ARANCE E DATTERI “SAPORE DI SOLE, SAPORE DI TERRA” E DI ANTICHE E NUOVE SCHIAVITÙ SALARIATE (2)

Dalle migliaia di migranti dipende in gran parte la ricchezza dell’agricoltura israeliana, un’agricoltura altamente sviluppata, che fa di Israele un grande esportatore e leader mondiale nelle tecnologie agricolturali.[1] Ma scienza e tecnologia servono anche in agricoltura a produrre profitti per i proprietari terrieri, per garantire loro la competitività sul mercato internazionale, non per soddisfare i bisogni vitali dei lavoratori da essi sfruttati.

Sono circa 25 000 i braccianti immigrati in Israele per la maggior parte dalle province nord-occidentali della Tailandia, in numero ridotto anche da Nepal e Sri Lanka. Come denunciato dall’associazione israeliana per i diritti umani KavLaoved, oltre a questi migranti, sono presenti in Israele 4000-5000 giovani, provenienti da vari paesi e fatti entrare come studenti per partecipare a programmi di studi agricoli internazionali, ma di fatto impiegati in agricoltura. In Israele, l’immigrazione su larga scala da paesi non mediorientali è iniziata nei primi anni Novanta. Si era creata una carenza di mano d’opera perché nel 1993, a seguito della prima Intifada (1987), il governo israeliano restrinse i permessi di lavoro per i palestinesi provenienti dalla striscia di Gaza, che lavoravano nei settori ad alta intensità di mano d’opera e bassi salari, a cominciare da quello agricolo.[2]

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Come riferito da un rapporto di Human Right Watch (HRW) e di Kav LaOved, i braccianti agricoli sono oggetto di gravi abusi, anche nel moderno Stato di Israele. Nonostante la legge li garantisca formalmente, i loro diritti non vengono fatti applicare dalle autorità statali israeliane. Le quali, negli ultimi cinque anni, hanno emesso solo 15 sanzioni pecuniarie contro agricoltori e loro agenti, 145 avvertimenti e hanno sospeso un solo operatore di un’agenzia interinale di reclutamento per violazioni dei diritti dei lavoratori.

Dall’indagine condotta su 173 braccianti di dieci comunità agricole del Nord, Centro e Sud Israele – chiamate moshavim[3] – risulta che essi sono costretti a orari di lavoro eccessivi, condizioni pericolose, alloggi di fortuna inadeguati, in magazzini e capannoni, all’interno dei quali alcuni costruiscono a volte ripari di cartone. Durante il lavoro il sorvegliante li controlla da lontano con un binocolo. Se poi cercano di protestare scioperando, devono affrontare pesanti ritorsioni padronali.

 

Diversi braccianti hanno riferito di soffrire di mal di testa, di problemi respiratori e altri disturbi vari, come bruciore agli occhi dovuto ai pesticidi spruzzati senza protezione inadeguata. Alcuni di loro ricevono farmaci dai parenti in Tailandia perché non possono usufruire delle cure mediche in Israele. Con deduzioni dirette sul salario, il padrone fa pagare salato alloggio, servizi e utenze, spesso a prezzi superiori a quanto consentito dalla legge. I negozianti dei moshavim, sovente in località isolate, gonfiano il prezzo di alcune merci, approfittando del fatto che i lavoratori sono costretti a fare lì i loro acquisti per mancanza di tempo, mezzi di trasporto, ma anche di informazioni su possibili alternative. A questi furti si aggiungono le sottrazioni operate dallo Stato, imposte sul reddito e contributi per la previdenza sanitaria.

Un forte giovane tailandese di 37 anni. Diciassette ore di lavoro, sotto il sole in una fattoria israeliana. Sette giorni la settimana. La sera si corica esausto in un capannone agricolo, accanto ai suoi compagni di lavoro. La mattina non si sveglia. Fatica e condizioni di lavoro lo hanno ucciso.

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Una situazione di morte per fatica sul lavoro, come descritta, metà Ottocento, da Marx nel I libro del Capitale, e come oggi non si penserebbe più possa accadere in un paese “civile”. Secondo i dati governativi dal 2008 al 2013 sono morti in Israele 122 giovani lavoratori tailandesi; 43 di questi decessi sono stati attribuiti dalle autorità a una non meglio definita “sindrome mortale notturna improvvisa”, un problema cardiaco di cui soffrirebbero giovani uomini del Sud-Est asiatico. Per altri 22 decessi non è neppure stata condotta un’indagine per stabilirne la causa. È però fin troppo facile dedurre che le cause di queste morti stanno nelle condizioni stesse in cui avviene lo sfruttamento capitalistico dei migranti. Le lunghissime giornate di lavoro, dalle 4,30-5 del mattino alle 7 di sera, e fino alle 10 -11 nei mesi estivi, senza alcun giorno di riposo settimanale; 4-5 giorni di ferie all’anno; condizioni di lavoro e abitative miserrime; un magro salario,[4] molto inferiore al minimo stabilito per legge, su cui cercano di risparmiare al massimo per mandare soldi alla famiglia. Solo pochi braccianti ricevono una busta paga, e anche in quel caso le ore su essa riportate e retribuite sono spesso molto inferiori a quelle effettivamente lavorate. Durante la stagione della raccolta, ad esempio delle arance, i braccianti vengono spesso retribuiti a cottimo, ricevono 22 NIS ($5,59) per ogni cassa (di circa 1m3); per riempirla occorrono da 1 a 3 ore.

