A fianco del proletariato egiziano contro i padroni “vecchi” e “nuovi”

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Gli avvenimenti egiziani sono di nuovo al centro dell’attenzione internazionale. Logicamente motivo di dibattito nella sinistra europea e internazionale. Si va da chi esalta l’esercito che si è felicemente interposto per impedire una guerra civile e ha finalmente detronizzato “per volontà del popolo” gli islamici reazionari, a chi vede nell’intervento dell’esercito egiziano l’ennesima interferenza dell’unico imperialismo cattivo, cioè quello Usa, a chi infine osanna la “seconda imminente rivoluzione” che spazzerà via gli oppressori.

La realtà è un po’ meno esaltante e un po’ più complessa se si vuole andare a vedere i fatti da un punto di vista di classe, se si va a distinguere chi è attore e chi è manutengolo, se si distinguono gli interessi dalle comode spiegazioni ideologiche. La contrapposizione laici “illuminati” e islamici “reazionari” viene recuperata quando fa comodo coprire gli interessi dell’imperialismo Usa o Europeo, quando si coprono gli interessi delle voraci borghesie nazionali, quando si vuol giustificare l’ingiustificabile… oppure, come nel caso dell’Algeria 1992 e dell’attuale rivolta egiziana del 2013, si vuol far passare come progresso la violenza di un esercito che da decenni opprime e perseguita il proletariato di questo paese.

E’ comoda la lettura dell’esercito custode della “modernità” e della “laicità”, per non vederne invece la sua vera natura, che nel suo gruppo dirigente non è altro che una frazione borghese con propri interessi, in lotta con altri gruppi borghesi per la gestione delle risorse del paese e per l’indirizzo della politica economica e della politica estera. Una frazione “proprietaria”, a base capital-statale (il 40% dei capitali sono in mano ai militari), che esercita il ruolo ambivalente di gendarme e di padrone.

I Fratelli Mussulmani, la cui dirigenza è rappresentata da una borghesia variegata che va da imprenditori e finanzieri a chi esercita le professioni liberali, avrebbero potuto optare per una politica troppo liberista rispetto al desiderio del complesso militar industriale di salvaguardare una quota di imprenditoria di stato sotto il proprio diretto controllo. Gli ufficiali dell’esercito non vedevano di buon occhio la politica di “apertura” ai gruppi islamici radicali in Siria. Vedevano minacciato il loro ruolo nella gestione del bilancio dello stato, dei prestiti esteri, soprattutto statunitensi .
Nel marzo scorso ufficiali di polizia e funzionari dei servizi di sicurezza avevano scioperato per aumenti salariali, migliore armamento e benefici vari… e contro il tentativo di Morsi di ridurre le spese dell’esercito. E avevano protestato perché uomini dei Fratelli Mussulmani erano stati promossi a dirigere aziende di stato. Il rischio era che Morsi seguisse le orme di Erdogan.
Da ultimo Morsi avrebbe potuto essere tollerato per qualche tempo se avesse saputo imbrigliare la protesta popolare e fare da pompiere rispetto alle lotte; cosa che non è avvenuta.

Le lotte degli operai, dei lavoratori, degli strati più poveri della popolazione egiziana si sono intensificate fra il 2012 e il 2013 mentre cresceva la delusione per le promesse non mantenute dal governo Morsi.
L’ Egyptian Centre for Social and Economic Rights (ECESR) ha registrato nel 2012 ben 1.969 “proteste” (comprendendo dimostrazioni, sit-in, blocchi stradali e scioperi) , sia nel settore pubblico che nel privato, contro i 530 del 2010. Esse sarebbero state 9.427 dal giugno 2012 al giugno 2013 (presidenza di Morsi) . Il 49% di queste hanno riguardato lavoratori che chiedevano migliori salari, sicurezza sul posto di lavoro, contratti regolari, riassunzione dei licenziasti, nazionalizzazione delle fabbriche chiuse. Le proteste per diritti politici o di opposizione politica a Morsi erano il 13%. Il 30% di esse ha riguardato la richiesta di liberazione dei prigionieri politici e degli attivisti sindacali.
Solo il 16% si sono svolte nella capitale, a significare la grossa diffusione e irradiazione del movimento operaio nel paese intero.

Al di là delle cifre, sempre difficili da verificare, si registra un quadro di mobilitazione sociale autentica contro Morsi e una autentica dimensione di massa delle proteste di luglio (17 milioni di manifestanti secondo WSWS del 1° luglio, 22 milioni secondo Islam Times, 30 milioni secondo altri) in cui il proletariato egiziano ha dimostrato un coraggio e una determinazione incredibili..
Manifestazioni che hanno riguardato le città e i centri operai, ma a cui hanno partecipato anche molte delegazioni dalle campagne, dove vive il 57% della popolazione egiziana (e lì si concentrano, soprattutto a sud, nell’Alto Egitto, coloro che vivono sotto la soglia della povertà con tassi del 47% sul totale della popolazione rurale – dati Banca Mondiale 2012).

