CONTINUITA’ CON IL PASSATO E DISINCANTO PER IL GOVERNO PERUVIANO DI PEDRO CASTILLO

Il 6 giugno dello scorso anno Pedro Castillo vince le elezioni presidenziali in Perù, tra polemiche e incredulità.

Maestro elementare e dirigente sindacale, si era fatto conoscere per aver organizzato e diretto vari scioperi di insegnanti e dipendenti scolastici, lotte rivendicative per miglioramenti salariali e il rispetto dei diritti dei lavoratori che si sono protratte per mesi.

Appartenente all’ala sinistra del SUTEP (Sindacato Unico dei Lavoratori dell’Educazione del Perù), si iscrive successivamente al nuovo partito Perú Libre, un partito progressista fondato nel 2008 nella regione di Huancayo, con una base sociale indigena dei territori andini dell’interno.

Vincitore inatteso e per soli 40.000 voti alle elezioni presidenziali, ha innescato nel proletariato peruviano grandi aspettative di cambiamento; le masse impoverite da decenni di neoliberismo e dalla tragedia sociale che si è scatenata con la pandemia, hanno visto nell’elezione del presidente-maestro l’ora del riscatto popolare dopo una lunga serie di presidenti e governi corrotti dalle varie sfumature politiche (1).

Castillo è stato sfidato al secondo turno dalla figlia del presidente Alberto Fujimori, che governò il paese dal 1990 al 2000 da un lato con il pugno di ferro (2), dall’altro imponendo una linea rigorosamente liberista con drastiche misure di contenimento della spesa pubblica per combattere l’inflazione e la svalutazione del sol, ben più severe di quelle suggerite dal FMI.

Il ‘Fujishock’ riesce a far ripartire l’economia sulle spalle del proletariato peruviano, con disoccupazione, lavoro nero e precariato, salari diretti e indiretti in continuo arretramento sul costo della vita, miseria nelle campagne e nei territori andini, emarginazione nelle città.

Già nel 1994 l’economia peruviana cresce ad un tasso del 13% annuo. L’inflazione del 7649% nel 1990, nel 1994 è del 10,2% e da allora si è stabilizzata tra il 2 e il 6%.

AL GOVERNO

All’inizio della competizione elettorale Castillo non era tra i favoriti, ma il suo programma di timide riforme e un’immagine ‘pulita’ al confronto della sfidante che aveva già assaggiato il carcere per reati finanziari ha convinto una parte dell’elettorato stanca del suo ceto politico e la più colpita dalla crisi economica e sociale del paese.

Dai risultati del primo turno la borghesia peruviana ha masticato amaro per poco: le forti pressioni esercitate sul nuovo presidente hanno ben presto cominciato a dare i loro frutti: Castillo ancor prima della consultazione finale modera il suo programma di governo e scioglie come neve al sole le sue promesse elettorali.

Lancia un progetto di governo di unità nazionale con la destra, abbandona le critiche al modello neoliberista e alle istituzioni borghesi, le proposte di nazionalizzazione di imprese strategiche (punto rivendicato dalla sinistra per giustificarne l’appoggio) e il progetto di chiudere con la Costituzione di Fujimori del ‘93 per avviare un nuovo processo costituente.

Una volta al governo Castillo si circonda di tecnici, molti del movimento Novo Perú, a cui appartiene il nuovo Ministro dell’Economia Pedro Francke, un keynesiano ben accolto dalla destra perché nonostante difenda un maggior interventismo dello stato, è ben inserito nel mondo della grande impresa.

Francke, fra gli uomini più influenti e vicini al presidente, inizia a smantellare il programma elettorale in nome della stabilità economica e finanziaria. Apre agli investimenti privati, purché “onesti”, e silenzia le proposte di nazionalizzazione. Minimo il suo programma di riattivazione dei servizi pubblici, come salute ed educazione, e il programma di riforma tributaria perde il suo carattere progressivo pur promettendo di far pagare le tasse alle imprese minerarie, ma a condizione che vengano rispettati i prezzi da loro stabiliti e se ne garantiscano i livelli di profitto.

