Bagno di sangue “democratico”

Dopo una fase di “repressione controllata” in cui le uccisioni si alternavano ai tentativi di dialogo, il braccio di ferro fra i Fratelli Musulmani e i militari è sfociato in un massacro. Mentre scriviamo il bilancio si aggrava di ora in ora: alla giornata di giovedì 15 agosto i morti ufficialmente riconosciuti sarebbero oltre 600 e venerdì altri 173, mentre la Fratellanza parla di 4500 morti in tutto l’Egitto.

Il golpe laico che avrebbe dovuto salvare il paese arabo da una nuova autocrazia islamica si è tradotto in una prevedibile sanguinosa repressione che oggi colpisce i sostenitori del deposto presidente Morsi ma che sin dalla nascita dell’Egitto repubblicano è sempre stata usata per opprimere la classe lavoratrice. I lavoratori sono stati in prima fila nelle lotte per scacciare Moubarak, ma vengono oggi schiacciati dalla falsa alternativa laici/islamisti che maschera il carattere di classe dello Stato egiziano.

Dalla repressione nel 1977 della “rivolta dei ladri”, come la definì il presidente Sadat, a quella degli scioperi negli anni ’90, dagli spari sugli operai a Mahalla agli assassini di stato nella primavera araba, dalle repressioni dello SCAF a quelle del governo Morsi, lo stato borghese egiziano non ha mai smesso di confermare il suo carattere antioperaio, sia attraverso la forza dell’esercito, sia attraverso i corpi di sicurezza “civili”.

In questo momento il pugno di ferro si abbatte sui Fratelli Musulmani, ma è pronto a scattare di nuovo anche contro coloro che combattono lo sfruttamento.

Il paese è in una crisi gravissima: nonostante i consistenti finanziamenti di Arabia Saudita ed Emirati Arabi – 13 miliardi di $) gli interessi sul debito assorbono il 25% del bilancio statale, la crisi politica fa fuggire i turisti, la burocrazia statale – elefantiaca e clientelare, fonte di consenso sociale – drena risorse preziose, la produzione delle aziende si fonda su bassi salari, pochi capitali, bassa produttività ed evasione fiscale, larghissimi strati della popolazione sono nell’indigenza…

Gli stessi problemi economici che hanno causato la mobilitazione contro Moubarak, lo SCAF e Morsi possono causare la rivolta contro il governo Al-Sisi o quello che lo seguirà.

E’ una situazione critica che favorisce le lotte sociali. Lotte che per i lavoratori e le loro avanguardie sono un’ottima palestra, mentre per la borghesia egiziana rendono il potere militare e il suo bastone sempre più preziosi.

Una borghesia da tempo divisa: da un lato i gruppi economici statali – di proprietà dell’esercito – contrari alle riforme liberiste volute da Moubarak prima e dai Fratelli Musulmani poi, dall’altro i gruppi privati che da tempo chiedono una maggiore apertura agli investimenti stranieri e alla concorrenza interna. Questo spiega perché l’esercito ha dato il colpo di grazia prima a Moubarak – un capo di stato laico, uscito dai ranghi delle forze armate – poi al governo Morsi: per difendere il proprio ruolo di holding in grigioverde e i conseguenti privilegi dei suoi ufficiali che, alla soglia della pensione, possono contare su un posto sicuro nelle aziende statali. Ma la prospettiva di “pacificare” il paese schiacciando le proteste e le tasse imposte da Morsi ai settori privati ha spinto molti magnati dell’economia privata a schierarsi col golpe militare.

L’atteggiamento dei governi stranieri
I governi occidentali e l’ONU esprimono preoccupazione e rammarico per i morti ed esortano al dialogo e discutono sulle misure da adottare. Fino ad oggi si sono ben guardate dal delegittimare il governo golpista: la loro preoccupazione era quella di bruciare sul nascere i rapporti con un governo che poteva cadere da un momento all’altro ma anche consolidarsi e rivolgersi a nuovi partner politici e militari. Il loro atteggiamento di disponibilità ha aperto la strada alla repressione.
Solo ora rilasciano dichiarazioni dure; il governo statunitense blocca le esercitazioni militari congiunte USA-Egitto, ma ancora nessun blocco della prevista fornitura di cacciabombardieri F16. Lunedì 28 è prevista una riunione dell’Unione Europea per concordare una posizione comune.

Più variegate le posizioni nei paesi musulmani: mentre Arabia Saudita ed emirati Arabi sono da sempre sostenitori dei golpisti, Qatar e Turchia condannano duramente il massacro.

L’Italia: affari per lo sfruttamento, armi per la repressione
Da tempo l’Italia è in prima fila negli investimenti in Egitto.

Va ricordata ad esempio la visita d’affari del 9 aprile 2008 dell’allora presidente del Consiglio Prodi accompagnato da una delegazione di imprenditori guidata Luca Cordero di Montezemolo (allora presidente non solo della Ferrari ma anche di Confindustria) e Corrado Passera (allora consigliere delegato di Intesa Sanpaolo), visita che ha fruttato diversi accordi economici, ma che soprattutto si è svolta esattamente il giorno dopo che la polizia ha disperso a fucilate una manifestazione di scioperanti a Mahalla (2 morti, almeno cento feriti, numerosi arresti).

Sit-in of Morsi supporters cleared in Cairo

A questo si aggiungono le consistenti forniture militari: a fine luglio l’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere (onlus con sede a Brescia) e la Rete Italiana per il Disarmo hanno chiesto al ministro degli esteri Emma Bonino di sospendere le forniture belliche verso il Cairo, un business che nel 2012 ha raggiunto 28 milioni di euro. L’Osservatorio denuncia un flusso continuo di armi esportate con regolare licenza sia dal governo Berlusconi che da quello Monti: fucili Beretta, munizioni per carri armati Simmel, cannoni Oto Melara, componenti per missili Sparrow/Aspide, blindati Iveco… Contro i dimostranti di piazza Tahrir nel 2011 sono stati sparati proiettili Fiocchi.

Fiocchi

Il ruolo dei lavoratori
Davanti al massacro, alcuni sostenitori del golpe ora si sfilano: si sono dimessi il vicepresidente El-Baradei e Khaled Daud, portavoce del Fronte di Salvezza Nazionale, principale sostenitore del governo Al-Sissi. Dove sono stati fino ad ora, quando i morti giornalieri preannunciavano la strage? Il loro atteggiamento è un esempio dell’affidabilità della leadership “liberale”.

Invece la classe operaia egiziana negli ultimi tre anni ha espresso un forte potenziale di lotta, con migliaia di scioperi che hanno permesso un parziale recupero salariale. Ma finora queste lotte economiche non si sono tradotte in lotta politica indipendente. Il regime dei militari ha avuto l’appoggio sia dei sindacati ufficiali che di quelli “alternativi” nel loro golpe. La lotta economica dei lavoratori è stata utilizzata per gli interessi di una frazione della borghesia, ma vi sono tuttavia nel movimento operaio egiziano voci significative che si oppongono a questo utilizzo borghese (su questo sito abbiamo pubblicato l’appello della sindacalista Fatma Ramadan contro il governo golpista).

All’interno delle proteste di piazza Tahrir, di Suez e altre città vi sono correnti che lottano contro entrambi i maggiori schieramenti borghesi, per una politica indipendente di classe. È a loro che deve andare la nostra solidarietà attiva di comunisti, innanzitutto denunciando la complicità del nostro imperialismo nella strage, complicità che non viene cancellata dalle tardive lacrime di coccodrillo dei governanti.

 

COMBAT – Comunisti per l’Organizzazione di Classe

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