La mobilitazione è in buona parte alimentata da una situazione di vita insostenibile, i redditi reali si sono ridotti dell’11,4% in tre anni, cibo e carburante sono stati razionati (l’Egitto dipende per più di metà dei suoi consumi dalle importazioni e non ha più riserve adeguate in moneta estera per pagarle).
Sono crollati i consumi di abiti, di elettrodomestici, di beni duraturi, perché le famiglie riescono a malapena a comprare cibo e medicine. (cfr. “Egypt’s unions struggle after the revolution”, da Aljazeera 20 aprile 2013).
Il lavoro minorile è aumentato e anche la disoccupazione, soprattutto giovanile. L’ondata di scioperi di marzo ha mostrato come nulla sia cambiato nelle condizioni del lavoro , che resta sottopagato, senza misure di sicurezza, non contrattualizzato. Sono stati creati sindacati indipendenti che federano numerose categorie di lavoratori, ma il governo Morsi li ha in ogni modo ostacolati e aveva pronto un emendamento costituzionale che dava al governo il diritto di sciogliere qualsiasi organizzazione sindacale che “incoraggi le proteste degli operai”. Le lotte sono state perseguitate con la stessa violenza che sotto Mubarak. Contro gli scioperanti si è sparato come sotto Mukarak (140 morti in poco meno di un anno).

La protesta è stata intercettata dai partiti borghesi, dai liberali ai socialdemocratici, che hanno cercato di incanalarla nel binario della sola richiesta di rimozione di Morsi, avvalorando la tesi che fosse lui il solo colpevole della situazione economica e delle privazioni. E hanno poi appoggiato l’intervento militare, cui hanno dato una “copertura” politica, pur essendone di fatto i reggicoda.
Lo scambio è stato: appoggio al governo di Al Mansour in cambio di quelle prebende e di quelle promozioni che non erano riusciti a conquistare nelle ultime elezioni. Anche le autorità religiose hanno partecipato alla parata di Al Mansour: dallo Sheikh Ahmed el-Tayeb, imam della Moschea ad Ahzar, al Pope Tawadros II della Chiesa Copta.

Il regime militare ha dato subito un assaggio dei suoi metodi, sparando su un gruppo di Fratelli Mussulmani in preghiera e uccidendo almeno 50 persone. In questo modo il fossato fra le opposte posizioni si è aggravato, dando ancor maggiore peso alla tesi che occorre l’intervento militare
“pacificatore”. Al Baradei ( l’uomo della Carnegie Foundation e di Gorge Soros ) e gli altri campioni di “democrazia diretta” non hanno fatto una piega. Gli ammazzamenti proseguono anche mentre scriviamo.

Non abbiamo motivo di piangere sulla dissacrazione del feticcio elettorale, del fatto cioè che sotto la spinta della piazza il governo sia stato rovesciato perchè questo significa che il proletariato egiziano si è cominciato a muovere come classe indipendente, ma la borghesia egiziana e internazionale hanno tutte le intenzioni di riportarlo all’ordine, con ogni mezzo.

Possiamo escludere infatti che un sostanziale cambiamento di rotta nella politica del governo possa soddisfare le legittime richieste della piazza, sia quelle economiche che quelle politiche.
Il nuovo premier Hesham Beblawi si è già detto costretto a procedere con l’abolizione delle sovvenzione per pane e carburante perché è l’unico modo per ottenere i prestiti necessari dal FMI; Beblawi del resto è un liberista e un tecnico esperto di finanzia (ex ministro delle Finanze) scelto per rassicurare le banche internazionali, i creditori del Golfo Persico (ha lavorato per l’Industrial Bank del Kuwait e per l’Arab Monetary Fund di Abu Dhabi) e il FMI… che il deficit di bilancio verrà ridotto a qualsiasi costo. Nel periodo di interim avrà piena autorità legislativa (il Parlamento è sciolto) , potrà proclamare lo stato d’assedio, avrà mano libera sul budget dello stato.

Al-Sisi e al Mansour, come Mubarak e Morsi prima di lui, sono favorevoli a un intervento duro contro ogni forma di lotta operaia per migliorare le condizioni di lavoro. Vogliono mantenere nell’illegalità le due federazioni sindacali indipendenti createsi dopo il 2011. Cercheranno di scaricare sui lavoratori, sui giovani e sugli strati più poveri i costi della loro corruzione e arricchimento. Morsi e al Sisi sono due facce della stessa medaglia, quella della borghesia egiziana.

Per quarant’anni l’Egitto ha in parte goduto i frutti di una rendita geopolitica (l’interesse degli Usa a foraggiarlo in cambio della fine dello scontro con Israele). Ben poco di questa rendita è arrivata alla popolazione, La sua classe dirigente si è dimostrata corrotta, parassitaria e conservatrice, non si è nemmeno preoccupata di formare una forza lavoro moderna (il 45% degli egiziani è tuttora analfabeta), di garantire la salute o il minimo vitale, di modernizzare l’apparato produttivo. La riforma agraria ha significato l’espulsione dalle campagne di molti piccoli contadini, che hanno alimentato le schiere dei sottoccupati.
La borghesia egiziana ha così perso in parte la battaglia della concorrenza internazionale, si è indebitato, e di conseguenza almeno dal 1991 gli standard di vita egiziani sono in netto peggioramento (dati BM). E soprattutto il divario sociale è notevolmente aumentato, i ricchi sono più ricchi, la povertà estrema è stata ridotta, ma i poveri sono più poveri.

