Covid, scuola e diseguaglianze – Parte seconda

Vedi anche l’articolo precedente: Covid, scuola, mercato del lavoro – Parte prima

La DAD moltiplicatore delle diseguaglianze

Il Covid affrontato con la DAD ha messo in luce l’inadeguatezza della rete informatica italiana, dei dispositivi (PC o tablet) e delle conoscenze informatiche a tutti i livelli (scuole, famiglie, docenti e studenti). Ha funzionato soprattutto come moltiplicatore delle diseguaglianze, perché si è inserito in un contesto sociale in cui la dispersione scolastica è fra le più alte in Europa, in cui fra i nuovi poveri aumentano i minorenni (bambini ragazzi e adolescenti) rispetto ad adulti e pensionati, in cui, come abbiamo già scritto, chi ha un titolo di studio “troppo alto” per il nostro mercato del lavoro emigra.

Le carenze nella dotazione informatica

L’Italia soffre di un gap di diffusione della banda ultralarga, necessaria per poter seguire le lezioni con i programmi adeguati. Il gap riguarda in particolare scuole e famiglie. L’ultima relazione annuale dell’Agcom quantifica in 17,4% la percentuale di edifici scolastici raggiunti dalla fibra Ftth. Con alcune regioni molto al disotto: Molise al 5,4%, Trentino Alto Adige e Calabria al 6%, Basilicata e Marche poco sopra il 9%. Stando al Desi Index 2020 sulla digitalizzazione dell’economia e della società, appena il 13% delle famiglie ha accesso alla banda ultralarga,. Manco a dirlo le famiglie con connessioni deboli o inefficienti sono quelle con genitori con basso titolo di studio, che quindi sono in difficoltà ad aiutare i figli a risolvere i problemi tecnici.

Nella relazione tecnica del DL Ristori, basata sui dati forniti dal MIUR, a settembre gli studenti senza tablet o PC erano 283.461 pc e ben 336.252 quelli senza alcuna connessione internet. In giugno del resto l’Istat aveva certificato che il 12,3% dei minori non ha un computer o un tablet in casa per seguire le lezioni a distanza (850 mila minori in termini assoluti), percentuale che arriva al 20% nel Mezzogiorno. Con le risorse del decreto Ristori, anche prosciugando la somma stanziata (85 milioni di €), si arriverebbe a fornire al massimo 211mila dispositivi digitali e 117mila accessi alla rete. Ma per averli le famiglie devono affrontare un percorso informatico spesso per loro scoraggiante. Alcuni istituti si sono attivati prima per affittare in leasing i PC, poi per aiutare le famiglie a procurarseli, ma tutto è stato lasciato alla sensibilità e alla buona volontà di docenti e dirigenti. A spese ovviamente degli alunni più fragili.

Le lacune nelle conoscenze informatiche

Sempre i dati del MIUR dicono che Il 57% di coloro che dispongono di un dispositivo digitale, lo deve condividere con altri componenti della famiglia per esigenze sia di studio che di lavoro. Solo il 30% dei ragazzi impegnati nella didattica a distanza, peraltro, presentava competenze digitali idonee all’uso delle piattaforme online. Due terzi hanno competenze più o meno elementari che vengono dall’uso degli smartphones (ed il 3% nessuna competenza).

Le stesse difficoltà si riscontrano sul fronte degli insegnanti, quasi 200 mila dei quali precari, pagati in modo irregolare, spesso domiciliati fuori casa, con connessioni fragili, PC inadeguati (per loro niente card docente). I corsi di formazione degli insegnanti per l’uso delle nuove tecnologie sono stati anch’essi affidati al “fai da te” delle scuole. All’inizio della pandemia, secondo un’indagine dell’Autorità delle comunicazioni, solo nell’8,6 per cento dei casi gli insegnanti le utilizzavano per attività progettuali a distanza, mentre per la maggioranza si tratta di consultare fonti o materiali digitali, compilare il registro elettronico o preparare powerpoint (la Voce 13 marzo 2020) . Hanno imparato dai colleghi più bravi, ingegnandosi in qualche modo. Secondo i dati del MIUR a settembre almeno il 10% dei docenti non era ancora in grado di fare didattica online.

