Corno d’Africa, sviluppo capitalistico, miseria e…

Il Corno d’Africa ha visto negli ultimi decenni un rinnovato interesse da parte delle potenze mondiali e regionali. Usa, Cina, UE, ma anche Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Turchia, Qatar, Iran ed Egitto. Interesse militare e commerciale per la sua posizione strategica lungo la rotta tra il Mediterraneo e l’Estremo Oriente, una rotta di importanza critica crescente anche perché coinvolta nello scontro tra le due superpotenze Usa-Cina, dato che da qui passa una delle vie marittime della nuova Via della seta.

Del Corno d’Africa interessano anche i terreni agricoli, arraffati con il land grabbing,[i] l’estrazione di minerali e petrolio, come pure le potenzialità di sviluppo economico, la conseguente domanda di infrastrutture, e le opportunità offerte dal posizionamento nel mercato continentale, con una classe media in espansione.

A ciò si aggiunge il suo potenziale demografico, con un’età media che va dai 19 anni dell’Etiopia ai 16 anni della Somalia. In prospettiva un’abbondante forza lavoro giovane da cui estrarre altrettanto abbondanti profitti ai capitali che scelgono la regione.

Tuttavia, nonostante il crescente afflusso di capitali, il CdA è ancora tra le regioni al mondo con i più bassi livelli di sviluppo socio-economico, è teatro di frequenti crisi umanitarie e ambientali, ed è al centro di flussi migratori, verso la penisola araba, la Libia, il Sudafrica, ed Europa.[ii] Secondo le Nazioni Unite, in Somalia, Etiopia ed Eritrea 22 milioni di persone rischiano di morire di fame, e un bambino somalo su tre è affetto da malnutrizione cronica.

Dei capitali esteri qui investiti hanno beneficiato sostanzialmente la borghesia internazionale che li detiene, e quella locale che partecipa alla loro messa a frutto. Solo marginalmente, e principalmente in Etiopia, la popolazione ha potuto ricavarne qualche miglioramento nelle condizioni di vita.

In ogni caso, mentre l’afflusso di capitali innesca un veloce processo di sviluppo capitalistico, di Gibuti e Etiopia in particolare, le popolazioni del CdA devono ancora subire passivamente i disastri dovuti alle calamità “naturali” aggravate dall’accelerato cambiamento climatico – siccità, alluvioni, invasioni di locuste – pagate con migliaia di vittime per una serie di malattie, per lo più endemiche.

E i disastri e le tragedie dei conflitti militari. Prima della guerra Tigray-Etiopia, iniziata nel 2020 e attualmente sospesa da un accordo di pace incerto, il Corno d’Africa ha vissuto un numero di guerre interstatali maggiore di qualsiasi altra regione africana: Etiopia-Somalia, 1977-78 e 2006-2009; Etiopia-Eritrea, 1998-2000; ed Eritrea-Djibouti, 2008. Guerre interminabili che hanno prodotto morte e distruzione, guerre che la borghesia locale giustifica e avalla ideologicamente adducendo motivi etnici, religiosi. In realtà sono il frutto di lotte di potere su cui incidono pesantemente anche gli interessi di tutti i paesi che ci intervengono.

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Fluiscono gli investimenti, innanzitutto nel militare…

L’aspetto più evidente e dirompente del rinnovato interesse delle potenze al Corno d’Africa sono gli ingenti investimenti militari.

A Gibuti e presso lo stretto Bab-el-Mandeb sono presenti militarmente, con infrastrutture più o meno recenti, USA, Cina, Giappone, Germania, Francia, Italia, Spagna, Arabia Saudita, forze navali multinazionali antipirateria CTF 151 (Bahrain, Brasile, Danimarca, Giappone, Giordania, Kuwait, Pakistan, Nuova Zelanda, Repubblica di Corea, Singapore, Thailandia, Turchia, Regno Unito e Stati Uniti), la missione UE Eunavfor Somalia. In Eritrea ci sono le basi militari di Russia ed Emirati Arabi Uniti; in Somalia una base militare turca, e nel Somaliland una seconda base degli Emirati.

Una militarizzazione che, contrariamente alle motivazioni di sicurezza addotte (anti-pirateria, antiterrorismo) contribuisce ad accrescere tensioni e insicurezza nel CdA, ed esplicita l’innalzamento del livello di scontro globale tra le potenze.

