È un governo trumpista, piccolo, ma pericoloso. Contro cui lottare, senza se e senza ma.

Ha ragione Bannon, lo stratega dell’elezione di Trump alla Casa Bianca: la formazione del governo Lega-Cinquestelle non è solo un fatto italiano, è anche, e forse soprattutto, un evento della politica mondiale perché preannuncia un terremoto in Europa. L’euforia per quello che considera un suo successo personale, lo ha portato a dire: “Avete dato un colpo al cuore della bestia dell’Europa” (si riferisce alla Germania) e ai “fascisti di Bruxelles” (la Commissione Juncker). Fatta la tara, rimane un dato di fatto che è sfuggito a tanti: intorno alla formazione del nuovo governo italiano Lega-Cinquestelle si è combattuto un furioso scontro internazionale, che dice molto sul nostro futuro.

Il furioso scontro tra Stati Uniti e Germania/UE

Del resto, nei giorni convulsi della crisi politico-istituzionale, Mattarella l’ha ammesso apertamente quando ha dichiarato: “io sono tenuto a tutelare gli interessi degli investitori italiani e stranieri, degli operatori economici e finanziari che hanno in mano i titoli del debito di stato e le azioni delle aziende”. Ovvero: il potere politico nazionale, e quindi la formazione del governo, è subordinato al potere dei mercati finanziari e dei capitali globali, che mi (a me-Mattarella) hanno imposto il veto a Savona come ministro dell’economia. Attenzione: i capitali globali, e non soltanto europei. La borsa di Milano è in mano a 4 potenze finanziarie, tre delle quali non sono né tedesche né francesi, bensì statunitensi – il fondo Elliot, la Berkshire Hathaway di Buffet e Blackrock, la più grande società di investimenti del mondo, che gestisce 6.000 miliardi di dollari -, mentre la quarta è il fondo sovrano della Norvegia, uno stato che non fa parte dell’UE, né ha l’euro come moneta. E del 33% del debito di stato in mano estera, una buona quota è detenuta da avvoltoi non europei. È logico supporre che siano stati la BCE e il governo tedesco a porre il veto su Savona come ministro dell’economia, per le sue dure critiche all’euro e alla politica tedesca. Anche il FMI e gli “investitori internazionali” basati a New York, però, non vedono con favore l’ipotesi di un immediato sconquasso dell’area euro. Per ragioni differenti da quelle franco-tedesche, il veto di Mattarella è andato bene anche a loro in quanto è stato un secco avvertimento ai nuovi governanti di Roma: sia chiaro, il club dei creditori globali è sovrano sulla politica italiana. Punto. Questo è il capitalismo reale. Tenetelo bene a mente, voi di Lega/Cinquestelle e voi elettori italiani.

Grazie a Mattarella, dunque, per la sua mezza confessione. L’altra metà della verità, che ha taciuto, è questa: il furioso scontro internazionale che si è svolto intorno alla nascita del nuovo governo è del tutto interno all’Occidente. Naturalmente la Russia di Putin ha salutato con favore la nascita del nuovo governo, e sono noti i buoni rapporti tra la Lega (e le destre europee anti-UE) e Mosca, che sembra sia generosa con loro in fatto di finanziamenti. Tuttavia è evidente che nel processo di formazione del governo Lega-Cinquestelle l’intervento più pesante è avvenuto da parte dei circoli dominanti occidentali, e il conflitto più acuto è stato ed è tra la Washington di Trump e l’Europa di Merkel e Macron. Del resto Salvini, assai più lucido dei suoi replicanti “sovranisti” di sinistra, così invasati dalla guerra all’euro e ai tedeschi da dimenticare l’esistenza di quisquiglie come Wall Street e la NATO, l’ha detto chiaro e tondo: “Trump argina la prepotenza tedesca”.

Proprio di questo si tratta: della nuova contesa in Europa tra Stati Uniti e Germania.