Povertà di strumenti e povertà educativa

Questi dati ci devono far riflettere sul luogo comune che se diamo un mouse in mano a un bambino smanetta come un vecchio informatico. Le competenze non sono innate, vengono dal background familiare, dagli amici o dalla scuola. Secondo Unioncamere nel 2018 si sono persi oltre 1 milione i posti di lavoro a causa del disallineamento tra la domanda e l’offerta di lavoro; le imprese denunciano difficoltà a reperire personale con competenze soprattutto digitali. Le prove Invalsi 2019 hanno verificato impietosamente che alla Maturità 1 studente italiano su 3 non raggiunge il livello di sufficienza nella lettura e comprensione di un testo in lingua italiana, 2 su 5 nelle competenze matematiche. Ciò vuol dire che si può essere in possesso di un diploma ma non necessariamente si è in grado di comprendere il significato di un libretto di istruzioni o magari di un grafico matematico. Al Sud, neanche a dirlo, questi numeri quasi raddoppiano. Per questo i pedagogisti hanno creato il termine “povertà educativa”. E i diplomati dei professionali, oggi, hanno spesso meno competenze pratiche dei vecchi diplomati IPSIA perché semplicemente nei spesso non ci sono laboratori funzionanti, i macchinari su cui lavorano i ragazzi sono obsoleti ecc. E col Covid, anche quando c’erano e funzionavano, prima dell’estate non li hanno potuti usare, dopo sono stati a volte sacrificati per procurare nuovi spazi.

Una “generazione perduta”?

La Didattica a distanza ha aggravato le differenze sociali e di rendimento scolastico, la differenza fra chi ha dei libri in casa e chi no, fra chi ha una stanza tutta per sé e chi deve usare lo smartphone della mamma in cucina, mentre i fratellini giocano, fra chi ha genitori in grado di aiutarli e chi no.

Già a luglio gli insegnanti avevano lanciato l’allarme per diplomi di maturità 2020 poco spendibili sul mercato del lavoro. Quelli del 2021 rischiano di esserlo anche di più.

Durante il lockdown parziale di quest’autunno, con i genitori non più in smart working, è aumentato il fenomeno dei ragazzi in casa da soli davanti ad un pc, ufficialmente a lezione, di fatto in preda a social e videogiochi. Anche fornendo a tutti PC e connessione internet, pensare che 27 o 30 studenti, stiano tutti attenti o si autodisciplinino “a distanza” è evidentemente assurdo. Si sarebbe dovuto pensare a piccoli gruppi di studenti anche a distanza, in particolare per quelli con background culturali lacunosi. Quindi, comunque, si dovevano assumere insegnanti e personale ausiliario, trovare nuovi spazi, ridurre il numero degli alunni per classe, adattare davvero le metodologie didattiche digitali alle esigenze di apprendimento dei ragazzi invece che appiccicarle a classi, docenti e programmi pre-covid. 

Nel primo lockdown i più deboli e i meno attrezzati si sono persi per strada (secondo alcune stime della FLC i desaparecidos della scuola sono stati il 20% del totale, con punte del 40% nei professionali).Oltre alla perdita di apprendimento, il mancato accesso alla didattica per i bambini e gli adolescenti che vivono nei contesti più svantaggiati si può tradurre nella perdita di motivazione e in un isolamento che facilmente può portare all’aumento della dispersione scolastica.

Covid e abbandoni scolastici

Non ci sono dati diffusi e omogenei sul calo delle frequenze a ottobre rispetto all’anno scorso.

