Afghanistan: la guerra infinita L’Italia aumenta il suo contingente

Quello in Afghanistan si avvia a diventare il più lungo conflitto moderno e non c’è motivo di pensare a una fine a breve termine (nel vertice Nato tenutosi a Varsavia il 7 luglio 2016 è stato deciso il prolungamento della missione almeno fino al 2020, con un contributo annuo all’esercito di Kabul di 4 milioni di $).

Il 1° gennaio 2015 la missione ISAF è stata sostituita dalla Resolute Support Mission, un cambiamento che doveva segnare il progressivo disimpegno delle truppe Nato, ridotte da 35 mila a 13.100. Vi contribuiscono 42 paesi. (i contingenti più consistenti sono quelli di Usa, Turchia, Georgia, Italia e Germania). L’Italia negli ultimi 20 mesi è passata da 760 a 950 soldati, anche per compensare il ridimensionamento del contingente spagnolo.

L’andamento del conflitto

L’idea centrale della Resolute Support Mission era di affidare il controllo del territorio alla polizia e ai soldati afghani, che ben presto si sono mostrati inadeguati a tener e a bada i guerriglieri talebani, benchè questi siano valutati in 30 mila contro i 195 mila effettivi dell’esercito di Kabul. Alla fine del 2015 l’esercito afghano si è ritirato da alcune province nel Sud del paese, pur perdendo circa 400 uomini. Più di 1,2 milioni di civili sono costretti ad abbandonare le proprie case e circa 100 mila afghani chiedono asilo politico all’estero, la cifra più alta di tutta la durata del conflitto. Gli Usa che avevano fissato il loro contributo a 5500 uomini hanno dovuto aumentarlo a 9.800. Il 2016 ha visto l’offensiva di primavera dei talebani, impegnati a erodere il territorio sotto controllo governativo e a respingere l’espansione dello Stato Islamico. Lo Stato Islamico è ancora debole in territorio afghano ma intende inserirsi nel traffico di oppio per compensare le perdite subite nel commercio del petrolio in Iraq, mentre i talebani sono ben decisi a conservare la propria quota. Il conflitto afghano da anni è anche una guerra per bande per la spartizione del commercio di oppio in cui hanno parte anche gli alti papaveri del governo di Kabul e che trova benevola copertura da parte dei contingenti militari occidentali (cfr. Il lato oscuro della guerra in AfghanistanGli occhi della guerra 19 aprile 2016). Le forze regolari afghane devono fare i conti con l’aumento dei casi di infiltrati talebani tra le fila dell’esercito e delle forze di polizia che attaccano i commilitoni (“green on green” nel gergo militare statunitense). In maggio un drone Usa uccide il leader talebano Al Akhtar Mansour, senza incidere sull’offensiva talebana. A tutt’oggi 21 delle 34 province afghane sono interessate da conflitti armati e almeno 10 bombardate a intermittenza dall’aviazione Usa.

Secondo l’agenzia Bloomberg i talebani sono finanziati con larghezza da alcuni paesi del Golfo, in particolare Emirati Uniti e Bahrein, e godono della complicità delle autorità pakistane di confine. I 2640 km di confine fra i due paesi è largamente permeabile a profughi e guerriglieri. In Pakistan dove si sono rifugiati 2,5 milioni di afghani, stanno aumentando fenomeni di acuta xenofobia.

L’intervento italiano

Abbiamo già esaminato in articoli precedenti gli interessi italiani che sostengono l’intervento in Afghanistan: dal controllo dell’oppio utilizzato dalle case farmaceutiche, al commercio dello zafferano, dalle risorse minerarie alle commesse che riguardano le grandi opere infrastrutturali (cfr. L’Italia e la guerra che profuma di zafferano e oppio – ottobre 2015)

AnalisiDifesa del 24 giugno sottolinea che i reparti impiegati in Afghanistan e Iraq stanno testando tutta una serie di prototipi militari, compresi i droni, che saranno certamente utilizzati in un futuro intervento in Libia; il loro utilizzo serve da lancio propagandistico nei confronti dei paesi del Golfo. I militari poi stanno facendo un’esperienza tattica e in ambiente ostile che ne affina le capacità di intervento.

Il decreto missioni militari all’estero del 2016 prevede un esborso di 1,2 miliardi di € (vedi riquadro illustrativo). Almeno un quarto della spesa riguarda l’Afghanistan, che non è quindi un intervento periferico di contorno, ma si conferma un nodo strategico dell’intervento militare italiano. Di poco inferiore è la spesa per l’intervento in Iraq, centrato sull’alleanza con i curdi della zona di Erbil, sul loro addestramento militare e sulla difesa e riattamento della diga di Mosul. Le tre spedizioni principali (Afghanistan, Iraq, Libano) assorbono circa il 59% di tutte le risorse.

Il contesto geopolitico

La grande partita che si sta giocando in Afghanistan (e in cui l’Italia vuole avere parte) riguarda la sua posizione strategica al centro di un conflitto, per ora economico, ma con grossi risvolti militari, che vede contrapposto l’asse India-Iran e l’asse Cina-Pakistan.