Con la presidenza Trump e il suo America First, il grande capitale finanziario yankee, insediato fisicamente a Washington con uomini-chiave della Goldman Sachs, ha scatenato un’offensiva che non è solo contro l’asse in formazione Cina/Russia/Iran, è anche contro UE e Germania. All’ascesa vertiginosa della Cina come potenza globale in campo economico e politico, alla sua capacità di costruire intorno a sé una rete di alleanze sempre più ampia e solida intorno al progetto strategico della nuova via della seta, Washington può rispondere in modo vincente solo destrutturando l’UE attuale a guida germanica, bloccando con metodi brutali il pencolamento della Germania verso Est, e imponendo la ricontrattazione bilaterale dei rapporti dei singoli paesi europei con gli Stati Uniti. Dopo la Brexit e il sistematico sabotaggio svolto nella UE da alcuni paesi ex-membri del patto di Varsavia che sono la quinta colonna degli Stati Uniti all’interno dell’UE, ecco il turno dell’Italia. Ancora Bannon: “Roma è ora il centro della politica mondiale”. Un modo enfatico per dire: Roma è ora il centro dell’attacco di Washington alla tenuta unitaria dell’UE. Quanto è accaduto al vertice del G-7 di Charlevoix, con la lode sperticata di Trump a Conte, lo ha confermato in pieno. Del resto l’ambasciatore Usa Eisenberg, anche lui un pescecane umano proveniente dalla Goldman Sachs, ha tenuto a rapporto prima delle elezioni sia Di Maio che Salvini (che in quella ambasciata è ritornato anche da ministro, a confermare gli strettissimi rapporti con l’amministrazione Trump), mentre nei giorni seguenti il fondo newyorkese Elliot sferrava un uppercut al finanziere francese Bollorè e ai suoi sogni di diventare il reuccio d’Italia.

Per i poteri forti statunitensi un governo italiano che per la prima volta ventila la possibilità della uscita dell’Italia dall’euro è oro che cola. Mattarella e i super-poteri europei dietro di lui hanno impedito uno smacco troppo duro per il duo Berlino/Parigi, ma Bannon ha buoni motivi per essere su di giri. La Spagna è minata dalla questione catalana e ha un debolissimo governo di minoranza; i paesi di Visegrad fanno blocco contro Bruxelles e la Merkel sulla politica migratoria; in attrito con Berlino, Macron scalpita per imporre una politica estera dell’UE del tutto favorevole alla Francia; la BCE sta per chiudere il QE; i più fanatici supporter italiani dell’euro, il Partito democratico e Forza Italia, sono stati disarcionati, e al loro posto si è insediato un governo che vuol dare filo da torcere a Bruxelles e Berlino… c’è sufficiente caos in Europa, e specificamente in Italia, perché la strategia anti-UE di Trump e dei suoi proceda senza grossi intoppi.

È l’inizio di un ciclo neo-protezionista?

Il punto-chiave è questo: l’avvento di Trump alla Casa Bianca e la sua politica, non solo declamata, America First segna una svolta nell’economia e nella politica internazionale perché prelude alla intensificazione dei conflitti tra i grandi attori dell’economia mondiale. È la fine dell’era neo-liberista e l’avvio di un ciclo neo-protezionista? La decisione di Washington di imporre dazi in più direzioni, anzitutto contro la Cina, è un importante indizio in questo senso. Vedremo se produrrà una valanga inarrestabile di risposte e contro-risposte oppure no. In ogni caso una cosa è certa: gli Stati Uniti sono stati obbligati a muoversi in questa direzione dalla loro progressiva perdita di peso negli affari internazionali a favore della Cina, e dalla pericolosa, estrema polarizzazione sociale in atto oltre Atlantico. A questi due processi l’amministrazione Trump intende reagire attraverso misure aggressive contro i paesi e le economie concorrenti che tutelino gli interessi di “tutti” gli statunitensi con un occhio speciale – questa è la sua demagogica promessa – ai più colpiti.