Diamo uno sguardo alla cartina che mostra gli artigli delle potenze che stringono quest’area.[iii]

Distribuzione del 2019, delle forze militari straniere nella regione del Corno d’Africa, (e del Golfo Persico) con le principali infrastrutture a Gibuti e nelle nazioni limitrofe, e le numerose Forze navali multinazionali. (CTF= Forza d’Intervento Combinata)

La struttura economica si è modificata

Del CdA fanno parte quattro paesi, Eritrea, Etiopia, Gibuti e Somalia, con caratteristiche economico-sociali alquanto differenti tra loro. Ci vivono all’incirca 135 milioni di abitanti, dei quali 115 concentrati nella sola Etiopia.

In oltre un ventennio (1997-2019) la quota del settore agricolo sul PIL totale del CdA è scesa dal 46,7% al 28,9%; il manifatturiero è aumentato leggermente, dal 7,8% all’11,3%. Il settore dei servizi è diventato predominante nel Corno, passando dal 35,9% al 48,4%.

In questo quadro regionale si rilevano però forti differenze tra i vari paesi (cfr. Grafico 1).

Il grafico evidenzia le differenze nelle strutture economiche dei paesi del CdA

(Nel grafico sono compresi anche il Sudan e il Sud Sudan, paesi considerati appartenente al Corno d’Africa in senso più ampio)

Rimesse e debito

Gibuti, piccolo stato desertico sullo stretto di Bab el-Mandeb, con poco più di un milione di abitanti, vive principalmente del suo complesso portuale, principale porta di accesso dell’area al Canale di Suez, e delle numerose basi delle potenze, che in cambio dell’utilizzo militare del suo territorio gli garantiscono afflussi di capitali.

Somalia ed Eritrea sono tra i paesi più poveri del mondo. Soggetti a carestie ricorrenti, le rimesse dei loro lavoratori emigrati rappresentano per entrambi i paesi una quota molto significativa del PIL. Il loro sbocco sul mare è l’asset più rilevante.

Nel ventennio 2000-2022 la quota media del debito statale lordo medio sul PIL dell’Eritrea è stato del 196%, cioè quasi il doppio del prodotto interno, con punte che hanno toccato attorno al 250%, nel 2002 e 2003.[iv]

A causa della scarsa disponibilità di risorse interne, la Somalia rimane fortemente dipendente dagli “Aiuti” Ufficiali allo Sviluppo (AUS) e dalle rimesse, che nel 2017 hanno rappresentato complessivamente oltre il 50% del PIL somalo. I soli AUS erano più di un quarto del PIL (26,6%), mentre le entrate statali erano il 2,5% (2018).

Tradotto politicamente, questo significa che le potenze che tanto benignamente erogano i loro pelosi aiuti, dispongono di una leva finanziaria 10 volte più potente delle entrate dello stato somalo.

Nel 2019, prima dello scoppio di Covid-19, Eritrea e Somalia erano tra i quattro paesi africani in sofferenza del debito. Nel 2020 FMI e BM approvarono la riduzione del loro debito, avendo essi soddisfatto le condizioni imposte in materia di politica economico-sociale.[v] Sappiamo cosa in concreto ciò significhi. Sostanziosi tagli alla spesa pubblica, e di conseguenza ai servizi sanitari, all’istruzione e, dove esistono, ai sussidi alimentari.

Il ricatto del debito sottopone i debitori anche a continue pressioni affinché si schierino con una o con l’altra potenza nelle contese geopolitiche. Un esempio è l’Eritrea, che in precedenza sosteneva il Qatar. Dopo l’allettante richiesta di ospitare una base militare degli Emirati Arabi Uniti (da cui sostenere la loro guerra in Yemen), con la prospettiva di afflussi di capitali, infrastrutture e sviluppo del commercio, ora il governo dell’Eritrea parteggia per i nuovi occupanti, gli Emirati Arabi Uniti.

