Dall’Iran alla Tunisia, dal Sudan al Venezuela, esplode la protesta contro il carovita e i governi reazionari

Manifestanti a Tunisi. (FETHI BELAID/AFP/Getty Images)

Le manifestazione, la rivolta, sono spontanee, protagonisti sono i giovani e giovanissimi.

Dell’Iran si è già scritto, poco filtra dalla pesante censura che il governo esercita con la complicità dei vari Google, Telegram ecc (a proposito di Internet “che rende liberi”), nell’intento di isolare la protesta e schiacciarla con gli arresti, la tortura, le esecuzioni sommarie, ma anche il silenzio e l’isolamento internazionale.

Tuttavia le feroci dichiarazioni del governo confermano che la protesta continua.

Su una cosa tutte le fonti sono d’accordo, cioè la profonda differenza fra queste proteste di piazza da quelle del 2009. Là si erano mossi principalmente gli abitanti della capitale e strati di classe media, per richiedere le basilari libertà civili e politiche.

Qui si sono mossi gli strati profondi di numerose città di provincia e i lavoratori rurali espulsi dall’agricoltura, in lotta per la sopravvivenza, contro la disoccupazione (24% in media, 40% fra i giovani), l’inflazione a due cifre, l’ingordigia dei padroni di stato (le circa 300 famiglie, dai conservatori ai riformisti) che monopolizzano il potere politico e si sono impadroniti dei profitti ancora in forte crescita dopo l’accordo firmato con Obama. Asia Times sottolinea la prevalenza in piazza di giovani, donne e uomini, sotto i 25 anni, che protestano anche contro le spese militari e le missioni militari in Libano, Siria, Iraq, Yemen, spese che vanno a detrimento dei sussidi per i più poveri, della fornitura d’acqua (50 milioni di iraniani hanno accesso solo saltuario all’acqua potabile) e delle pensioni (pagate in modo irregolare), per non parlare del decadimento delle strutture sanitarie e dell’assistenza. Nessuna frazione della borghesia li ha appoggiati (anche se Ahmadinejad è stato messo agli arresti domiciliari) perché è in gioco non come gestire il sistema, ma il sistema, lo sfruttamento nel suo complesso.

Non si era ancora spenta l’eco della rivolta in Iran che è scoppiata il 9 gennaio quella in Tunisia.

Già nel 2013 in 3 giorni di protesta contro le dure condizioni economiche erano stati uccisi 140 dimostranti. Altre proteste hanno punteggiato il 2015, inframmezzate da scioperi nel settore tessile. Laboratorio delle primavere arabe, primo paese nordafricano a cacciare il proprio dittatore, anche la Tunisia vede i propri lavoratori schiacciati dal carovita e in particolare i giovani impossibilitati a trovare lavoro. A Tunisi e a Tebourba i giovani “sono scesi in strada lanciando pietre contro la polizia, dando alle fiamme cassonetti, pneumatici, perfino caserme della polizia” (Il Sole 24 Ore 10 Gennaio 2018). La rivolta è presto dilagata a Beja a Testour, Sfax, Meknassi, Sidi Bouzid, Ben Arous, Kebili, Nefza, Sousse. La scintilla è stata la nuova legge finanziaria che prevede il taglio dei sussidi sul gas domestico e carburante e nuove tasse su carte telefoniche, internet, camere d’albergo, frutta e verdura, carne e cereali (si calcola un aumento mensile per una famiglia media di 100$).

Governo e opposizione islamica (Ennada) hanno condannato le manifestazioni, la polizia ha reagito duramente, una persona è morta, 200 gli arrestati, fra cui, secondo il Washington Post (9 gennaio 2018), avvocati impegnati in controversie sindacali e dirigenti di partiti di sinistra. Solo il Fronte Popolare, un raggruppamento di 12 organizzazioni di sinistra di varia tendenza ha chiesto al governo di tornare sui suoi passi, evocando lo spettro dei moti del pane del 1984 (nota 1). Ma sul governo premono i diktat del FMI, che può imporre un aumento degli interessi sul debito.

I salari in Tunisia sono intorno ai 160 $ al mese, mentre il minimo vitale per una famiglia di 3 persone è di 240$ (New York Times 9 gennaio 2018). Il tasso di analfabetismo è cresciuto al 32%, la disoccupazione giovanile è del 35%, il 40% della popolazione non ha accesso all’acqua potabile, l’assistenza sanitaria non è più gratuita, nelle famiglie di lavoratori manuali si consuma carne una volta al mese.

L’Huffington Post (9 gennaio 2018) parla di piazze gremite di giovani sotto i 35 anni, tutti diplomati o laureati e disoccupati. Uno degli slogan era “vogliamo vivere con dignità” oppure “io non perdono” (in riferimento alla corruzione dilagante) e anche “che cosa stiamo aspettando?”. Le manifestazioni hanno riguardato i quartieri operai di Tunisi come Djebel Lahmer e Zahrouni, ma anche le città e i villaggi industriali dell’interno.