Perché obbligati? Perché davanti a noi non c’è alcuna prospettiva di grande rilancio del processo di accumulazione del capitale, bensì il crescente rischio di una nuova ricaduta nella recessione. La grande crisi esplosa nel 2008 è stata tamponata, drogata, soprattutto in Occidente, dall’iperbolico indebitamento statale e privato che non è riuscito, però, a far decollare gli indici della produzione. E questo, nonostante il quasi azzeramento del conflitto nei luoghi di produzione del valore. Benché sia ancora dinamico sul terreno dell’innovazione tecnica, il capitalismo non può variare le sue leggi di funzionamento. E in presenza di una situazione del genere, non conosce altre vie oltre quella (solita) che ha già imboccato: la competizione scatenata di tutti contro tutti, e il rilancio del militarismo, da Washington a Tokio, passando per Roma, Berlino, Riad e Pechino, in vista di nuovi scontri bellici a più ampia scala. Le guerre “locali” non hanno risolto il problema globale dell’insufficienza di profitti. Per far ripartire alla grande l’accumulazione serve una distruzione di valore (impianti, macchinari, città, uomini) di proporzioni inimmaginabili.

La nascita del governo Lega-Cinquestelle è parte di questo contesto internazionale da cui è e sarà largamente determinato. Ecco perché è grottesca la assicurazione di Bagnai, il guru dei sovranisti di sinistra (oggi senatore leghista, ed è giusto così, è quello il suo posto), secondo cui “la fine della moneta unica salverebbe democrazia e benessere in Europa”. Oh che tu dici, grullo d’un Bagnai! In che mondo vivi? Assai più concreto il suo capo Salvini, che propone il ritorno alla leva obbligatoria, e con maggiore serietà della sua recluta, sa nominare i reali termini del dilemma: Washington, Berlino, Mosca. Per l’Italia, l’alternativa euro sì, euro no, sta dentro una scelta strategica che sarà nei prossimi anni obbligata e lacerante: o con il polo raccolto intorno a Washington, o con il polo contrapposto a Washington. E la scelta non avrà per oggetto il benessere di cui cianciano gli imbonitori alla Bagnai bensì – se non saremo in grado di fermarla – una impressionante catena di scontri, distruzioni e lutti, e forme di governo ultra-repressive.

In questo che appare come l’inizio di un nuovo ciclo, le lacerazioni e gli scontri inter-capitalistici sono e saranno la norma. A cominciare dagli Stati Uniti, dove, oltre il conflitto senza esclusione di colpi tra il partito dei Clinton/Obama e quello di Trump, tra la Casa Bianca e alcuni potentati non allineati ad essa, sembrano convivere e competere nella stessa amministrazione Trump più linee, tutte volte a ristabilire il durevole primato statunitense nel mondo – cosa del tutto impossibile. E tale impossibilità oggettiva ha l’effetto di accrescere le tensioni e il caos dentro e fuori gli Stati Uniti. Figurarsi a Roma! Dove, non a caso, si è determinata la più lunga e complicata crisi politico-istituzionale degli ultimi 70 anni con la contemporanea esistenza per qualche giorno di tre governi (Gentiloni, Conte, Cottarelli). La soluzione faticosamente trovata, un piccolo governo imbottito di principianti, è solo provvisoria – benché non ci sia al momento una vera opposizione in parlamento e tanto meno un’alternativa di governo, né alcuna forma di opposizione da parte di Cgil-Cisl-Uil. Inizia una fase di grandissima instabilità, internazionale e nazionale, che metterà a dura prova il neonato governo e il suo premier.

Il “patriottismo laburista” (con un doppio inganno)

Tuttavia, attenzione a liquidare troppo in fretta l’asse Lega-Cinquestelle. A non credere che tutto sia cambiato perché nulla cambi, perché, dopotutto, saremmo di fronte a un governo simil-Cottarelli teleguidato dal FMI. Ancora una volta coglie bene il punto Bannon quando sottolinea il carattere internazionale dei movimenti e dei governi “populisti”, e vede nel governo italiano la concrezione romana di una tendenza internazionale esplosa per effetto della crisi del 2008 che ha “massacrato la classe media e l’uomo comune” (ossia il proletario, che per noi, ovviamente, è stato massacrato ben più della classe media). Dopo una crisi di quella portata, nulla può restare esattamente come prima. Neppure a Roma. Anche perché la classe media e “l’uomo comune” si sono fatti sentire in Italia, sia pure finora quasi solo nelle urne; e purtroppo con “l’uomo comune” proletario completamente alla coda delle mezze classi accumulative e salariate.