Etiopia, aiuti, investimenti e sfruttamento

L’Etiopia è il paese nel quale si registra il maggiore sviluppo economico. In termini assoluti, la maggior parte degli Investimenti e degli “Aiuti” che giungono nella regione del CdA sono diretti qui. Nel 2018 il paese ricevette 3,3 MD di dollari di IDE (il 64% del totale regionale) e 4,9 miliardi di dollari di AUS (il 50% del totale regionale). Dal 2013 al 2019 il PIL di Addis Abeba è cresciuto mediamente oltre il 9% annuo, il ritmo più veloce tra i paesi africani. Vi hanno contribuito senz’altro gli investimenti dei capitali esteri, gli “aiuti” allo sviluppo degli stati imperialistici, come pure le rimesse dei suoi emigrati. Nel 2019 le rimesse di questi lavoratori furono circa 4,5 MD$, pari a circa il 5% del PIL del paese (stime Banca Nazionale Etiope). L’importo reale è probabilmente molto maggiore. Nel quinquennio 2016-2021 gli emigrati etiopi furono quasi 840mila, di cui il 78% tra i 15 e i 29 anni. Nel 2021 3 milioni di etiopi vivevano fuori dal paese, secondo il governo etiope.

Il governo etiope, oltre che su incentivi fiscali, ha puntato molto sull’ampia disponibilità di forza lavoro – giovane, femminile e a basso costo – per attirare i capitali esteri e innescare lo sviluppo industriale del paese.

La crescita economica innescata dai capitali riversati ha prodotto parziali miglioramenti nelle condizioni di vita medie degli etiopi. È diminuita la quota di persone sotto la soglia di povertà nelle aree urbane e rurali, passata dal 44% nel 2000, al 23% nel 2015. Sono migliorati la salute media delle famiglie, i livelli di istruzione, l’aspettativa di vita; è quadruplicata l’iscrizione alla scuola primaria, la mortalità infantile si è dimezzata e il numero di persone con accesso all’acqua potabile è più che raddoppiato.

La prima ondata (2006-2010) di Investimenti Esteri Diretti in Etiopia, fu quella di un gruppo di esportatori di abbigliamento turchi, alla ricerca di opportunità di profitto all’estero a causa dell’aumento del costo del lavoro in Turchia e della fine del sistema di quote internazionali che in precedenza aveva favorito la produzione in Turchia e in alcuni altri Paesi.

Per ovviare alle carenze infrastrutturali il governo etiope si rivolse alla Cina (cfr. scheda) per finanziare l’espansione di un aeroporto, la costruzione di strade e di una ferrovia, 759 chilometri tra la capitale Addis Abeba e il porto marittimo più vicino, a Jibuti, costo 3,2 miliardi di dollari.

Gli investimenti turchi non furono però in grado di imprimere una sostanziale trasformazione all’economia etiope, l’industria manifatturiera rimaneva inferiore al 5% del PIL e dell’occupazione totale.

Per questo nel 2014 il governo etiope decise il raddoppio degli incentivi finanziari assieme a miglioramenti infrastrutturali, per implementare il piano di sviluppo guidata dalle esportazioni. Incoraggiò gli IDE esentando importazioni ed esportazioni da tasse e dazi e offrendo finanziamenti a basso tasso di interesse.

Ma offrì anche altro. Un suo opuscolo pubblicitario diceva: “Manodopera a buon prezzo e qualificata: ¹/7 della Cina e ¹/2 del Bangladesh“, e la fornitura di energia elettrica “verde”, abbondante e poco costosa.

E sempre nel 2014 decise di centralizzare la gestione dei flussi di IDE in un’unica istituzione: la Commissione etiope per gli investimenti, sottoposta al controllo diretto del Primo Ministro. Questo permise al governo di accedere direttamente alla valuta estera, indirizzare gli investimenti ad aree prescelte, allocarne i benefici e costi in determinate circoscrizioni in base all’interesse elettorale.

Nel 2015 varò un primo Piano quinquennale di Sviluppo e Trasformazione, seguito da un secondo nel 2019, con l’obiettivo di fare dell’Etiopia il centro della produzione industriale dell’Africa, puntando sull’esportazione di prodotti del settore tessile-abbigliamento per un valore di $30 miliardi.[vi]Strumento fondamentale per questo obiettivo, un parco industriale.

Il parco industriale di Hawassa – Capitali e bassi salari

Il parco industriale di Hawassa è uno dei cinque grandi parchi industriali di proprietà pubblica che il governo ha inaugurato dal 2014; ne vorrebbe aprire 30 entro il 2025. Questi progetti dipendono da miliardi di dollari di prestiti stranieri, che poi il governo utilizza per far costruire fabbriche, strade e altre infrastrutture da imprese cinesi.

