DI NUOVO IRAQ PER L’IMPERIALISMO ITALIANO

Scrivevamo in un precedente articolo che la guerra in Ucraina consente al governo italiano di sdoganare l’aumento della spesa militare al servizio della propria proiezione internazionale, nei numerosi teatri di guerra in cui è impegnato con le 40 missioni “di pace” approvate nell’agosto 2021

Una di queste è in IRAQ, da cui l’Italia non è mai partita e in cui è presente come membro della missione internazionale Inherent Resolve, ma anche della missione Nato e nella missione della UE (EUAM Iraq). Una e trina insomma (nota 1).

Dal 2003 ci abbiamo speso 3,694 miliardi, e qui il “noi” è d’obbligo perché la spesa ha gravato sui redditi dei lavoratori italiani (nota 2).

Nel 2021 l’Italia impegnava in Iraq 1100 militari, 270 mezzi terrestri e 12 aerei, schierati tra la base di Erbil (Kurdistan iracheno) e quella di Baghdad.

La novità è che nel maggio 2022 l’Italia prenderà il comando della missione Nato in Iraq, pur conservando la guida della missione Onu in Libano (Unifil), di quella Nato in Kosovo (Kfor) e di Eunavformed Irini nel Mare Mediterraneo.

L’operazione è stata definita nel corso dei 4 viaggi in Iraq compiuti dal Ministro della Difesa Guerini nel corso del 2021 e durante la visita a Roma del premier iracheno Mustafa Al- Kadhimi, accompagnato dal ministro della Difesa Jumaah Enad, che hanno messo a punto il progetto con Draghi. In vista del nuovo ruolo l’Italia riduce la quota nella missione Onu a 900 uomini, li aumenta a 280 nella missione Nato, che attualmente dispone di 500 uomini impegnati in operazioni di training, intelligence e consulenza

Questo comando della missione Nato è una patata bollente lasciata in regalo dagli Usa, un prestigioso riconoscimento o un interesse strategico dell’imperialismo italiano?

Probabilmente tutti e tre in diversa misura.

L’Iraq fornisce comunque il 17% del petrolio consumato dall’Italia. I buoni rapporti stabiliti ad Erbil con il governo curdo di Barzani potrebbero fruttare ulteriori rifornimenti in sostituzione del petrolio russo. Oltre all’Eni, molte grandi aziende premono per poter procedere ad investimenti nelle infrastrutture soprattutto idriche (dighe, ma anche impianti di irrigazione, fognature e rifornimento acqua potabile). Molte opportunità ci sarebbero anche per la ricostruzione di strade, ponti ecc.

Biden vuole ritirarsi dall’Iraq dove la missione Usa è sempre più nel mirino delle milizie filoiraniane dopo l’assassinio di Qassem Soleimani nel gennaio 2020. Mustafà Kadhimi e Biden hanno firmato nel marzo 21 un accordo che prevede il ritiro completo delle forze combattenti Usa e una presenza ridotta nella missione Nato.

Il tutto è avvenuto sottotraccia. In fondo l’Italia metterebbe 80 soldati in più e sostituirebbe la Danimarca in un cambio di comando di routine.

Ma l’incarico non sembra proprio di routine: “addestrare le forze locali e fornire loro supporto nella lotta all’Isis” “rafforzamento della sicurezza dei confini” “ripristino della sovranità dello Stato iracheno, lotta alla corruzione, ripristino dello stato di diritto, protezione dei civili, in particolare donne e bambini.” Un po’ troppo per 500 uomini.

Ufficiosamente si vocifera che il contingente Nato passerebbe dagli attuali 500 a 4 mila uomini, su richiesta del governo iracheno, assumendo anche compiti di intervento militare diretto. Le Forze Armate italiane in Iraq sarebbero dotate di una flotta di Hero-30, i cosiddetti droni Kamikaze in funzione del “mutato scenario operativo in Iraq”.

Per decodificare queste informazioni, occorre tener presente che di fatto l’Iraq è ancora un mosaico di territori che poco o nulla rispondono allo stato centrale, che ha un governo non legittimato e non funzionante.

Le elezioni politiche dell’ottobre 2021 sono state impugnate dai partiti filo-iraniani, usciti fortemente ridimensionati. Una commissione di verifica ha ribadito i risultati che vedono come primo partito quello di Muqtada al Sadr, con 73 seggi, ma su un totale di 329. Una coalizione di governo non è ancora decollata, la classe politica è del tutto screditata, il Parlamento non si riunisce. Senza contare che alle elezioni ha partecipato solo il 41% dei 22 milioni degli aventi diritto (su 42 milioni di abitanti). I giovani si sono astenuti in massa (ogni anno entrano sul mercato del lavoro 700 mila giovani, che puntualmente restano disoccupati). Dopo la feroce repressione del 2019-20 con più di mille morti, il governo continua ad essere una consorteria clientelare e parassitaria che non garantisce nessun servizio minimo alla popolazione, mentre il coronavirus e la crisi economica imperversano. Il 70% del budget iracheno è assorbito dagli stipendi e dalle prebende per i dipendenti pubblici, per i quali la corruzione è normale metodo di funzionamento delle istituzioni (cfr PM n.48 gennaio 2020 Iraq, una rivolta che viene da lontano).

