Biden, l’opzione vincente del grande capitale

Centinaia di milioni di persone in USA e nel mondo non vedranno più ogni giorno in TV quella chioma rossa costata 800 mila dollari sopra quel volto da mastino sparare veleni contro gli immigrati, contro le donne, contro la natura, contro tutto ciò che non è American. Questo populismo rozzo e becero di un pescecane cresciuto con le speculazioni immobiliari che si atteggia a patrono della working class, alimentandone nazionalismo e corporativismo, perde il suo più potente megafono su scala mondiale, con cui entravano in risonanza i populismi d’Europa e del mondo. Ciò non può non darci senso di sollievo.

Ma non vi è nulla di cui gioire per la vittoria di Joe Biden. Biden non è l’anti-Trump. Biden è l’espressione della stessa classe capitalistica che ha sostenuto Trump, si pone gli stessi obiettivi di preservazione del dominio dell’imperialismo americano nel mondo, ma con metodi più tradizionali e meno dirompenti rispetto al sistema multilaterale di relazioni internazionali costruito nel dopoguerra, e anche rispetto agli equilibri interni. Punta a bloccare l’ascesa del rivale cinese con l’aiuto degli alleati europei, giapponese, indiano anziché sparando in assolo contro tutti. Ma storicamente i presidenti democratici sono perfino più inclini dei repubblicani a iniziare guerre.

Certo la vittoria di Biden, giocata sul filo di qualche centinaio di migliaia di voti negli Stati in bilico, non ci sarebbe stata senza il grande movimento Black Lives Matter, che in nome della liberazione dal Trumpismo ha portato a votare per questa incarnazione dell’establishment democratico anche molti che nelle scorse votazioni aveva espresso il suo disprezzo per tutti i candidati negando il proprio voto. Perché Trump a sua volta ha mobilitato voti dell’America profonda, dei bianchi poveri degli stati centrali e del mid-West che erano rimasti alla finestra nelle passate elezioni.

I 21-29 milioni di votanti in più rispetto alle precedenti elezioni (con una partecipazione record vicina al 70% rispetto al 59% dell’ultima elezione e al 50% di 20 anni fa) sono infatti in prevalenza voti degli strati sociali inferiori dell’America profonda che tradizionalmente (e giustamente) non trovavano motivo per dare fiducia ad alcun candidato, tra essi i dropout che non hanno finito le medie inferiori (nel 2008 aveva votato solo uno su 4) o le medie superiori (1 su 3, mentre avevano votato 3 su 4 laureati).

Ma non possiamo nasconderci che questa aumentata affluenza alle urne e l’esito del voto sono anche il risultato del fiume di denaro versato su queste elezioni dai detentori del capitale.

Per la tornata elettorale del 2020 sono stati spesi circa 14 miliardi di dollari, quanto la somma delle due campagne precedenti del 2012 e 2016. E per il voto presidenziale hanno speso circa la metà del totale, mentre tradizionalmente la parte maggiore della spesa andava all’elezione di due terzi dei senatori.

Joe Biden supera il miliardo di dollari di raccolta, mentre Trump si è fermato intorno ai 600 milioni. Di questa raccolta solo il 22% viene da piccoli donatori (che hanno dato fino a 200 dollari). Il 78% viene dalle imprese e dai capitalisti. Ma buona parte della spesa elettorale è stata gestita direttamente da centri esterni agli stessi partiti, che hanno fatto campagna direttamente con l’uso dei diversi media. A fianco dei tradizionali giornali e TV, emergono i social media, in particolare Facebook e Google, sui quali è stato investito 1 miliardo di dollari per far convogliare a centinaia di milioni di persone i vari messaggi elettorali. I “democratici” social media sono in mano al grande capitale né più né meno di giornali e TV, non solo perché i gruppi che li controllano hanno oggi capitalizzazioni di Borsa tra le più alte al mondo, ma perché la circolazione di un messaggio è in proporzione al denaro che viene loro versato. Sui 10,7 miliardi di cui è finora disponibile la contabilità, i Democratici hanno avuto la parte del leone, con una spesa di 6,9 miliardi (nota 1), contro i 3,8 miliardi dei Repubblicani. La maggioranza (in termini di miliardollari) della borghesia americana ha aperto il portafoglio per Biden, contro Trump. E le Borse hanno festeggiato la vittoria di Biden, senza aspettare ricorsi e recount annunciati da Trump e sconsigliati dallo stesso partito repubblicano.