Il 23 maggio scorso a Teheran è stato firmato un accordo fra governo afghano e governo iraniano, promosso dal presidente indiano Modi. Al centro dell’intesa c’è il grande porto commerciale di Chabahar, situato 1800 chilometri a sud di Teheran, a ridosso del confine con il Pakistan, un hub marittimo affacciato sullo stretto di Hormuz, all’incrocio tra il Golfo Persico e il Golfo di Oman dove transita la maggior parte del petrolio mondiale. Una volta ultimato, il nuovo moderno porto assorbirà un fiume di merci dirette in Iran e da lì in Afghanistan e Russia, attraverso una rete stradale e ferroviaria. Questa rete è costituita dal North-South Transport Corridor (NSTC – che collegherà Mumbai, Mosca, Teheran, Baku, Bandar Abbas, Astrakhan), un progetto partito nel 2000 e controfirmato da India, Iran e Russia[1], e dall’autostrada Zaranj-Delaram che attraversa l’Afghanistna e lo collega al confine iraniano. (da Indika, 1 giugno 2016). L’India prevede ulteriori 16 miliardi di $ di investimenti per costruire una zona industriale presso Chabahar. L’accordo India Iran, che implica anche una ripresa dell’export di gas e petrolio verso l’India, è inteso in funzione di contenimento della Cina e del suo partner privilegiato il Pakistan, l’amico dei Talebani. Per l’Afghanistan Chabahar diventa una utile alternativa, come sbocco sul mare, a Karachi in Pakistan

Chabahar è la risposta alla costruzione prossima alla conclusione del porto di Gwadar, situato a soli 72 chilometri ad est di Chabahar nel Baluchistan pachistano, e collegato all’Altopiano tibetano attraverso un Corridoio Economico che ripercorrere la Karakorum Highway. Pechino ha stanziato 46 miliardi di dollari per garantirsi il controllo operativo per 40 anni sullo scalo, che sarà operativo entro fine 2016 (per dicembre 2017 è previsto il transito di un milione di tonnellate di merci). Gwadar è per la Cina una via di accesso più rapida, diretta ed economica ai giacimenti petroliferi mediorientali e alle risorse africane, permette lo sviluppo industriale delle regioni occidentali della Cina, offre un’alternativa al collo di bottiglia rappresentato dallo Stretto di Malacca. Nell’evenienza di un confronto militare offrirebbe un punto di appoggio cruciale per la flotta cinese.[2]

Come si inserisce l’Italia in tutto questo?

L’Anas ha firmato un accordo da 4 miliardi di $ per la costruzione in territorio iraniano del : Corridoio di Trasporto Nord-Sud (North South Transport Corridor NSTC). Però si può tralasciare, oppure spiegarla) che unirà Bandar Abbas a Tabriz e poi alla città turca di Bazargan.

E’ solo uno dei tanti contratti per costruzione strade, riassetti di aeroporti e istallazione gasdotti e oleodotti che ditte italiane hanno realizzato negli ultimi15 anni. Al di là del valore delle commesse specifiche c’è l’attiva presenza in un processo di sviluppo di un’area, l’Asia centrale, dove tutti gli imperialismi cercano di posizionarsi in vista del futuro. La presenza militare consente di accedere agli affari, gli affari giustificano gli stanziamenti da parte dello stato italiano nel suo ruolo di comitato d’affari della nostra borghesia. Quanto questo costi in termini di disgregazione sociale e di vittime civili viene coperto dalla retorica ufficiale (vedi le dichiarazioni di Gentiloni in occasione della sua visita ufficiale in aprile 2016).

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scheda

Missione italiana 2016 per finalità stanziamento cessione vestiario Libano 530.000
missione Althea UE in Bosnia-Erzegovina, 276.355
coaliz.internaz. anti-Daesh Mosul 253.875.400 missione Unficyp a Cipro 266.387
Resolute support mission Afghanistan 179.030.323 polizia in Palestina 194.180
missione Unifil in Libano 155.639.142 cessione veicoli Tunisia 177.481
Forze di sicurezza afghane 120.000.000 assistenza valico Rafah 120.194
operazione Mare sicuro 90.243.262 armamento peshmerga curdi 117.000
Cooper.internaz. 90.000.000 Kossovo magistrati 114.027
missioni nei Balcani, 78.490.544 missione Eupol copps Palestina 110.843
missioni Eunavfor Med 70.305.952 missione Uganda 74.027
missione Atalanta Somalia 27.918.693 Kosovo polizia 63.720
missione Corno d’Africa 25.582.771 apparec.mediche Somalia 55.000
salvag.istituzioni all’estero 22.000.000 1.216.374.957
missione Active nel Mediterraneo 19.169.029
person.militare negli Emirati 19.051.815 missioni italiana 2016 per paese stanziamento
partecip. it. a organismi internaz. 11.700.000
Active Fence della Nato 7.281.146 Afghanistan 300.643.918
sostegno ai processi di pace 6.000.000 Iraq 254.843.400
Cooperazione polizia e carab. in Albania 5.848.471 Mediterraneo 179.718.243
tutela italiani all’estero 5.500.000 Libano 156.169.142
Aise (Agenzia informaz. e sicur. esterna) 5.000.000 Cooper.internaz. 90.000.000
Eucap Sahel Niger e Eutm Mali, 3.259.040 Balcani 86.159.967
iniziative in Nord Africa, M.O., Afghanistan 3.000.000 Corno d’Africa 54.312.759
iniziat. Africa subsahariana, America lat., Caraibi 3.000.000 istituz. all’estero 38.700.000

[1] http://www.ayu.edu.tr/static/aae_haftalik/aae_bulten_en_34.pdf

[2] Nel 2015 l’India è divenuta la sesta nazione al mondo per investimenti in armi e primo importatore, spendendo 51,3 miliardi di dollari, equivalenti al 2,3% del PIL superando nel ranking mondiale la Francia (50,9 mld. $) e il Giappone (40,9 mld. $). La Cina, con i suoi 215 miliardi di dollari investiti nella produzione bellica si assesta in seconda posizione, alle spalle degli Stati Uniti (596 mld. $).