Quanto allo stato di diritto ogni partito ha la sua formazione militare, ma le più minacciose sono quelle dei partiti filo iraniani. I gruppi armati operano ad di fuori del controllo dello stato, torturano e uccidono impunemente. Molti di essi, soprattutto quelli filo iraniani sono stati incorporati nelle milizie regionali e nazionali; quindi possono in modo assolutamente legale schiacciare le proteste sociali, ma anche chiunque voglia affrancare il paese dall’ingerenza iraniana.

Qualsiasi tentativo di ripristinare le prerogative dello stato provocherebbe le razioni non solo degli strati parassitari che sguazzano nello stato attuale delle cose, ma anche dell’Iran che potrebbe scatenare le sue milizie. Qualsiasi tentativo di trattare con i Curdi, riconoscendoli come legittimi proprietari dei loro giacimenti scatenerebbe le proteste non solo diplomatiche della Turchia. Ma anche dell’Iran che vede nel Kurdistan un concorrente pericoloso sul mercato del petrolio, non solo rispetto all’Europa, ma anche rispetto alla Turchia e allo stesso Iraq (nota 3).

Molti commentatori ritengono che l’ISIS sia tutt’altro che morta, che la minaccia terroristica sia ancora attuale, che la classe politica non sia riformabile. Una situazione a cui non si può far fronte con i numeri e le regole d’ingaggio attuali del contingente Nato.

L’Ispi suggerisce di far fronte comune con la Francia, presente con 600 soldati e interessata a un contratto di estrazione petrolio a Bassora da 27 miliardi di $. La Francia potrebbe garantire la difesa aerea.

Di qui il commento di molti giornali pacifisti sul rischio “impantanamento” dell’Italia in Iraq, quel “paradiso democratico” lasciato in eredità dalle guerre umanitarie dell’Occidente. E la cosa non si risolve uscendo dalla Nato: l’Italia non si lancia in pericolose avventure imperialiste perché è nella Nato, ma è nella Nato perché è a tutti gli effetti un paese imperialista, meno potente degli Usa, ma non meno rapace all’esterno e sfruttatore all’interno. Se si alza il livello dello scontro imperialistico, si spende di più in armi.

Noi possiamo denunciarlo, ma è lottando per i diritti dei lavoratori che limitiamo il danno.

NOTE:

Nota 1) Per i più giovani ricordiamo che l’Italia partecipò fra il 2003 e 2006 all’attacco contro l’Iraq di Saddam Hussein sulla base delle false accuse inglesi del possesso di “armi di distruzione di massa”. L’operazione si chiamava Antica Babilonia, provocò centinaia di migliaia di morti, culminò per l’Italia nella strage di soldati italiani a Nassirya, dove l’Italia sperava di garantirsi lo sfruttamento dei pozzi di petrolio che invece andarono ai giapponesi. In cambio spendemmo un miliardo e mezzo di € e contribuimmo ai 150 mila morti civili accertati oltre a un numero anche più elevano di mutilati e invalidi permanenti. Dal 2004 l’Italia partecipa alla Nato Training Mission Iraq (che finisce nel 2011). Torna con le forze ONU (70 paesi) nell’ottobre 2014 per combattere l’ISIS (nata nelle prigioni gestite dagli Usa in Iraq). L’operazione si chiama Prima Parthica, la missione Inherent Resolve, che si svolge anche in Siria. È tuttora in corso. Nel 2018 l’Italia entra nella seconda Nato Mission Iraq che si occupa di operazioni di intelligence e di addestramento di ufficiali e truppe irachene. La partecipazione alla EUAM Iraq varata nel 2017 per proteggere i civili e le opere d’arte è simbolica (2 unità).

Nota 2) nello specifico 1,528 miliardi di € per Antica Babilonia (2003-6), 50 milioni per Nato training (2004-11), 755 milioni per Prima Parthica (2014-2017) 918 milioni per la Coalizione anti Isis (2018-21) 20 milioni per la seconda missione Nato del 2018 e 460 milioni per la missione della UE in Iraq. Nota 3) Usa e altri paesi fra cui l’Italia dal 2014 hanno addestrato 250 mila soldati iracheni, ma ovviamente non hanno inciso sulla loro fedeltà al governo centrale. Lo dimostra anche un episodio recente, relativo alla guerra in Ucraina e denunciato dal Guardian. L’Iran sta sostenendo lo sforzo bellico del Cremlino con la fornitura di missili anticarro, lanciarazzi multipli e granate. Sono armi in dotazione all’esercito iracheno, molti forniti dalle coalizioni occidentali, che vengono trafugate dai militanti del gruppo sciita Hashd al-Shaabi, regolarmente inquadrati nell’esercito iracheno, inviati attraverso corridoi sicuri in Iran, che li passa ai russi via mar Caspio. Un percorso più breve che non far arrivare le stesse armi da aree russe. https://www.fanpage.it/esteri/la-russia-riceve-armi-dalliraq-con-laiuto-di-contrabbandieri-iraniani-per-la-guerra-in-ucraina/

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