Ma quello che interessa agli investitori stranieri è che l’Egitto metta ordine nel suo bilancio e ripaghi i debiti. Il governo Usa è stato, a detta della stessa stampa statunitense, informato preventivamente del colpo di stato, pur non avendo la necessità di fomentarlo, data la totale apertura dei Fratelli Mussulmani nei loro confronti. Molti dimostranti di piazza Tahrir consideravano Morsi una emanazione degli Usa ( Michel Chossudovsky su “Islam Times” del 7 luglio).
Di fatto gli Usa erano in contatto sia con l’esercito e col governo Morsi, pronti alla fine ad appoggiare il vincitore, con una probabile preferenza per l’esercito che dà più affidamento nel controllo della protesta sociale.
Certamente il cambio della guardia ha danneggiato il Qatar che era il paese del Golfo più sbilanciato verso i Fratelli Mussulmani (come sembra confermare l’abdicazione del sovrano a favore del figlio, ma soprattutto l’allontanamento del potente primo ministro Hamad Bin Jassim al Thani). L’Arabia Saudita ha dato il suo evidente appoggio alla giunta tramite la sua longa mano locale , il partito salafita Al Nour, che peraltro è in difficoltà ad appoggiare un governo che spara alla schiena su fedeli che pregano.
Assad, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi sono coi generali e pompano “aiuti” per un totale di 18 miliardi di dollari. Usa e Russia, la seconda più timidamente, “riconoscono” i golpisti, in quanto Stato-chiave negli equilibri Medio-Orientali, alla faccia dei proletari morti ammazzati, torturati, imprigionati. Obama continuerà come nulla fosse la fornitura già programmata degli F16. Putin “apre” ai generali perchè potrebbero farsi interpreti presso Israele della sostituzione delle truppe austriache dalle alture del Golan con quelle russe…

La certezza quindi è che nulla ha da offrire il “nuovo corso” ai dimostranti di piazza Tahrir. E’ un ricambio gattopardesco, bagnato coi morti nelle piazze, tra “tecnocrati” e uomini del “vecchio regime: alle Finanze va Ahmed Galal, “stimato” economista con un passato nella Banca Mondiale. Nabil Fahmy, già ambasciatore in Usa con Mubarak, va agli Esteri. Lo stesso generale al Sisi rimane alla Difesa…

La scommessa è se la giovane classe operaia egiziana, che oggi protesta nelle piazze, conserverà l’iniziativa, senza lasciarsi piegare. In cinque anni di dure lotte sono nati dal basso “Comitati” di ogni tipo. Il problema è la loro coesione politica, la loro reale influenza di massa, la loro capacità di assumere la testa politica del movimento. Nessun “moto spontaneo” potrà mai eludere questo nodo epocale.
Sono cose che certamente non s’improvvisano, anche considerando che intere generazioni di militanti sono state nel passato (anche relativamente recente) spazzate via dalla repressione statale. Tuttavia ci sono nella storia mesi che valgono anni e certamente il proletariato egiziano nel fuoco della lotta sta facendo un’esperienza storica eccezionale e non sarà facile ricacciarlo nell’ombra.
Il problema di fondo resta anche per l’Egitto la formazione di un partito comunista rivoluzionario che sappia acquisire una influenza reale all’interno dei comitati che sono espressione del movimento, ponendosi l’obiettivo di prenderne la direzione.

Anche a noi compete di creare attorno a loro una solidarietà internazionale fattiva, che stenta a partire.
Spesso è soprattutto la borghesia internazionale -cointeressata al loro sfruttamento- che segue con attenzione quello che avviene.
A noi l’obbligo di denunciare come fra i co-sfruttatori del proletariato egiziano ci sia anche la borghesia italiana (l’Italia e fra i primissimi partner commerciali e investitori in Egitto, prima e dopo Mubarak). Denunciare anche che le armi con cui l’esercito spara su civili disarmati sono spesso di fabbricazione italiana. Che Finmeccanica, Enio, Beretta, Ansaldo ecc. sono sempre in amichevole colloquio con l’oppressore di turno (anche Morsi è stato accolto con tutti gli onori pochi mesi fa).

Centinaia di di proletari egiziani, costretti a emigrare, costruiscono le nostre case, spostano i beni che noi consumiamo nei retrobottega dei supermercati o nei centri della logistica. Quei centri che spesso, in questi anni, rappresentano per il proletariato italiano un punto di riferimento -rimasto per ora isolato- di come si dovrebbe lottare contro padroni e Stato.
Sta a noi creare, nei limiti della nostra attuale insufficienza, la solidarietà di classe col proletariato egiziano in lotta collegandolo –qui e ora– col proletariato italiano.

18/07/2013

Comunisti per l’Organizzazione di Classe

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