Dopo PVH, ad Hawassa hanno aperto nuovi stabilimenti fornitori di Cina, India, Sri Lanka e altri Paesi. Con il mercato del lavoro che spinge al rialzo i salari in Cina[vii] e in altri paesi asiatici, i marchi e i rivenditori occidentali sono alla ricerca di nuovi luoghi in cui produrre abbigliamento a basso costo.

Ora nei capannoni di Hawassa venticinquemila lavoratori etiopi lavorano per i produttori di alcuni dei marchi più conosciuti al mondo, tra cui H&M, Guess e Calvin Klein, Izod, Tommy Hilfiger.

Il governo etiope ha garantito alle imprese estere lo sfruttamento della forza lavoro locale per un salario base di 26 dollari al mese. Un salario che è inferiore a quello di qualsiasi altro paese produttore di abbigliamento, e che non consente ai lavoratori, la maggior parte dei quali giovani donne provenienti da famiglie contadine povere, un alloggio decente, cibo sufficiente e trasporto meccanico.

L’accresciuta domanda di beni e servizi determinata dall’afflusso di lavoratori ad Hawassa ha provocato una forte inflazione nella regione circostante. Saliti alle stelle i prezzi di prodotti di base come le lenticchie e il teff, il cereale con cui gli etiopi preparano una focaccia, l’injera.

È aumentato di oltre tre volte e mezzo anche il costo delle abitazioni nel raggio di pochi chilometri dal parco. Una tipica abitazione operaia consiste in un locale a piano terra in cemento, per quattro persone, senza il bagno, con una latrina all’esterno.

La struttura offerta per le manifatture fu, appunto, il parco industriale di Hawassa. Costruito da un’impresa cinese nel 2015-2016, costo 250 milioni di $, è dotato di strutture e tecnologie d’avanguardia, mentre fuori dai suoi cancelli transitano carri trainati da asini e carichi di legna da ardere, taxi sgangherati a tre ruote, auto che suonano incessantemente il clacson e an-che mucche o capre.

PVH – un gruppo internazionale americano che possiede i marchi Calvin Klein, Izod e Tommy Hilfiger, fatturato annuo di circa 9,7 miliardi di dollari e circa 38.000 dipendenti, divenne il fulcro di questo parco, in joint venture con il grande produttore indiano di abbigliamento Arvind.

Una classe lavoratrice ampia e ancora non organizzata

Nel mercato del lavoro etiope c’è abbondante disponibilità di forza lavoro, giovane e femminile. Il sessanta per cento della popolazione ha meno di 25 anni e il tasso di disoccupazione delle donne è di circa il 50%. Questo significa una forte competizione per un posto di lavoro nel manifatturiero, a cui si aggiunge l’assenza di sindacati in grado di organizzare la difesa dei lavoratori. Le tensioni interetniche rendono ancora più difficile la creazione di un movimento unitario di difesa nei luoghi di lavoro.

I Sidama, circa 3,5 milioni di persone, sono il maggior gruppo etnico della regione delle Nazioni del Sud, Nazionalità e Popoli del Sud (SNNPRS) di cui Hawassa è la capitale regionale. Un loro movimento, Ejeto, chiede la costituzione di uno stato Sidama autonomo. Da una parte i Sidama considerano il parco industriale un’imposizione del governo federale, dall’altra chiedono che nel parco vengano assunti solo i Sidama.

Nel marzo 2019, gli attivisti di Ejeto organizzarono uno sciopero che costrinse le imprese locali e il parco industriale a chiudere per tre giorni. Vi aderirono la maggior parte dei lavoratori del tessile-abbigliamento. Gruppi di lavoratori (non meglio definiti) dichiararono che scioperavano contro i bassi salari e per altre rivendicazioni… un tentativo di travalicare gli steccati etnici con una protesta di classe.

L’esperienza delle lotte in difesa delle condizioni di vita e di lavoro potrà aiutare a far maturare una coscienza di classe, che annulli le divisioni ideologiche, religiose, etniche alle lavoratrici e lavoratori etiopi. Chissà, magari con l’aiuto dei lavoratori emigrati nei paesi capitalisticamente più maturi, come quelli in Italia.