Nel 2011 Israele ha firmato un accordo bilaterale con la Tailandia, il TIC (Cooperazione Tailandia-Israele sulla collocazione dei lavoratori) che ha ridotto fortemente il costo[5] pagato dai lavoratori immigrati per i permessi di lavoro.[6] Ne è risultato un minor rischio di “lavoro forzato”, la costrizione a rimanere presso lo stesso padrone fino a pagamento dei debiti contratti per i permessi. Tuttavia, dalle testimonianze dei braccianti intervistati, risulta che cambiare posto di lavoro rimane difficile e costoso, perché i “caporali” che li reclutano in cambio del loro aiuto a trasferirsi chiedono spesso fino ad un mese di salario.

HRW riferisce di uno sciopero di protesta, contro eccessive ore di lavoro e basso salario, dei braccianti di un moshav nella valle di Hefer, nel Centro del paese. Sui cartelli preparati con gli scatoloni per la raccolta dei cetrioli avevano scritto: “Non trattateci come schiavi”, “qui c’è un padrone crudele”, “dateci il salario minimo”. Sono riusciti a ottenere la riduzione dell’orario di lavoro, il sabato libero, e un aumento di salario, rimasto però inferiore al minimo previsto dalla legge entrata in vigore nel 1987.[7] Ma, due attivisti operai sono stati puniti con il licenziamento. «Conoscevamo i rischi che correvamo. Abbiamo pagato il prezzo per la nostra lotta. Ma siamo contenti perché essa va a vantaggio dei nostri compagni», hanno commentato i due attivisti.

Schiavi salariati dunque, che però stanno sviluppando la consapevolezza che per difendersi occorre combattere, non servono a nulla i diritti scritti sulla carta dai legulei al servizio della classe che li sfrutta.

Se i braccianti immigrati in Israele sono supersfruttati dai loro padroni dalle braghe bianche, anche la società israeliana è divisa in classi, con i loro rispettivi contrapposti interessi.

Come emerge da alcuni dati ufficiali dell’aprile 2014: circa 330 000 famiglie, pari al 18,3% della popolazione israeliana, non ha una sicurezza alimentare; quota che sale al 50% per gli arabi israeliani. Da un rapporto di Adva Center, il 22% dei salariati israeliani è a basso salario, un tasso tra i più alti nei paesi OCSE.

Due recenti esempi a riprova che, in presenza di tali contraddizioni sociali, la lotta di classe è inevitabile anche in paesi “avanzati” come Israele.

Ottocentocinquanta salariati della fabbrica Bromine Compounds, a Naot Hovav, di proprietà di Israel Chemicals (ICL) sono scesi in sciopero il 2 febbraio dopo le comunicazioni del licenziamento previsto per 140 addetti e il pensionamento anticipato di altri 70, nel quadro di una ristrutturazione aziendale, con centinaia di tagli occupazionali in Israele, mentre aumentano le attività estere.

ICL ha parlato di inefficienza e non competitività sul mercato internazionale, e ha fatto appello al senso di responsabilità dei lavoratori.

Un senso di responsabilità che hanno infatti dimostrato, ma verso la propria classe.

Il 28 gennaio hanno scioperato i dipendenti del ministero del Welfare e dei servizi sociali, contro le decisioni unilaterali presi dal ministero senza consultazione dei rappresentanti sindacali, e riguardanti qualifiche, compiti, aumento dei carichi di lavoro, senza corrispondente aumento salariale.



[1] Come i kibbutzim anche i moshavim sono definiti e registrati come “cooperative agricole”!!

[2] Il salario più alto dei 173 braccianti intervistati era di 17,5 NIS ($4.45) all’ora, quello più basso di 15 NIS ($3,81); il salario medio era di 16,45 NIS ($4,18).

[3] Il costo di un permesso prima dell’accordo TIC era attorno ai $9100 a valore corrente, denaro in genere preso a prestito dal migrante con tassi di interesse del 3-5% al mese. I visti di lavoro sono legati ad un settore economico specifico. Al suo arrivo all’aeroporto di Tel Aviv, ora il migrante deve pagare l’equivalente di $450 al CIMI, che è una divisione della American Jewish Joint Distribution Committee (Commissione congiunta di distribuzione israelo-americana), una organizzazione umanitaria caritatevole registrata negli Usa ed operante in Israele. Deve pagarne circa altri $400 all’agenzia interinale reclutante registrata, che è per legge responsabile di qualsiasi controversia tra lavoratore e datore di lavoro. L’agenzia riceve un importo mensile per ogni lavoratore “affittato”, pari a circa $13 al mese, e ne gestisce fino a 1000. Oggi sarebbero attive in Israele 13 agenzie.

I permessi devono essere rinnovati annualmente fino ad un periodo massimo di permanenza di 63 mesi.

[4] È stato siglato un accordo simile tra Israele e Bulgaria, che fornisce lavoratori per il settore delle costruzioni.

[5] Al 1° aprile 2013 il salario minimo era stabilito in 4300 NIS ($1093) al mese (186 ore) o 23,12 NIS ($5,88) all’ora.





[1] Dal 1990 al 2012 le esportazioni di verdura sono aumentate di dodici volte, quelle di prodotti scelti del 50%.

[2] I salariati palestinesi in Israele sono passati dal 97% del totale della manodopera immigrata nel 1909 al 23% nel 2011. Elaborazione di Ist. IZA di Bonn e Ist. Cepr di Londra, in collaborazione con la Bar Ilan University di Israele.