I “mercati finanziari”, ovvero la BCE e la ventina di banche e fondi di investimento che trattano all’ingrosso i titoli del debito di stato e i pacchetti azionari, ricatteranno con lo spread il nuovo governo affinché rientri totalmente nei ranghi: questo è sicuro. E già gli effetti di questi ricatti sono tangibili. Sarebbe ingenuo, però, immaginare che i vincitori del 4 marzo si ritirino precipitosamente su tutto il fronte e continuino in modo supìno le politiche di “austerità” dei passati decenni. La forza politica che guida il governo, indiscutibilmente la Lega, appare decisa ad alzare la voce in Europa, profittando dell’indebolimento tedesco, per recuperare margini di spesa statale, e usarli a favore della piccola-media industria del Nord ed eventualmente, con quello che resta, ridurre le tasse a “tutti”, limare la Fornero e introdurre una qualche misura di contrasto alla povertà, purché riguardi solo gli italiani d.o.c. La terza repubblica nasce appunto con la promessa di non essere la repubblica dei sacrifici per i tanti a favore delle élite (qual’è stata indubbiamente la seconda), e di essere, invece, la repubblica del “popolo”, dei “cittadini”, della restituzione al “popolo” dei “cittadini” di qualcosa del maltolto.

Va subito notato, però, ed è questo un primo terreno di attacco al governo Lega-Cinquestelle, che un aspetto essenziale della politica economica del nuovo governo, la politica fiscale, è perfettamente in linea con le politiche neo-liberiste dei governi precedenti. Anzi le radicalizza con l’abbinata pace fiscale-flat tax. Pace fiscale eterna perché nel contratto, oltre il maxi-condono ideato dal leghista Siri, bancarottiere, delocalizzatore di imprese, indebitato con il fisco per 150.000 euro (“onestà, onestà”…); oltre la flat tax, giustamente definita “parola chiave” della politica fiscale; c’è l’impegno solenne a “rifondare il rapporto tra stato e contribuenti”, ossia le piccole e medie imprese tentate dall’evasione, o specialiste nell’evasione. Da ora in poi, ha ribadito Di Maio alla Confcommercio e alla Confartigianato, via lo spesometro, via il redditometro, via gli studi di settore e ogni altro strumento che possa mettere in difficoltà le imprese. L’onere della prova va posto totalmente a carico dello stato, che deve agire con le imprese in modo bonario (“fisco amico”) e dovrà pagare loro i “danni cagionati da attività illegittima (in fase di accertamento e riscossione)”. Gli ultimi decenni di politica fiscale hanno beneficato in misura spettacolare le grandi imprese transnazionali, a cui sono stati lasciati amplissimi margini di elusione fiscale e accordati, anche con il programma industria 4.0, maxi-regali fiscali (le potenze del web come Amazon, Google, etc. sono state per anni addirittura esentasse). Lega e Cinquestelle intendono estendere alle piccole e medie imprese i favori fiscali assicurati alle grandi imprese dai Monti, Renzi, Gentiloni. Hanno voglia i capi del Pd a rivendicare a sé la riduzione dell’Ires dal 27,5% al 24%, il taglio del cuneo fiscale e altri regali a padroni e padroncini: il nuovo governo promette di andare molto oltre, abbattendo l’imposizione fiscale sulle imprese al 15%. L’Italia, quindi, come paradiso fiscale, con una precisa finalità socio-politica: saldare al governo la massa dei piccoli e medi accumulatori, specie quelli che arrancano perché non sono in grado di puntare sul rinnovamento degli impianti, e farne la forza d’urto per premere da un lato sull’UE, e dall’altro lato per schiacciare ancor più di oggi i lavoratori immigrati, di cui già succhiano quotidianamente il sangue. I poteri stranieri (europei) e gli stranieri interni come nemici dell’Italia e degli italiani.

