Covid-19 e lavoro a distanza

Estratto da The Economist, 8.10.2020

La pandemia Covid-19 ha innescato enormi rivolgimenti nell’organizzazione del lavoro. In poche settimane lavoratori impiegatizi hanno abbandonato in massa gli uffici, spostando il lavoro a casa, le riunioni sono state sostituite da call di Zoom e gli spostamenti con un aumento di ore di lavoro.

Da un’inchiesta di Itam, Stanford Univ. e Univ, of Chicago, risulta che 2/3 del PIL americano di maggio è stato prodotto dal lavoro a distanza (a domicilio), una trasformazione nelle tecniche di produzione inedita per il tempo di pace. Secondo questa ricerca, le imprese americane prevedono che la percentuale di giorni di lavoro a casa passerà dal 5% prima del covid-19 a circa il 20%, un dato che coinciderebbe con quanto desiderato mediamente dai lavoratori.

Nel 1997 Frances Cairncross scrisse “The Death of Distance”, sostenendo che la tecnologia della comunicazione stava rendendo l’ubicazione localizzazione sempre meno rilevante per gli affari e la vita personale. In contraddizione a questa previsione, nei due decenni successivi l’attività economica si è andata concentrando in città come San Francisco, New York, Londra, Tokyo e Sydney, a motivo, secondo molti, che l’agglomerato urbano riunisce i lavoratori della conoscenza. I contatti produttivi tra le persone crescono in modo esponenziale dove ci sono alte concentrazioni di lavoratori, al di là di quanto possono offrire le grandi città dal punto di vista della cultura e dei servizi. Una recente ricerca dell’Università di Copenaghen, e dell’Università di Harvard, ha rilevato che una chiusura permanente dei viaggi d’affari internazionali ridurrebbe il prodotto lordo globale del 17%, perché viene impedito il 17% del passaggio di conoscenze attraverso i confini nazionali.

Inoltre, le imprese hanno bisogno di uffici per integrare i nuovi assunti, monitorare le prestazioni, costruire relazioni e diffondere la conoscenza.

Potrebbe tutto ciò cambiare come risultato di un unico evento, la pandemia Covid-19? In parte, dicono i sondaggi rivolti ad imprese e lavoratori. La pandemia ha sdoganato il lavoro da casa; ha spinto le aziende a investire negli strumenti necessari per la collaborazione a distanza, e ha dimostrato l’affidabilità, per la maggior parte, della combinazione di software e hardware che permette di lavorare da casa.

Un economista del sito Upwork rileva che, in linea di principio, online può riunirsi e interagire un numero maggiore di persone di quanto sia possibile farlo fisicamente; inoltre aumenta il bacino di forza lavoro a cui attingere, chiunque abbia una connessione internet al di là del conglomerato urbano. Avanzano ipotesi futuristiche su lavoro e collaborazione in remoto, in ambienti virtuali immersivi paragonabili ai giochi per computer, ambienti in grado di creare un senso di esperienza condivisa, di interazione umana spontanea e quindi di costruzione di relazioni. Si parla del futuro del lavoro ospitato su qube, una piattaforma simile a un gioco, completa di una sala conferenze virtuale e di spazi in cui gli avatar virtuali possono mescolarsi. Questo potrebbe permettere a un numero maggiore di aziende di operare in modo completamente virtuale, anziché secondo il modello di tempo-diviso.

Questo porterà in ogni caso a significativi cambiamenti strutturali.

Uno di questi, è che un terzo o più di tutte le perdite di posti di lavoro durante la pandemia saranno permanenti, perché il mercato del lavoro si adatterà a un mondo con meno spese in città e più in periferia e online (previsioni basate su sondaggi e dei prezzi delle azioni). Solo il 19% del totale dei licenziamenti americani da marzo è stato dato come permanente, però ad agosto l’occupazione complessiva ha recuperato meno della metà delle perdite di quest’anno.

Una seconda conseguenza è un periodo di aumentata disuguaglianza. Le recessioni colpiscono di più i poveri e i non qualificati, ma la pandemia (secondo l’FMI) è stata negativa per loro anche per la gravità del colpo inferto al mercato del lavoro. La perdita di posti di lavoro è stata pesante tra i lavoratori dei servizi (che hanno maggiori probabilità di essere giovani, donne e neri) la cui occupazione dipende dalla spesa di professionisti ad alto reddito.

I dati di Opportunity Insights, un team di ricercatori dell’Università di Harvard rivelano che, a fine luglio in America, i posti di lavoro con retribuzioni superiori ai 60.000 dollari l’anno erano diminuiti del 2% rispetto a gennaio. Ma i posti di lavoro con retribuzione inferiore ai 27.000 dollari erano diminuiti del 16%.

Coloro che danno da mangiare, trasportano, vestono e intrattengono le persone che sono fuori casa rappresentano circa un quarto dell’occupazione americana (MIT).

Una terza implicazione del cambiamento, la minore pressione sugli alloggi nelle città in crescita derivante dall’aumento del telelavoro, opererebbe in positivo a lungo termine.

Le opportunità di lavoro verrebbero distribuite su tutto il paese, e questo stimolerebbe la crescita, diminuendo le disuguaglianze.

La carenza di alloggi nelle città in crescita e nelle zone limitrofe ha limitato la crescita rallentando gli effetti di agglomerazione su cui si basa, oltre a fungere da barriere alle opportunità, rendendo più difficile per i poveri e i giovani il passaggio a posti di lavoro migliori. Ha anche ampliato i divari tra i proprietari di case, che hanno goduto di guadagni inattesi sui prezzi delle case, e gli affittuari. Secondo una stima, il PIL americano sarebbe del 3,7% più alto se i vincoli normativi sull’edilizia di New York, San Jose e San Francisco fossero minori, alla pari di quelle della media città americana.

Il compito della politica, secondo Economist, sarebbe quello di garantire che le transizioni strutturali già in corso non siano ostacolate da un crollo prolungato come quello che ha seguito la crisi finanziaria. Devono cioè fornire stimoli sufficienti alle imprese per la creazione di nuovi posti di lavoro in sostituzione di quelli ora “eccedenti”.

[da The Economist, 8.10.2020]