Decreto dignità: un restyling del Jobs Act e un regalino ai professionisti

Fra le ragioni che hanno spinto molti, che prima votavano “a sinistra”, a votare M5S era la promessa di un decreto che abolisse il Jobs Act.

Due erano i punti di sostanza: obbligare a motivare le cause del lavoro a termine per limitare il suo utilizzo ai picchi stagionali e alle sostituzioni, e obbligare al reintegro per licenziamenti senza giusta causa. Niente di tutto questo è presente nel nuovo “Decreto dignità”, che ritocca solo marginalmente l’impianto del Jobs Act, mantenendo precarietà e ricatti sui lavoratori, e favorisce semmai lo “scarico” del lavoratore dopo un anno anziché dopo tre.

L’opposizione parlamentare ha sottolineato che Di Maio si riprende con questo decreto un po’ di visibilità politica che fin’ora era stata appannaggio quasi esclusivo di Salvini; è probabile ma poco ci interessa dal punto di vista di classe.

Non bastano a dargli una patente di pro-lavoratori le lamentele di Confindustria e dei padroncini, o le acide critiche di PD e opposizione di destra.
L’unica critica di costoro è che i 900 mila contratti in scadenza a fine agosto (nota 1) potrebbero non essere rinnovati e che quindi, spaventando i datori di lavoro, si riduce l’occupazione.
Falso e ipocrita perché così si cerca di ridare verginità a quella “sinistra” che da Treu in poi ha massacrato contratti e garanzie con la scusa di favorire l’occupazione.
I datori di lavoro assumono se hanno la prospettiva di spremere profitto, naturalmente sono lieti di utilizzare giovani precari e mal pagati, ma negli anni scorsi come li hanno assunti altrettanto facilmente li hanno lasciati a casa.

In realtà il Jobs Act viene pienamente confermato nel suo impianto, che è di aver snaturato il lavoro a termine togliendogli la caratteristica di lavoro per situazioni eccezionali. Con il “decreto dignità il lavoro a termine resta una modalità “normale” di assunzione, quindi niente dignità per chi trova un nuovo lavoro. Il decreto mantiene infatti questa “a-causalità”, anche se “solo” per i primi 12 mesi, mentre dopo si deve motivare il rinnovo. Sappiamo già cosa succederà: un’azienda tenderà a sostituire il lavoratore dopo 12 mesi, anziché entro i 36 mesi… Per le cooperative che aprono e chiudono in 12 mesi poi, nessun problema. Senza contare che già adesso uno stesso gruppo gioca sulle diverse sue aziende per aggirare i limiti temporali ai rinnovi (cioè dopo l’ultimo rinnovo legale il lavoratore svolge lo stesso identico lavoro di prima sotto una diversa società del gruppo). Con questo sistema ci sono lavoratori/rici precari(e) anche da 10 anni in molti lavori.
La riduzione dei tempi e del numero delle proroghe (le proroghe dei contratti a tempo indeterminato non possono più essere 5 di fila per tre anni ma “solo” 4 per 2 anni) non cambia granché, soprattutto se i lavoratori sono lasciati a casa finito il primo anno. Non è un grande disincentivo il fatto che i contributi sociali aumentano dello 0,5% a ogni rinnovo.

Dopo che Di Maio si è fatto bello con i giovani dipendenti di Fedora, tutte le proposte relative ai riders, i dannati della bicicletta, sono state accantonate e rimandate al Parlamento.
Non si parla più di abolizione dello “staff leasing” (= lavoro a somministrazione), ovvero la possibilità che aziende assumano persone a tempo indeterminato per poterle poi ‘girare’ ai propri clienti attraverso contratti di somministrazione. Ma mentre prima il lavoro a somministrazione in una azienda non poteva superare il 20% del totale dei contratti in essere, ora il decreto propone di togliere questo limite.
Assolutamente non si parla di ripristinare il reintegro per chi viene licenziato senza giusta causa,
ma si alza il costo di licenziamento dei contratti a tempo indeterminato (l’indennità viene aumentata del 50%, da 6 a 36 mensilità mentre prima era da 2 a 24 mensilità .

Dulcis in fundo Salvini ha già parlato di reintrodurre i voucher (anche se adesso il suo problema urgente è come farà a ridare allo stato i 49 milioni che la Lega ha truffato allo Stato).

Il decreto non manca di premiare, sotto la foglia di fico della dignità, i professionisti, che potranno evadere un po’ di più (abolizione dello split payment, cioè la trattenuta diretta dell’IVA sulla fattura) e i lavoratori autonomi in genere con il rinvio da febbraio a settembre della presentazione delle fatture (il cosiddetto spesometro).

E’ presto per dire quanto resterà delle pur limitate misure proposte dal decreto e quali modifiche verranno introdotte in Parlamento, per cui ci riserviamo di tornare sull’argomento quando il testo sarà definitivo. Per ora, così com’è, il decreto si riduce a un’operazione di restyling, almeno per quanto riguarda il Jobs Act.

Del resto da questo punto di vista non avevamo illusioni. Sappiamo che l’unico modo di riconquistare in maniera duratura i diritti dei lavoratori è la lotta, una lotta che unisca i lavoratori al di là delle differenze di nazionalità, contratto e appartenenza sindacale.

Per questo siamo stati in piazza sabato 7 luglio alla manifestazione promossa dai sindacati di base.


Nota 1: Secondo le stime del centro studi Datagiovani per Il Sole 24 Ore sono esattamente 892mila, mentre altri settecentomila scadono a fine anno. Il totale dei contratti precari è di 2,86 milioni.
Di utile il Sole pubblica una tabella di specifiche sui 900 mila.