Sapelli, l’uomo che fu premier Lega-Cinquestelle per una sera, ha definito questa prospettiva “patriottismo laburista”. Ci può stare, sapendo però che entrambi i termini nascondono una truffa. Infatti il patriottismo anti-UE del duo Salvini/Di Maio nasconde ogni sorta di maneggio con la super-potenza statunitense che è in crescente attrito con l’UE. È una vecchia storia: la borghesia italiana gioca abitualmente su più tavoli, poi al momento opportuno offre in esclusiva i propri servigi, la propria subordinazione, al più forte, senza farsi problema di stracciare i precedenti patti. È successo nel 1915 (dopo 33 anni di Triplice Alleanza) e di nuovo nel 1943 (dopo 7 anni di asse con la Germania nazista), ed in entrambi i casi fu tradito l’alleato tedesco. Per simili patrioti la patria non è altro che il loro conto in banca e il loro potere da mettere al sicuro, nei momenti tempestosi, attraverso l'”amicizia” con il più forte dei protettori, il probabile o certo vincente. E pazienza se fino al giorno prima era proprio il nemico…

Quanto poi al “laburismo” di Lega-Cinquestelle, non si tratta certo del ritorno al welfare degli anni ’70, che il duo Salvini/Di Maio continuerà invece a privatizzare e aziendalizzare, quindi a smontare. Si tratta di piccole concessioni mirate a settori di proletari anziani (da sostituire con forza-lavoro giovane che alle imprese costerà molto meno) e ad una fascia di precari e disoccupati per obbligarli a cercare in modo attivo il lavoro a qualsiasi condizione e inquadrare anche loro nella guerra ai poteri stranieri che ci pongono limiti di spesa, e agli stranieri interni che, a detta di Salvini&Co., fanno la “pacchia” a nostre spese. Dopo trent’anni e più di sacrifici a senso unico e di progressivo azzeramento delle lotte (con poche eccezioni), anche queste piccole concessioni appaiono oggi a non pochi proletari come l’inizio di una svolta, di un cambio di direzione operato da un governo, in qualche misura, amico. E la contropartita richiesta – la complicità nell’aggressione agli emigranti e agli immigrati – sembra qualcosa di secondario, o perfino di giusto: in tempi di magra, “prima gli italiani”.

L’Italia, avanguardia della guerra europea agli emigranti/immigrati

È invece un errore capitale.

Perché, come si è visto nelle prime settimane di azione del governo, questa aggressione è al centro dell’azione del nuovo governo, il suo impegno prioritario e caratterizzante; e perché oltre i richiedenti asilo sulle navi, i cosiddetti “clandestini” e i lavoratori immigrati, l’aggressione ha come bersaglio l’intera classe lavoratrice. Guai a non vederlo!

Chiudere i porti, rafforzare in Africa la cintura di campi di concentramento per emigranti promossa da Minniti, tagliare i fondi per i richiedenti asilo, espellere in massa gli immigrati senza permesso di soggiorno, pretendere dall’UE il rafforzamento dei respingimenti in mare e della polizia di frontiera, tutto ciò fa dell’Italia l’avamposto della guerra dell’Unione europea agli emigranti dall’Africa e dal Medio Oriente, della guerra infinita ai popoli arabi e “islamici”. Escludere i bambini degli immigrati residenti in Italia dall’accesso gratuito agli asili nido e gli immigrati disoccupati dal reddito di cittadinanza, radere al suolo i campi rom, è l’altra faccia di una politica razzista che intende colpire e discriminare sistematicamente, oltre gli emigranti, anche gli immigrati.