Per i lavoratori non c’è nulla, nemmeno un aumento del salario minimo, perché a causa della pandemia e del calo di produttività “non è il momento” di concederlo.

E’ bastato questo riposizionamento dell’agenda di governo perché le forze del capitale industriale cominciassero a guardare con stima e riconoscimento il nuovo ministro e il suo governo.

Il presidente accetta la posta in gioco: nei suoi interventi pubblici chiama all’unità con la destra, che sostiene gli interessi padronali, con i nazionalisti dell’area di Ollanta Humala, con la “borghesia progressista” e con il capitale straniero, purché ‘rispetti’ la sovranità nazionale.

La classe lavoratrice ben presto ha la conferma e non solo il timore che Castillo avrebbe ripercorso le orme del presidente Ollanta Humala (2011-2016), tradendo tutti gli impegni di cambiamento che avrebbero potuto alleviare il peso della sua quotidiana esistenza.

Il presidente si fa conoscere meglio nelle sue uscite pubbliche: conservatore rispetto a problematiche sociali come l’oppressione e la discriminazione di genere e l’aborto, ad un giornalista che gli chiedeva la sua filiazione ideologica risponde che non è né un marxista né un comunista, ma “un uomo del popolo (…), del popolo che crede nella democrazia”.

Nell’ottobre dello scorso anno Castillo nomina Ricardo Belmont come nuovo consigliere presidenziale. Ex prefetto di Lima, è ricordato per le privatizzazioni e l’impulso dato al lavoro precario ed esternalizzato, ma anche per essere sostenitore del movimento no-vax e ammiratore dell’ex presidente Trump; per le sue posizioni omofobe, xenofobe e misogine e l’aperta ostilità verso gli immigrati, principalmente venezuelani.

Nel nuovo governo sono riuniti ministri dell’Opus Dei, “terruqueadores” (persone che accusano la sinistra tout court di terrorismo), un Ministro della Donna e della Popolazione Vulnerabile omofoba e contraria ai vaccini, che stigmatizza le lotte delle donne e le politiche di genere; un Ministro dell’Ambiente platealmente ignorante della sua materia; un Ministro degli Interni denunciato per abuso di autorità e traffico di droga, e quello della Difesa con una denuncia per violenza domestica.

Castillo ha formato un governo con gli stessi vizi dei vecchi partiti della sinistra riformista conciliante con gli interessi borghesi, partiti che, vengano dallo stalinismo o dalla socialdemocrazia, credono che in Perù si possa solo costruire un progetto di modernizzazione capitalistica in unità con la borghesia nazionale e straniera, purché ‘responsabile’; e con la destra liberale e progressista. In più ha cooptato le forze di opposizione della destra conservatrice, che oggi tiene in pugno la maggioranza del Congresso; il tutto sotto l’appello all’unità nazionale e alla collaborazione di classe.

A dicembre dello scorso anno il presidente Castillo si riunisce con gli ex ministri delle Finanze dei precedenti governi di Ollanta Humala, Pedro Pablo Kuczynski e Francisco Sagasti, ministri noti per le loro politiche antipopolari e contro i diritti dei lavoratori, in linea con i principi neoliberisti e fondomonetaristi. A questo incontro non viene invitato il ministro Francke, colpevole di aver prospettato quella riforma tributaria che avrebbe potuto minacciare i profitti dell’imprenditoria borghese e allontanare gli investimenti esteri (la Commissione Costituzionale del Congresso taglierà successivamente 9 punti della sua riforma, neutralizzandola).

Questo incontro ha preparato il cammino per la nuova scalata della destra al potere, il cd “rilancio del governo” (Castillo): una ristrutturazione che offre alla grande impresa la rappresentanza maggioritaria.