[cfr. anche: 2016, art. https://www.combat-coc.org/con-quali-scarpe-marcia-limperialismo/

Dopo la delocalizzazione del calzaturiero dall’Europa all’Asia, ora si prefigura quella verso l’Africa]


[i] La triplice crisi alimentare, energetica e finanziaria mondiale del 2007-2008 (con incrementi dei prezzi nominali per i generi alimentari oltre il 50%) ha reso redditizi gli investimenti in agricoltura. Così, dal 2009 sono stati stipulati affitti di lungo periodo o acquisiti terreni hanno per oltre 56 milioni di ettari, il 70% dei quali in Africa, pari a 230 milioni di ettari, un’area grande quanto l’Europa occidentale una forma di corsa neo-colonialista (studio Oxfam, 2012). L’Etiopia è uno dei punti caldi per l’accaparramento di terreni. Oltre l’80% della popolazione etiope è costituita da piccoli contadini, ognuno con una superficie media coltivata di un ettaro. Nonostante questa caratteristica socio-economica, il governo del Fronte Democratico Rivoluzionario Popolare Etiope (EPRDF) puntò su investimenti fondiari su grande scala.  Nel 1996 lanciò l’Industrializzazione guidata dallo Sviluppo Agricolo (ADLI), e avviò la commercializzazione delle piccole aziende agricole, e la produzione dei biocombustibili, che portò allo sfollamento di 1,5 milioni e mezzo di famiglie rurali dalla loro terra a nuovi villaggi “modello”. Dal 2007 sono stati trasferiti agli investitori sette milioni di ettari, un’area delle dimensioni del Belgio (Banca Mondiale). Oltre un milione di questi sono stati acquisiti da stranieri, per la maggior parte senza alcuna consultazione preventiva dei contadini agricoltori sfrattati e dei membri della comunità, senza un loro adeguato risarcimento o indennizzo. L’affitto annuo richiesto agli investitori è pari a circa 2$ per ettaro, uno degli affitti più bassi al mondo.

Alcuni investimenti fondiari hanno creato posti di lavoro per la popolazione locale, ma per salari medi giornalieri di 20 birr etiopi, pari a circa 1$, inferiori alla soglia di povertà stabilita a livello globale e di quella per l’Etiopia. Il reinsediamento degli sfollati è forzato, decretato dal famigerato programma di “villagizzazione” del governo, per migliorare la situazione socio-economica della comunità, avvicinandole alle strutture sanitarie, scolastiche e servizi pubblici urbani. In realtà l’unico risultato degli sfollamenti è che queste comunità vengono private dei loro mezzi di sostentamento, e lasciate morire di fame. (Da AFRICAN HUMAN RIGHTS LAW JOURNAL, http://dx.doi.org/10.17159/1996-2096/2019/v19n1a11)

[ii]https://dtm.iom.int/data-stories/migration-flows-horn-africa-and-yemen#:~:text=Historically%2C%20migrants%20in%20the%20Horn,)%3B%20and%20the%20Southern%20route

[iii] Per informazioni specifiche sull’argomento segnaliamo: https://sipri.org/sites/default/files/2019-04/sipribp1904.pdf.]

[iv] Il 31 dicembre 2002 UNHCR revocò lo status automatico di rifugiato ai rifugiati eritrei fuggiti dai violenti conflitti nel loro paese negli trent’anni precedenti. Ad inizio 2002 erano ancora circa 305.000. Così a decine di migliaia  dovettero rimpatriare, insediandosi in aeree distrutte dalla guerra, privi di qualsiasi risorsa…  Dovettero perciò fare affidamento sugli “aiuti” delle agenzie internazionali WFP, UNCHR; circa il 60% degli eritrei risultava cronicamente malnutrito.

[v] https://www.agenzianova.com/rs/68998/2020-03-26+23%3A42%3A23/corno-d-africa

[vi] La cooperazione economica tra Cina ed Etiopia iniziò nei primi anni ’70, ma prese slancio dopo il 1995, con l’istituzione della Commissione congiunta Etiopia-Cina. Le relazioni economiche tra Etiopia e India, iniziate nel 1948, hanno registrato un significativo progresso solo dopo il 1991, anno in cui in Etiopia venne introdotta la liberalizzazione economica. Le relazioni si sono ulteriormente rafforzate con l’Accordo bilaterale di promozione e protezione degli investimenti (BIPPA) nel 2007.

[vii] I salari dei lavoratori cinesi in tutti i settori, sono aumentati costantemente, e ora sono mediamente di circa $10.000 l’anno.

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