Questo attacco che il nuovo governo attua in piena sintonia con le autorità della UE e con la politica di Trump, riguarda tutti i proletari. Il razzismo istituzionale, di stato, è un’arma che i padroni e i loro inservienti politici alla Salvini usano per seminare diffidenza, odio, rancore tra i proletari autoctoni e gli immigrati indebolendo gli uni e gli altri davanti a quei “mercati finanziari”, di cui il governo finge di essere nemico. Non ci stancheremo di ripeterlo: la sorte dei proletari è indivisibile. Se una parte dei proletari viene massacrata impunemente e il valore della loro forza-lavoro viene abbattuto (i 2,5 euro l’ora dei braccianti di Rosarno o i 3-4 euro l’ora dei facchini del mercato ortofrutticolo di Torino), il colpo è all’insieme della forza-lavoro, anche a quella parte che al momento non è colpita direttamente. Due banali controprove: con l’introduzione della Bossi-Fini e la subordinazione del permesso di soggiorno al contratto di lavoro, la condizione media dei lavoratori e delle lavoratrici immigrati è peggiorata – salvo là dove ci sono state strenue lotte, come nella logistica; quella dei lavoratori italiani è forse migliorata? dopo l’esperimento del lavoro gratuito fatto sui rifugiati e i richiedenti asilo “stranieri” in attuazione di una circolare di Alfano, la “buona scuola” di Renzi non ha forse esteso questo stesso obbligo agli studenti delle superiori, in grandissima parte italiani d.o.c.?

C’è un altro aspetto altrettanto rilevante da tenere presente: la politica di guerra agli emigranti e agli immigrati esalta il ruolo della polizia di stato, delle polizie private, delle forze armate di stato e degli eserciti privati, di cui la nuova ministra cinquestelle della difesa Trento è esperta promotrice e businesswoman. Da questa politica del manganello e dell’incremento della spesa per la repressione (10.000 poliziotti, nuove carceri, etc.) e per le guerre (qualcuno parla più di tagliare gli F-35?), dalla libertà di uccidere i ladri di appartamento, cosa può venirne di buono a chi vive del proprio lavoro? Saranno curiose coincidenze, ma nei primi sette giorni di vita del governo Conte è stato assassinato in Calabria il bracciante maliano Soumayla Sacko, militante dell’USB, è stato condannato a 4 anni e 8 mesi a Piacenza il facchino del SI Cobas Moustafa Elshennawi per aver reagito alla violenza di un carabiniere (con lui sono imputati anche tre solidali dei centri sociali), la Cassazione ha provveduto a licenziare definitivamente i 5 operai FCA di Pomigliano che si sono macchiati del delitto di avere irriso il mammasantissima Marchionne, la polizia ha denunciato a Milano due dimostranti per avere bruciato la bandiera della Lega, è stata licenziata la compagna Lavinia Cassaro, rea di avere inveito contro la polizia… non bastano questi episodi per capire in che direzione evolve la situazione sotto l’impulso del governo? e per realizzare che non saranno fatti sconti a nessuno, quale che sia la sua nazionalità?

Stiamo parlando del governo Lega-Cinquestelle in quanto tale, non del solo Salvini perché costui al ministero dell’interno e come vice-premier si è insediato per accordo comune delle due forze di governo (anche del guardiano della Costituzione e dei mercati globali Mattarella – la cosa non l’ha turbato affatto). Chi sa se lo terranno presente i vecchi amanti di sinistra del M5S, che fino a pochissimo tempo fa gli facevano da galoppini elettorali sognando assessorati nelle giunte comunali grilline o gli davano consigli sulla politica sindacale perché consideravano il M5S un’utile sponda per la sinistra “di classe”…

[A proposito… uno degli spettacolini più grotteschi della lunga crisi istituzionale da cui è nato il governo Conte è stata proprio la chiassosissima scalmana dei filo-grillini e/o sovranisti di sinistra, insorti come tarantolati contro Mattarella per il suo no a Savona ministro dell’economia. Forse hanno dimenticato il CV da autentico “uomo del popolo” di costui: Banca d’Italia, Confindustria, Banca nazionale del lavoro, Credito industriale sardo, Fondo interbancario di tutela dei depositi, Impregilo, RCS-Corriere della sera, Consorzio Venezia Nuova (quello della mega-speculazione sul Mose), Gemina, Capitalia, Banca di Roma, Unicredit, e quasi sempre con ruoli di vertice. Dimenticare questo “particolare”, per dei compagni, è imperdonabile. Hanno dimenticato, poi, che Savona è stato legato a triplo filo per decenni all’ultra-atlantista Cossiga (do you remember Gladio?) su incarico del quale si è occupato anche di servizi segreti. Critico verso la governance dell’UE e dell’euro, mai però verso i super-boss di Washington e New York – dimenticare questo, l’affiliazione al partito amerikano, per dei sovranisti coerenti, è imperdonabile. Hanno dimenticato, infine, l’avversione radicale di Savona al welfare e l’ossessiva insistenza con cui costui, nel suo libro Come un incubo e come un sogno, martella contro “la costante ricerca e difesa delle rendite” da parte dei lavoratori. E questo per dei keynesiani fanatici è altrettanto imperdonabile.

