di avanguardia. Ma deve proseguire – l’emergenza sanitaria non è finita – per imporre misure di tutela della salute dei lavoratori e della popolazione molto più efficaci; per imporre un piano straordinario di assunzioni nella sanità pubblica con l’assorbimento di tutto il lavoro precario, e l’immediata requisizione senza indennizzo delle strutture della sanità privata. Deve proseguire con la lotta per impedire qualsiasi licenziamento, per il salario di quarantena pieno anche per i lavoratori a tempo determinato in scadenza; per ottenere il salario garantito per la massa dei disoccupati; per tutelare davvero – come non è stato fatto finora – le donne lavoratrici costrette in molti casi a scegliere tra il lavoro e la cura dei bambini; per ottenere il permesso di soggiorno incondizionato e il salario garantito per le lavoratrici di cura immigrate che hanno perso il lavoro. Deve proseguire per mettere in luce le gravissime responsabilità del potere statale e degli avidi interessi dell’imprenditoria privata nella devastazione del sistema sanitario pubblico, e quindi nella attuale catena di lutti. Contrastare oggi con decisione la pretesa di padronato e governo di imporre la massima continuità della produzione, avanzare fin da ora queste rivendicazioni e cominciare ad organizzarsi, è stata ed è la migliore delle premesse per arrivare preparati alla fine dell’“emergenza”, quando la crisi si manifesterà in tutta la sua profondità, e divamperà lo scontro di classe per questi e più ampi obiettivi.

Non possiamo accettare che alle imprese e alle banche sia concessa ogni libertà, mentre ai lavoratori si nega il diritto di assemblea, il diritto di sciopero, il diritto di restare a casa per non diventare carne da macello. Non possiamo accettare che in nome dell’emergenza si militarizzi la vita sociale e la vita nei luoghi di lavoro!

Così pure respingiamo la soluzione capestro di fare deficit, deficit, deficit, che poi verrà accollato alla classe dei salariati, come lo è stato con le politiche di “austerità” e i sacrifici a senso unico degli ultimi decenni, con una polarizzazione enorme della ricchezza sociale e sontuose misure fiscali pro-capitalisti. Decenni in cui, in nome della necessità di ridurre il debito di stato, è stato compiuto un vero e proprio massacro sociale, dalla legge Fornero al Jobs Act al Fiscal Compact. Per non parlare poi dei decreti Minniti e Salvini che colpendo duramente gli immigrati, i richiedenti asilo e le avanguardie di lotta, hanno colpito l’intera classe lavoratrice.

Alla ricetta capitalistica di ingigantire il debito di stato, che è in realtà un debito di classe, un debito nostro, opponiamo la necessità di una imposta patrimoniale, di un prelievo del 10% sul 10% più ricco della popolazione, che ha accumulato sulla nostra pelle un’enorme quantità di ricchezza. Questa imposta assicurerebbe le risorse necessarie (400 miliardi di euro) per affrontare di petto le vere emergenze sociali. È tempo di cominciare ad espropriare gli espropriatori non solo delle ricchezze accumulate, ma anche del loro potere di disporre della nostra vita, della nostra libertà, del nostro futuro. Nel porre con forza questa rivendicazione politica, vogliamo lanciare un invito internazionale a ribellarsi ovunque alla classe che ha centralizzato ovunque, non certo solo in Italia, tanto capitale e tanto potere per poi portarci sull’orlo dell’abisso.

Vediamo i partiti di governo (PD-Cinquestelle) e quelli dell’opposizione di destra provare a unirsi in un patto di unità nazionale finalizzato a stringerci un laccio al collo e impedire ogni forma di vera autonomia di classe. Rispondiamo rilanciando, a nostra volta, la prospettiva di una ripresa della lotta e dell’autonomia di classe su grande scala e la proposta di un fronte proletario anti-capitalista, che stringa in un patto di unità d’azione le forze che intendono battersi davvero contro l’uso capitalistico dell’attuale “emergenza”.

La profondità di questa crisi dimostra che per le classi lavoratrici non ci può essere salvezza dentro il capitalismo, che è capace di superare i propri disastri solo gettando le basi per disastri ancor più devastanti. La salvezza delle classi lavoratrici passa per un grande rivolgimento sociale realizzato dalle masse sfruttate e oppresse ridiventate protagoniste della storia del mondo. Negli ultimi anni abbiamo visto imponenti sollevazioni soprattutto in Sud America e nel mondo arabo e medio-orientale. Ora, però, con l’esplosione di questa crisi globale del sistema capitalistico, è l’intero campo degli sfruttati ad essere chiamato in causa. E a doversi organizzare sul piano politico: proletari/e del Nord e del Sud del mondo, autoctoni/e e immigrati/e, uniti come le dita di un pugno chiuso!

26 marzo 2020

Il cuneo rosso – GCR – Pagine marxiste
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