Ma gli avversari politici di Castillo sanno che la neoformazione di governo è fragile e precaria, come lo sono stati i più recenti avvicendamenti di governo, che hanno tenuto ritmi da 3 premier in una settimana e 5 capi di stato in 5 anni.

Nei primi 6 mesi tre ministri hanno abbandonato, per la pressione della destra: il premier Guido Bellido, il ministro del Lavoro Iber Maraví per i suoi presunti vincoli con Sendero Luminoso e il Ministro degli Esteri Héctor Béjar, che aveva denunciato negli anni 70 l’intervento della CIA in azioni terroristiche. Béjar ha lasciato il posto ad Oscar Maúrtua, noto per la sua prossimità con l’ambasciata nordamericana e per l’appoggio dato alle iniziative golpiste in Venezuela.

Bellido era una figura divisiva, troppo vicina al segretario generale di Perú Libre Vladimir Cerròn e temuto dalla borghesia imprenditoriale per il suo programma di nazionalizzazioni, la più temuta quella del consorzio Camisea, il più grande produttore di carburante del Perù.

In seguito a queste rinunce sono usciti dal governo tutti i ministri, che vengono sostituiti da figure più gradite o prese direttamente dalle file della destra.

Ne risulta un governo formato in maggioranza da reazionari (il Primo Ministro, il Ministro della Donna, degli Interni e della Difesa) e da neoliberisti (Economia, Energia e Ambiente).

Altre nomine strategiche confermano la stessa linea politica: a direzione del Banco Central viene posto l’ultraliberista Julio Velarde, mentre viene nominato il reazionario Daniel Salaverry alla direzione di Perupetro, l’impresa statale di trasporto, distribuzione e commercializzazione di carburante e prodotti petroliferi.

L’instabilità coinvolge la stessa persona del presidente: tra dicembre e marzo Castillo ha dovuto affrontare due tentativi di impeachment per “incapacità morale permanente” e l’accusa di “traffici di interessi” per il presunto coinvolgimento in una rete di corruzione legata agli appalti pubblici.

Il 9 marzo il quarto governo Castillo – in otto mesi di esistenza – si salva dalla crisi ottenendo la fiducia dal Parlamento, ma per un soffio: 64 voti a favore, 58 contrari e due astensioni.

Il mese seguente una mozione di sfiducia viene approvata contro il Primo Ministro, accusato della pessima e troppo morbida gestione delle proteste sociali in corso nei territori interni e del coprifuoco a Lima e Callao.

Contemporaneamente ampi settori della popolazione avanzano la richiesta di elezioni anticipate.

Secondo un sondaggio effettuato in aprile, l’86% del campione analizzato è a favore di nuove elezioni presidenziali ma anche per il rinnovo del Congresso, che è in mano alla destra. In termini percentuali, la riprovazione dell’operato del Parlamento supera quella di Castillo.

Due delle prime e più significative azioni di politica estera del nuovo governo sono state l’approvazione dell’ingresso di militari e di unità navali nordamericani con armi da guerra nel territorio peruviano e il rinnovo con USA e USAID (Agenzia per lo sviluppo internazionale statunitense) di un accordo di cooperazione strategica.

Il parlamento ha approvato a larga maggioranza, il partito del presidente quasi compatto ma anche la coalizione di centrosinistra Juntos por el Perú, che in altri casi ha approvato mozioni congiunte con la destra fujimorista (ad esempio per l’eliminazione di programmi scolastici che trattavano dell’eguaglianza di genere o per favorire la penetrazione delle imprese nelle università private).

Le riforme che Castillo sta attuando mantengono e rafforzano i pilastri economico-politici dello stato borghese.

Grande enfasi viene data all’investimento privato dei grandi capitali stranieri, anche dopo il disastro ambientale del 16 gennaio: lo sversamento di tonnellate di petrolio da un cargo della Repsol al largo di Ventanilla. Il Presidente poco o nulla ha fatto contro l’impresa spagnola.