Di fronte a condizioni di vita in costante peggioramento la corrotta burocrazia che guida la centrale sindacale UGTT tenta più che altro azioni di pompieraggio.

In Sudan la protesta è partita il 7 gennaio da Sennar, nel sud est del paese e ha rapidamente guadagnato Khartum e molte città del sud, fra cui la capitale del Darfur occidentale, El-Geneina, ma anche Nyala e Al Damazin. Anche qui la reazione della polizia è stata brutale. Uno studente è stato ucciso e molti manifestanti feriti. Anche qui le proteste nascono dal taglio dei sussidi al prezzo del pane, che è raddoppiato. Il governo in modo preventivo aveva chiuso le sedi di almeno sei giornali non allineati e arrestato giornalisti e attivisti politici e sindacali. I manifestanti hanno invece eretto barricate con pneumatici in fiamme e bloccato strade. Nel 2013 analoghe proteste scoppiarono per l’aumento dei prezzi del carburante, provocando 80 morti. Meno sanguinose ma altrettanto estese per lo stesso motivo le proteste nel 2016. Con questi movimenti di protesta riemerge la lotta di classe in una regione scossa dalla guerra degli imperialismi e delle potenze regionali, che fomentano deliberatamente i conflitti settari.

Intanto in Venezuela continuano le agitazioni, prosecuzione delle proteste del 2017. Il sito WSWS (10 gennaio 2018) ricorda negli stessi giorni lo sciopero dei dipendenti comunali e delle fabbriche farmaceutiche in Israele, oltre allo sciopero degli operai Ford in Romania, allo sciopero dei metalmeccanici tedeschi, dei ferrovieri inglesi e degli operai dell’auto in Francia.

Il denominatore comune è il peggioramento del reddito e delle condizioni di vita dopo anni di crisi che hanno aggravato le differenze fra strati privilegiati ad alto reddito e lavoratori.

In molti casi i governi accusano fantomatiche forze straniere di seminare zizzania nei loro paesi; in quasi tutti i casi invece le proteste sono spontanee e purtroppo non sempre organizzate e coordinate. Con ovvie infiltrazioni da parte di forze politiche che vi vedono un’occasione di raccogliere adesioni. E’ il caso della presenza in Iran di qualche striscione nostalgico che inneggia allo scià, o delle derive antisemite di qualche gruppo a Tunisi. Sia in Tunisia che in Sudan frange aderenti all’Isis potrebbero inserirsi nel malcontento.

Quello che purtroppo manca è l’attenzione e la solidarietà del resto del movimento operaio. Questo è estremamente evidente in Italia, la cui borghesia fa affari nei paesi citati. E questo spiega l’atteggiamento prevalente della stampa, preoccupata per le sorti
“dei nostri investimenti”, oppure timorosa di una eventuale nuova ondata di immigrati, non certo delle condizioni miserevoli di vita dei lavoratori. L’Iran è “una miniera d’oro per le industrie italiane” (Calenda) è la “nuova frontiera del business” (Vincenzo Boccia): non c’è pericolo che davanti al governo forcaiolo e guerrafondaio di Teheran i Paperoni nostrani abbiano altro sentimento che di gratitudine purché mantengano l’ordine e… gli ordinativi. In Tunisia operano 850 imprese italiane (in vari settori manifatturiero, costruzioni e grandi opere, componentistica automotive, bancario, trasporti, meccanico, elettrico, agro-alimentare, farmaceutico), impiegando 60mila operai a basso o bassissimo costo. Anche qui si sprecano gli elogi per il democratico governo tunisino che ha aperto loro le porte concedendo vantaggi fiscali e agevolazioni commerciali.

E’ perciò compito nostro tenere viva l’attenzione sulle lotte della nostra classe nel resto del mondo, farla conoscere anche qui in Italia, organizzare dove possibile manifestazioni di solidarietà, protestare davanti alle ambasciate denunciando le torture a cui sono sottoposti gli arrestati (5 morti in Iran in prigione) e la costante repressione e chiedendo la liberazione dei prigionieri politici, sviluppare legami sovranazionali.


Nota 1: la Tunisia storicamente è stata spesso preda di carestie, anche in tempi recenti. Nel 1984 la regione di Kesserine alla frontiera con l’Algeria vide lo scoppio della “rivolta del pane” (cioè contro l’impennata dei prezzi di pane e couscous e contro le scelte liberiste del governo Bourghiba): i morti furono centinaia. Lo stesso avvenne nel gennaio 2011, quando la polizia sparò provocando decine di morti e bel gennaio 2016 quando scioperi e manifestazioni portarono a un nuovo intervento violento della polizia. La regione ha tradizioni di sinistra e i governi hanno spesso usato il pugno di ferro per domare le proteste. La classe operaia lavora nelle industrie medio-piccole che vi sorgono numerose (tessile, cellulosa ecc.). Vi lavorano numerose donne, per lo più in nero e per salari da fame. Anche Benetton vi ha fatto investimenti.