Ma la percezione degli insegnanti è che i ragazzi scolasticamente fragili, con famiglie in difficoltà economica, silenziosamente stiano abbandonando la scuola, andando ad ingrossare le fila dei Neet, quei giovani che non studiano, non lavorano e nemmeno frequentano corsi di formazione.

Anche prima del Covid la dispersione scolastica in Italia era significativa, anche se in calo. Nel 2018 il 13,5% degli studenti ha abbandonato gli studi prima di aver assolto l’obbligo scolastico (che si colloca a 16 anni). Il 24,7% ha lasciato gli studi prima di aver preso un diploma o una qualifica, un fenomeno che ha ragioni culturali e sociali, ma anche economiche (rielaborazione Ufficio Studi della Cgia di Mestre – nota 1).

No0n è, evidentemente, senza conseguenze il fatto che, nel 2018, in Italia,1 milione e 137 mila minori (l’11,4% del totale) si trovavano in condizioni di povertà assoluta, senza avere cioè lo stretto necessario per condurre una vita dignitosa (nota 2).

L’uscita precoce dagli studi è molto più frequente tra i giovani stranieri: abbandona il 36,5% contro l’11,3% degli italiani Le loro famiglie non a caso si collocano prevalentemente nelle fasce di reddito più basse, con la necessità di far lavorare presto i figli. Prima dei 18 anni lavora il 44,1% dei ragazzi immigrati contro 32,7% degli italiani, che solo in piccola parte abbandonano la scuola perché trovano un lavoro.

Tutto questo produce i NEET. In Italia il 22,2% dei giovani fra i 14 e i 29 anni è Neet, cioè non studia, non lavora, non frequenta nemmeno un corso professionale. Più di due milioni di giovani su una fascia d’età di 9,1 milioni. Il dato nasconde il gender gap: le ragazze sono il 24,3%, contro il 20,2% dei maschi. (vedi RIQUADRO Gender GAP)

Siamo certi che la Didattica a distanza ha arricchito i giganti del web che si stanno scontrando per conquistare posizioni di egemonia all’interno del redditizio mercato scolastico dell’e-learning. E’ ancora poco evidente invece cosa ha prodotto fra i nostri giovani. Solo fra mesi

misureremo le conseguenze, in termini psicologici ma anche di formazione, per l’assenza di scuola, in tutte le sue declinazioni. Qualcuno recupererà, ma non tutti. E a pagare di più saranno i figli degli immigrati e dei lavoratori a basso reddito. E lo pagheranno prevedibilmente per tutta la vita. Anche in questo caso il volto classista della nostra società a “capitalismo maturo” si rivela in tutta la sua miseria – nota 3.

Sarebbe ingenuo pensare, come molti hanno creduto negli anni ’70, che la scuola possa cancellare le differenze sociali, economiche ecc. Ma i lavoratori che mantengono questa società col loro lavoro, siano uomini o donne, italiani o stranieri, hanno diritto che i loro figli ricevano un’istruzione decente e gratuita. Grazie alla quale magari siano per lo meno facilitati a difendere i loro interessi.


Nota a margine

E i lavoratori della scuola?

Già in estate i soliti esperti sulle solite reti televisive hanno sproloquiato sui privilegi degli insegnanti, che comodamente seduti a casa loro, lavorando per modo di dire, senza rischiare il Covid, hanno preso lo stipendio per intero, mentre i lavoratori del privato o rischiavano spesso la vita, perché costretti a lavorare senza protezioni adeguate, o se in cassa integrazione hanno percepito spesso circa metà di quanto prendevano in presenza. Queste affermazioni non avevano lo scopo di garantire meglio la salute e il reddito dei lavoratori privati, ma erano funzionali a preparare il terreno a una preintesa sulla scuola, firmata dai Confederali, Gilda, Snals e Anief (il sindacato della ministra Azzolina), che restringe pesantemente il diritto di sciopero. In cambio, per i lavoratori della scuola, niente contratto (fermo da due anni). Per i precari niente assunzioni e concorsi a metà. Anzi per alcuni la beffa dei contratti a tempo determinato cosiddetti covid. E infine nell’aria la minaccia di ridurre ulteriormente gli organici, grazie alla drastica riduzione del tempo scuola mascherato da novità didattica.