Con più di 50km di spiaggia danneggiati e migliaia di pescatori senza più alcuna entrata, l’industria del turismo e l’attività dei piccoli commercianti chiusa, la popolazione ha organizzato proteste, blocchi stradali e manifestazioni, spalleggiata da associazioni ambientaliste, ONG e molti giovani, per chiedere giustizia: sanzioni, risarcimenti e la sanificazione e recupero del territorio devastato.

Il governo balbetta e in ritardo qualche risposta, organizza ridicoli sopralluoghi e fissa un incontro con Repsol. Le consultazioni sortiscono un accordo che prevede il risarcimento della durata di due mesi in beni alimentari alla popolazione danneggiata, a patto che le stesse vittime del disastro si prendano carico del lavoro di pulizia e recupero del territorio contaminato. Un accordo esemplare: dopo aver tolto loro il lavoro, ora Repsol li costringe a lavorare se vogliono procurarsi un tozzo di pane!

UN NUOVO CICLO DI LOTTE

Oggi l’immagine di Castillo sedimentata tra i settori popolari e la classe lavoratrice è quella di un presidente che ha seminato illusioni e sogni di cambiamento ma che non ha effettuato alcuna rottura con la borghesia nazionale e internazionale e le sue istituzioni, bensì opera in continuità con i governi di Alejandro Toledo (Perù Possibile, 2001-2006), Alan García (APRA: Alleanza Popolare Rivoluzionaria Americana, 1985-90; 2006-2011) e Ollanta Humala (Partito Nazionalista Peruviano, 2011-2016). Ciò che è nuovo in questi ultimi mesi è la protesta sociale trainata dai settori popolari che più hanno sostenuto Castillo e lo hanno portato alla vittoria.

Nell’aprile di quest’anno, per la prima volta dall’inizio del suo mandato, Castillo ha dovuto affrontare una forte ondata di mobilitazioni, blocchi stradali e scioperi.

Protagonisti di questo movimento popolare sono i suoi elettori: i contadini impoveriti degli altipiani centrali e del nord, prima tra tutte la regione di Huancayo, la più povera del Perù. E i lavoratori dei trasporti, che attraverso l’Unione delle Corporazioni del Trasporto Multimodale del Perù hanno portato avanti una serie di scioperi con grande danno all’economia del paese, come quello dovuto alla paralisi dei tir e delle arterie principali di comunicazione.

Le proteste si focalizzano sulla politica economica del governo, sull’elevato costo della vita, il prezzo dei carburanti e dei beni alimentari e per migliori condizioni di lavoro per i braccianti agricoli.

Sono le più violente degli ultimi 20 anni e si sono mosse in completa indipendenza dalle forze di opposizione sia di destra (Fuerza Popular e Renovación Popular) che di sinistra.

Castillo reagisce inizialmente con la consueta accusa ai manifestanti di essere strumentalizzati e pagati dagli agenti golpisti del fujimorismo e rassicura la borghesia che sarà suo compito riportare l’ordine. Polizia ed esercito scateneranno infatti una repressione feroce contro tutte le proteste disseminate in varie parti del paese.

Ma le intimidazioni e la distorsione mediatica dei fatti non provoca lo spegnimento della sollevazione popolare: in migliaia il 1 aprile occupano la città di Huancayo e nonostante la ferocia poliziesca attaccano le principali sedi istituzionali pubbliche e la casa del fondatore e leader di Perù Libre, Vladimir Cerrón.

A Junín gli scontri lasciano sul campo 4 morti e 12 feriti e vengono arrestate 14 persone.