Tradotta in soldoni, la campagna elettorale è stata un torneo a colpi di milioni di dollari di pubblicità elettorale, tra i gruppi capitalistici americani, e tra le frazioni borghesi in cui si aggregano, ciascuna portatrice di interessi particolari e linee di azione specifiche, per influenzare e portare al voto milioni di americani. C’è poi stato anche una non trascurabile mobilitazione di attivisti che hanno portato il messaggio casa per casa, più difficile da quantificare al momento. Biden tuttavia non risponderà alle speranze e promesse di questi attivisti, ma agli interessi dei gruppi che l’hanno finanziato e che continueranno a fare pressioni lobbistiche per far passare i loro uomini nell’Amministrazione e i loro interessi nelle decisioni governative.

Per andare oltre il generico, abbiamo voluto analizzare, tramite i dati forniti dal Center for Responsive Policy (sito: opensecrets.org), quali settori hanno finanziato prevalentemente Biden, e quali Trump.

Come possiamo vedere dalla tabella, hanno sostenuto in prevalenza Trump e i repubblicani i settori agroindustria, costruzioni e immobiliare (quelli in cui Trump si è arricchito), Energia, dal carbone al petrolio e gas, e minerario, per la libertà di estrazione portata avanti da Trump, escluse le energie alternative, che puntano su Biden per la limitazione delle emissioni e per sussidi alla green economy. Hanno sostenuto in prevalenza Trump anche le imprese del settore trasporti, tranne le compagnie aeree e le case automobilistiche, che hanno favorito i democratici ma senza prodigalità, mentre l’insieme dell’automotive ha preferito i repubblicani, che pongono meno vincoli anti-inquinamento.

Hanno invece sostenuto in prevalenza Biden e i democratici: tutto il settore comunicazioni-media-elettronica, con il suo forte impatto sull’opinione pubblica. Senza il massiccio appoggio della maggioranza dei media (arrivati a censurare i tweet e ad oscurare il discorso del Presidente mentre sparava le sue denunce di brogli) non è detto che Biden riuscisse a conquistare gli swing states e la presidenza. Hanno inoltre appoggiato Biden il settore della finanza nel suo complesso (con le assicurazioni equanimi) e quello della sanità (dal farmaceutico agli ospedali) che prevedono di guadagnare dall’aumento della spesa pubblica che incasseranno loro. Spiccano poi, oltre all’87% delle donazioni dei sindacati ai democratici, come da tradizione (anche se coi loro 188 milioni sfigurano rispetto alle donazioni miliardarie del big business) e i 302 milioni che “avvocati e lobbisti” hanno dato per il 79% ai democratici.

Somme importanti (oltre un miliardo) sono state versate ai due partiti dai gruppi di pressione impegnati in campagne monotematiche (nel complesso 72% ai democratici) . La maggior parte hanno fatto scelte scontate: antiabortisti, libertà di comprare armi pro Repubblicani; abortisti, libertà di orientamento sessuale, diritti delle donne, ambientalisti e diritti umani pro Democratici. Possono invece sorprendere i finanziamenti da parte delle lobby per la politica estera e di difesa (95% ai democratici), e pro-Israele (66% ai democratici). I due maggiori gruppi dell’aerospaziale, Lockheed Martin e Northrop Grumman, hanno bilanciato le loro donazioni tra i due partiti, il primo dando un po’ di più ai repubblicani, il secondo ai democratici. L’amministrazione Biden non sarà certo una minaccia per l’industria delle armi.


Nota 1: 5,5 miliardi se si esclude la spesa elettorale sostenuta dai candidati democratici miliardari Michael Bloomberg e Tom Steyer, poi ritiratisi durante le primarie.