Cina: e se si cominciasse a parlare un pò più degli operai?

La notizia é di quelle che potrebbero turbare i sonni dei borghesi di tutto il mondo: in Cina gli operai “potrebbero” cominciare ad uscire dalle gabbie del sindacalismo del partito di governo, che di “comunista” ha solo il nome!
Lo riporta con risalto il “Corriere della Sera” del 5 febbraio, con due titoli che spingono a qualche riflessione: “I sindacati liberi sbarcano in Cina. Svolta nelle fabbriche della Apple.” E poi: “La “fabbrica Cina” si sindacalizza e gli investimenti tornano ad Ovest.”

Ora, a differenza dei gazzettieri borghesi, i comunisti rivoluzionari sanno in primo luogo che non é certamente una novità il protagonismo della classe operaia cinese, la quale già nel ’26-’27 si rese partecipe di un grande moto rivoluzionario stroncato nel sangue dalla propria classe dominante, in combutta con lo stalinismo. Migliaia di proletari vennero massacrati dalle truppe del nazionalista Chiang Kai-shek, affiliato all’Internazionale staliniana dentro la politica di una “rivoluzione democratica” che tale doveva rimanere. Per impedire che il proletariato superasse tale vincolo, vennero distrutte la Comuni di Canton e Shanghai e decapitata l’ala rivoluzionaria del PCC. L’evento impedì il sorgere di qualsiasi “turbativa” comunista nel più grande paese del continente asiatico, permettendo in Russia “l’edificazione del socialismo in un paese solo”. Lo ricordiamo ai “nostalgici” stalinisti, che si apprestano a “celebrare” il 60° anniversario della morte del controrivoluzionario Giuseppe Stalin.

Detto questo, occupiamoci dell’oggi.

La Cina del XXI° secolo ha fatto passi da gigante dal punto di vista dello sviluppo capitalistico, candidandosi a contendere il predominio mondiale a tutti i maggiori paesi imperialisti. Investe capitali in tutte le aree di mercato, é creditrice nel Debito Pubblico USA, ha marciato fino a pochi anni fa a ritmi annui di incremento del PIL con doppia cifra, attira “manifattura” da tutto il mondo, ed esporta a sua volta. Conseguentemente a ciò, il suo proletariato attivo ha raggiunto la ragguardevole cifra di circa mezzo miliardo di uomini.
Fino a poco fa, per circa un ventennio, la Cina é stata la “manna” per molti capitalisti nostrani: forza lavoro pagata pochissimo, basse imposte, accordi affaristici “diretti” con le autorità cinesi, mercato enorme ed in espansione, inserito in un continente che ha fatto da “traino” al commercio mondiale…. E giù ad “esternalizzare”, a farci affari di tutti i tipi, ad ammassare in città ed in fabbriche abnormi milioni e milioni di contadini “strappati” dall’entroterra; per non parlare delle “riconversioni forzate” di mega-aziende ex capital-statali!

Ora il giocattolino comincia a perdere colpi. La concorrenza internazionale é sempre più serrata, l’Europa é bloccata, gli USA stentano a ripartire…gli operai scioperano!
Non cominciano certo da ora. Sono anni che lo fanno, nel più totale disinteresse. Il proletariato più numeroso del mondo semplicemente rimosso, dimenticato, considerato come un’appendice “economica” di un meccanismo di sfruttamento che é mondiale e che non può non “riguardare” tutti noi. Là in Cina a schiacciare gli operai in nome di uno spudorato “Stato socialista”. Qui in occidente tutto il ciarpame politico ed intellettuale a disquisire sulla “fine della classe operaia”, sul “capitalismo virtuale”, e su questi cinesi che avrebbero finalmente capito che bisogna lavorare sodo e poche balle: la ricchezza si sarebbe diffusa in tutto il pianeta.
Solo chi non sarebbe stato “al passo” avrebbe perso salario, e tutto il “bendidio” del Welfare.
Giusta punizione per i nostri stravaccati e “garantiti” lavoratori, aggrappati ancora alle “tutele” di un Articolo 18, al Contratto Nazionale, ed amenità varie…

Peccato, peccato davvero, se, come dice l’ articolista del “Corriere” Danilo Taino molti padroni ora passano dall’ “offshoring” (delocalizzazione) al “reshoring” (rilocalizzazione).
Secondo il Boston Consulting Group “il vantaggio competitivo dell’economia cinese fondato sulla mano d’opera a basso costo é sostanzialmente stato annullato”…Tra le imprese americane con un fatturato superiore ad un miliardo di dollari, il 37% pianifica o considera di riportare in America produzioni aperte anni fa in Cina. Idem per quelle europee. Veniamo così a sapere dal giornalista che, sempre secondo questo studio del BCG, i salari cinesi crescono a DUE CIFRE dal 2000. Altre statistiche dicono che dal 2009 ad oggi essi sono lievitati del 43% e che il costo per unità di lavoro in dollari é aumentato del 22% dal 2007.