Di fronte a tanta determinazione Castillo firma un accordo con i trasportatori ed i lavoratori agricoli che abbassa le accise sul carburante e stabilisce un piano per ridurre la dipendenza dai fertilizzanti, che a causa della guerra in Ucraina non vengono più importati. Ma non tocca i prezzi del mercato agricolo. Inoltre riduce le imposte per 3 mesi sulla vendita degli alimenti di base e aumenta il salario minimo del 10%, portandolo a circa l’equivalente di 300 euro al mese (era 251 euro). Misura quest’ultima di scarso effetto sociale, poiché è il lavoro nero ad occupare buona parte del proletariato peruviano.

Le proteste arrivano alla capitale, dove l’impopolarità del presidente è molto alta; la resistenza popolare agli attacchi della Polizia Nazionale e l’estensione di massa della mobilitazione costringono il presidente a revocare lo stato di emergenza per le città di Lima e Callao dopo meno di 24 ore dalla sua proclamazione.

La sollevazione popolare si allarga a problematiche meno contingenti, come la proprietà della terra e lo sfruttamento delle risorse naturali del paese ed unisce rivolte territoriali più specifiche che non hanno mai cessato di disturbare i sonni dei precedenti governi.

Il 22 aprile il governo impone per 60 giorni lo stato d’emergenza nella regione di Moquegua, in risposta alle lotte contadine contro sia gli abusi dell’impresa mineraria Southern Copper, la cui attività provoca danni ambientali, contaminazione e sottrazione di grandi quantità di acqua, vitale per la popolazione locale e necessaria alla sua economia di sussistenza; sia contro il brutale sfruttamento dei lavoratori nelle miniere.

Lo stato di agitazione prosegue da due mesi, quando i minatori e le loro famiglie hanno bloccato le vie di accesso alla miniera di rame, fermandone la produzione.

Lo stato d’emergenza sospende diritti costituzionali come l’inviolabilità del domicilio, la libertà di transito, di riunione e la sicurezza personale. La polizia e le FFAA agiscono di concerto e in piena autonomia decisionale, sgravati da ogni responsabilità penale.

Anche questi territori sono stati uno dei più importanti bacini di consenso a Castillo, che dapprima ignora la questione e poi, di fronte alla resistenza e tenacia delle lotte, decide di inviare una delegazione con il Ministro del Lavoro. Il risultato è uno spreco di parole in difesa della bandiera nazionale, dell’ordine pubblico e del “principio di autorità”, a cui segue la repressione poliziesca, a difesa della grande impresa.

Lo stato di emergenza viene proclamato ovunque il proletariato alzi la testa: è il 27 aprile quando il governo lo indice per 30 giorni nella regione di Cotabambas e dà libertà alla polizia e all’esercito di soffocare la lotta delle famiglie contadine contro la miniera MMG Las Bambas. Lo stesso accade alla comunità Torata-Moquegua, dove la comunità ha occupato le terre dell’impresa mineraria, dopo che aveva rifiutato di pagare un indennizzo per i danni ambientali provocati. Ma la repressione violenta delle forze dell’ordine non è ancora riuscita a far desistere le 200 persone più tenaci, a cui si aggiungono ogni giorno solidali.

Alla fine di aprile Castillo cerca di correre ai ripari per smorzare le mobilitazioni diffuse: presenta un progetto di riforma della Costituzione e di un referendum per un’Assemblea Costituente da tenersi in ottobre, in occasione delle elezioni comunali e regionali.

L’operazione è chiaramente cosmetica, poiché l’approvazione di questa proposta richiede necessariamente la maggioranza del Congresso, in mano alla destra.

CONCLUSIONI

Con Fujimori e le sue drastiche misure il Perù del capitale è riuscito a risollevarsi economicamente ottenendo ottimi risultati macroeconomici, cosa di cui hanno beneficiato i governi successivi; ma la crescita non ha avuto alcuna ricaduta sociale, nessun beneficio per la classe lavoratrice, sempre più impoverita e sfruttata. Ne sono testimoni lo sfascio del sistema sanitario ed educativo.