Squalificati. Come compagni, come sovranisti, come keynesiani.]

Il vero nodo da tagliare è il debito di stato!

Prima di venire al tema dell’opposizione a questo governo, vogliamo segnalare l’altra importante mezza verità venuta fuori in questa crisi istituzionale: quella relativa al debito di stato. L’hanno confessata i due azionisti del governo Conte, e in seguito anche Cottarelli. I primi, quando è venuto allo scoperto tramite l’Huffington Post che avevano in mente di chiedere alla BCE di abbonare all’Italia 250 miliardi del suo debito di stato – perché senza un taglio di quelle proporzioni (poco più del 10% del totale), non si può attuare nessuna delle promesse fatte in campagna elettorale “alla classe media e all’uomo comune”. L’ha confessato poi anche Cottarelli quando ha sintetizzato la situazione italiana in questo modo: “non siamo schiavi dello spread, siamo schiavi del debito pubblico“, ovvero dei padroni del debito di stato, che sono peraltro gli stessi che decidono se lo spread deve salire oppure no.

Anche in questo caso, è solo una mezza verità. A sentire loro, infatti, sembrerebbe una vicenda solo italiana, dovuta per giunta, specie per Cottarelli, alla pretesa di “tutti” di vivere “al di sopra dei propri mezzi” – la pensa così anche il super-campione degli anti-euro Savona. Doppiamente falso. Perché l’esplosione del debito di stato riguarda il mondo intero, e i primatisti mondiali, in termini di crescita percentuale, sono gli Stati Uniti del binomio Obama/Trump, dove nell’ultimo decennio il debito di stato è quasi triplicato, crescendo ad una velocità enormemente superiore a quella del pil (nel 2017 del 6% contro il 2,5% del pil). E perché tale esplosione non è dovuta all’inflazione da welfare, che negli ultimi decenni è stato tagliato a più non posso; è stata provocata dall’intensificato sostegno degli stati alle banche e alle imprese, dalla detassazione del grande capitale e degli strati sociali più ricchi (in Italia l’aliquota massima era nel ’74 al 72%, ora è al 43%, Lega-Cinquestelle vorrebbero dimezzarla portandola al 20%), dall’espansione generalizzata della produzione in nero che si sottrae al fisco, dall’espansione incontrollata del sistema bancario ombra. In breve: dalla socializzazione delle perdite e dei costi crescenti di riproduzione del capitale e dei suoi ipertrofici apparati di controllo, di repressione e di guerra. E questo capolavoro si deve tanto ai keynesiani quanto ai neo-liberisti, perfino più ai primi che ai secondi – in Italia due nomi su tutti: Andreatta e Ciampi.