L’occasione di questa notizia “sensazionale”, che per noi marxisti, al di là delle dispute quantitative sui dati é solo una conferma, viene da quanto sta accadendo alla più grande impresa cinese, la Foxconn, il grande gruppo di elettronica taiwanese, fornitore di gadget per marchi come Sony, Hewlett-Packard, Nintiendo, Delì e Apple, un milione e duecentomila dipendenti. Per la prima volta questi lavoratori potranno votare i loro rappresentanti sindacali, con scrutinio segreto, uscendo così dal rigido controllo del partito e del governo, che non esitano a reprimere duramente chi non si “allinea”.
La versione del “Corriere”, ripresa dal “Financial Times”, si sofferma sul fatto che la Apple non poteva più tollerare la sua caduta “d’immagine” di fronte “ai piazzali delle fabbriche pieni di operai che protestano” :
“la produzione ha un costo umano enorme: le maestranze sono costrette a turni di lavoro lunghissimi, vivono praticamente accasermate, sono talmente stressate che nel 2009 e 2010 negli impianti diversi ragazzi si sono tolti la vita.”

Meglio allora portarli attorno ad un tavolo e discutere ”. Questa é la nuova linea padronale e, sembra, persino governativa…Sindacati “liberi” dunque. Di far cosa? Di entrare come soggetto “rivendicativo” operaio nella contrattazione della forza lavoro. Non ci si vuole più trovare nella situazione tipo quella dell’autunno scorso, quando sono scoppiati incidenti in una fabbrica di Zhengzhou ed i “delegati sindacali”, accorsi a “calmare le acque” (è proprio vero che tutto il mondo é paese…) si sono visti affrontare dai manifestanti al grido: “Chi siete? Non vi abbiamo mai visto alla catena di montaggio”.

Se questa notizia (data con tanto ipocrita ed interessato spirito di “umanità” da giornali come il “Corriere della Sera” che sostengono a spada tratta il massacro sociale di padroni e governanti di ogni risma, in Italia ed in Europa) avesse davvero gambe per marciare, e non si traducesse in un altro “falso allarme” come avvenuto in altre occasioni, potremmo dire che un passo in avanti sarebbe compiuto. E di non poco conto.
Non certamente perché pensiamo che con sindacati “liberamente eletti” ci sarebbe più “democrazia” ed il mondo sarebbe più giusto. Anche in Cina, tra non molto, gli operai dovranno fare i conti con camarille “demo-burocratiche” non meno corrotte e servili dei “sindacati di regime”. Ne sappiamo qualcosa anche noi qui in Italia.
Non certamente perché pensiamo, come fa il “Corriere”, che il “riequilibrio salariale” (il cosiddetto “Punto di svolta di Lewis”) potrebbe alla fine “riportare indietro” gli investimenti e con essi i milioni di posti di lavoro perduti in questi decenni…Non é questo il problema, e comunque non “tifiamo” per questo. Lo lasciamo ai riformisti, alla caccia di tutto pur di accaparrare voti.

Pensiamo invece che:

1) la “libera dialettica sindacale”, pur dovendo superare da subito una forte ipoteca politica scaturita da “concessioni” e non da scontri generalizzati di classe in campo aperto, potrebbe comunque mettere in seria difficoltà l’involucro politico della borghesia cinese e del suo sistema di controllo sociale, innescando crisi politiche con esiti ad oggi imprevedibili;
2) la “scuola di guerra” per il proletariato più numeroso del mondo, che per ora é rimasta nell’ambito di dure “guerriglie aziendali” (seppur di proporzioni ragguardevoli), agganciandosi ad un inevitabile, gigantesco “1905 economico cinese”, potrebbe produrre accelerazioni in grado di formare delle organizzazioni genuinamente classiste a livello nazionale, con potenzialità di aggregazione per tutto il proletariato asiatico;
3) tali organizzazioni, sindacali e/o “comitariali” che fossero, potrebbero veramente essere il miglior viatico ad una ripresa della coscienza comunista in un ganglio vitale del capitalismo internazionale.
Grandi prospettive si stanno per aprire ad Oriente. E sta maturando il tempo in cui non si parlerà più della Cina e dell’Asia solo come “opportunità di investimento” per padroni, faccendieri e parassiti.
In fondo, la prospettiva leninista della saldatura del proletariato rivoluzionario del putrescente capitalismo occidentale col giovane proletariato asiatico e con le sue sterminate masse contadine, facendo la Russia Sovietica da anello di congiunzione (superati i decenni delle guerre di liberazione nazionale e quelli del “falso socialismo”), si sta riproponendo.
Con tempi decisamente molto allungati e con una china controrivoluzionaria durissima da risalire. Con il soggetto rivoluzionario (il proletariato) evidentemente sfasato e disarmonico rispetto al livello dello scontro ed ai compiti dell’ora. Ma con l’enorme vantaggio per i rivoluzionari di poter partire da una classe sfruttata infinitamente più omogenea socialmente di quanto lo fosse novant’anni fa. Più omogenea socialmente perché più internazionalizzata e dunque più interdipendente. Così come collettivamente “subisce”, altrettanto colletttivamente può e potrà “colpire”.
Questa é la forza del proletariato. Questa é la forza del comunismo!

E a quel punto potremmo, con Marx, ripetere: “Ben scavato, vecchia talpa!”

Combat/Comunisti per l’Organizzazione di Classe

Leave a Reply