Per un approfondimento rimandiamo al prossimo articolo.


RIQUADRO 1 – STUDIO E LAVORO, il GENDER GAP

Il Covid inciderà pesantemente anche su dispersione scolastica e futuro lavorativo delle ragazze.

Prendiamo spunto dall’11° Atlante dell’Infanzia di Save the Children, intitolato quest’anno «Con gli occhi delle bambine». Il volume si occupa di tutto il mondo e quindi denuncia l’aumento dei matrimoni forzati e delle gravidanze precoci conseguenza delle difficoltà economiche dovute al Covid.

Per l’Italia l’attenzione si concentra sul percorso di studi e sulle conseguenze al momento di entrare nel mondo del lavoro. Abbiamo già citato che una ragazza su quattro si trova, fra i 14 e i 29 anni, nel limbo dei Neet ( contro 1 maschio su 5); questo a livello nazionale, ma poi ci sono i picchi di circa il 40% in Sicilia e in Calabria. Anche nelle regioni “più virtuose” il gap resta. Nel Trentino Alto Adige a fronte del 7,7% dei ragazzi Neet, le ragazze inattive sono quasi il doppio (14,6%). In Toscana abbiamo il 18% delle ragazze contro il 13,7% dei maschi.

Eppure Le ragazze studiano più dei maschi, con voti più alti, meno bocciature e meno abbandoni scolastici. Nella fascia d’età 30-34 anni, è laureato il 34% delle donne e solo il 22% dei maschi.

Per le ragazze lo studio è ancora una conquista sociale. Ma questo non facilita il loro ingresso nel mondo del lavoro. Nella stessa fascia d’età lavora il 76% delle donne laureate contro l’83,4% dei maschi, mentre tra le giovani diplomate le occupate sono solo il 56,7% a fronte dell’80,9% dei coetanei maschi. Tra quelle senza un diploma di scuola superiore, lavora solo un esiguo 36,3%, a fronte del 70,7% dei coetanei maschi. Non solo. In media salari e stipendi sono inferiori di un buon 15-19%, fatte salve scuola e pubblica amministrazione. Possiamo dire che se in generale la scuola italiana non funziona molto come ascensore sociale, per le donne questo è ancor più vero. Non è senza importanza che è fra i 30 e 34 anni che la maggior parte delle donne italiane mettono al mondo il primo figlio.

E’ altamente probabile che, se negli anni ’60 e ‘70 il boom economico ha permesso alle donne le conquiste che tutti conosciamo, il periodo di crisi che si delinea come conseguenza del Covid rischia di essere pagato duramente dalle donne, a meno di un impegno sindacale e politico accresciuto.


NOTE

Nota 1: Nel 2000 aveva abbandonato il 36,7% dei giovani. Il dato medio nei 23 anni che intercorrono fra il 1995 e il 2018 è stato del 30,6% Quindi è migliorato rispetto al passato ma non nella misura richiesta dalla UE (che imponeva di ridurre la quota della dispersione al 10% della fascia d’età). Come blocco a 28 la UE ha raggiunto il 10,6 nel 2018 e non solo grazie ai “paesi ricchi”, se si tiene conto che il dato è molto più basso per Croazia (3,3%), Slovenia (4,2%), Lituania (4,6%), Grecia (4,7%), Polonia (4,8%) e Irlanda (5%).

Nota 2: A questo dato va aggiunto quel 22% dei minori, quindi più di 1 su 5, che vive in condizioni di povertà relativa, con la solita variabilità regionale per cui si va dall’8,3% del Trentino Alto Adige al 42,4% della Calabria.

Nota 3: cfr. fra tanti http://www.labottegadelbarbieri.org/con-la-didattica-a-distanza-vince-la-finzione-didattica/