La pandemia, come in ogni angolo del mondo, ha aggravato le condizioni di vita e di lavoro del proletariato peruviano. A questa si aggiunga l’inflazione, attualmente al 12-13%, le conseguenze della guerra in Ucraina, la corruzione radicata della classe politica tutta e il disincanto per il governo Castillo (solo un peruviano su cinque approva oggi il presidente), così simile ai precedenti ma più precario e mediocre nella gestione dello stato: tutto questo ha acceso la miccia delle recenti proteste popolari.

Ma le lotte del proletariato peruviano sono ancora nella fase embrionale di una debole organizzazione e coesione politica, quando non contraddittoria: da un recente sondaggio i peruviani favorevoli alla democrazia sono passati dal 51,8% del 2012 al 27,6% attuale, e il 59% è a favore di un golpe militare.

Il degrado politico degli ultimi decenni e le dure condizioni di vita e di lavoro della popolazione non hanno ancora coagulato settori della classe per lottare in vista di una prospettiva rivoluzionaria. Sembra prevalere ancora la ricerca dell’uomo forte al comando a cui affidare il proprio futuro.


Note:

1) Alejandro Toledo (2001-2006), Alan García (2006-2011), Ollanta Humala (2011-2016), Pedro Pablo Kuczynski (2016-2018), Martín Vizcarra (2018-2020), Manuel Merino (5 giorni), Francisco Sagasti (2020-2021)

2) Grazie all’azione delle squadracce paramilitari Fujimori scatenò la guerra contro Sendero Luminoso e l’opposizione politica. Responsabile di omicidi, massacri, stupri e sterilizzazioni forzate, condannato per corruzione oltre che per crimini contro l’umanità, Fujimori fuggì in Giappone, suo paese d’origine, e in seguito all’estradizione finì in carcere con la condanna a 32 anni. Graziato per motivi di salute gli sono stati concessi gli arresti i domiciliari, ma successive condanne lo hanno ricondotto in carcere, fino alla scarcerazione recente per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute.

Fonti:
Esquerda Diário: giugno, luglio, dicembre 2021; gennaio, aprile 2022
Il Manifesto, 8 ottobre 21
Atlanteguerre.it, 6 maggio 22
ANSA, 9 marzo 22

LA VIA DELLA SETA PASSA DAL PERU’

Il conglomerato statale cinese COSCO Shipping Holdings sta costruendo 55km a nord di Lima un porto in acque profonde da 3 miliardi di dollari, collegato ad un vasto parco industriale e logistico, in collaborazione con un’unità della società commerciale svizzera Glencore a Chancay.

Migliaia di lavoratori sono impiegati nel sito che si estende per 1100 ettari.

COSCO opera in circa 35 porti in tutto il mondo, ma quello di Chancay è il primo in Sudamerica.

L’accordo è stato salutato dal presidente di COSCO come “un’iniziativa importante per l’attuazione della Belt and Road Initiative” e vede la partecipazione alla costruzione del porto anche di due imprese statali cinesi: la China Railway Group e la China Communications Construction.

Il nuovo porto sarà in grado di gestire le navi portacontainer più grandi del mondo e di trattare fino ad un milione di container standard all’anno. Attualmente il commercio di container con il Perù è molto inferiore rispetto a quello con il Cile.

Per la Cina il Perù è finora un importante mercato di approvvigionamento del rame (la Cina gestisce due delle maggiori miniere di rame) e di farina di pesce.

Si sta costruendo anche un tunnel di 1,8 km che collegherà l’immediata area portuale con il sito del parco industriale e logistico, in modo che i camion possano viaggiare sotto terra tra le due zone, evitando le strade urbane.

Un nuovo impianto di desalinizzazione eviterà di sottoporre ad eccessivo stress le riserve idriche presenti ed è previsto anche un impianto di trattamento delle acque reflue.

da: AGC Communication, 17 maggio 22

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