Non c’è assolutamente nulla di naturale, di destinato, di inevitabile in un tale processo, che non a caso è iniziato con il default del Messico nel 1982 e, a seguire, di parecchi altri paesi dominati e controllati dell’America latina e del Sud del mondo (ci limitiamo ai soli tempi recentissimi, la sua storia completa è secolare). È il risultato di politiche anti-operaie che mettono gli stati sempre più nelle mani dei loro creditori nazionali e internazionali (banche, fondi di investimento, imprese, strati parassitari vari) e impongono alle classi lavoratrici di sfiancarsi per ripagarlo senza averlo causato. Il debito di stato è un debito di classe, un’arma affilata della lotta di classe che i poteri forti creditori dello stato puntano alla gola degli operai, dei precari, dei disoccupati, minacciando sempre più spesso di affondarla. Con l’intesa di tutti i governi e apparati statali nazionali interessati, la UE ha sacralizzato l’obbligo di ripagare il debito di stato, comandando di metterlo in Costituzione con il Fiscal Compact. E questa “necessità”, unita all’esplosione del debito privato (anche qui i primatisti sono gli Stati Uniti), ci rende schiavi, ci incatena a doppia mandata alla schiavitù salariata. Perché comporta un supplemento di spremitura del lavoro – si deve lavorare sodo sia per il padrone, sia per lo stato dei padroni indebitato -; e perché lo stato gravato dai debiti si blinda sempre di più allo scopo di prevenire il conflitto di classe e quando il conflitto si manifesta, per reprimerlo sul nascere. Il progressivo svuotamento dell’esercizio dei diritti politici e sindacali dei proletari, anzitutto della loro libertà-possibilità di organizzarsi e di lottare (vedi lo sviluppo mondiale della legislazione anti-sciopero), deriva proprio dalla radicale “alienazione dello statoindebitato, che è sempre più nelle mani degli insaziabili usurai interni ed esterni che lo detengono (per il debito di stato italiano è 50-50%) .

Sul cappio del debito di stato debbono aver ragionato nelle scorse settimane anche gli esponenti di Lega e Cinquestelle impegnati nella scrittura del contratto. Ma non appena è diventata di pubblico dominio l’ipotesi di una richiesta del suo congelamento, benché molto limitato, e si sono scatenati i guardiani armati dei “mercati finanziari”, ecco la rapida retromarcia dei “nazional-populisti”. Cosa volete fare?, gli hanno gridato con aria minacciosa i bucanieri di Libero: un esproprio proletario? Ed eccoli di nuovo allineati e coperti i presunti “anti-sistema”, anche se non rinunceranno a chiedere a BCE e UE dei margini di manovra maggiori di quelli ottenuti dai precedenti governi.

Ciò che stupisce non è tanto la retromarcia della premiata ditta Salvini&Di Maio. Ciò che stupisce è la scomparsa della denuncia del cappio-debito di stato dalla propaganda, dall’agitazione e perfino dall’analisi delle forze che si dicono comuniste o antagoniste, quasi tutte catalizzate ormai dal tema-euro. Benché dovrebbe essergli noto che l’esplosione del debito di stato italiano precede l’ingresso nell’euro e l’uscita dall’euro l’ingigantirebbe ulteriormente. Per noi, invece, la denuncia del debito di stato, del suo processo di formazione, della sua funzione di espropriazione e soffocamento degli sfruttati, e la proposta del suo disconoscimento-annullamento devono avere un posto centrale nella denuncia dell’azione del nuovo governo e dei suoi soprastanti internazionali di Bruxelles e di Wall Street. Ben sapendo che si tratta anzitutto di cominciare a radicare questa tematica tra i compagni e i lavoratori più coscienti; inutile sognare, al momento, di più.

Quale opposizione al governo Salvini/Di Maio?

Un’opposizione senza se e senza ma.

Andiamo a concludere.

Questo governo è un governo trumpista piccolo piccolo, se si vuole. Piccolo lo è anche in certi concettuzzi da retroguardia capitalista sulla centralità della piccola impresa e della piccola banca. Ed è pieno di contraddizioni. Lega e Cinquestelle non hanno contraddizioni ideologiche di fondo, sono entrambi per la difesa e l’eternizzazione del capitalismo, ed entrambi danno della ideologia del capitalismo una versione ultra-individualista. Rispondono però a basi territoriali e sociali differenti, i cui interessi in parte convergono, in parte divergono. È perciò realistico prevedere una navigazione complicata, sebbene la sua partenza sia indicativa: al timone del governo c’è la Lega (Nord), né potrebbe essere diversamente, dato che il Sud non ha mai guidato la politica nazionale. La Lega (Nord) del resto, è partito assai più sperimentato e radicato dei 5S. La navigazione sarà complicata anche in ragione della politica di attrito con le istituzioni europee che il governo deve perseguire, e per il caotico evolvere dell’economia e della politica mondiale che tirerà l’Italia da una parte e dall’altra (è sintomatica la compresenza in Italia di due squali globali agenti del capitale statunitense quali Bannon e Soros, facenti capo a due schieramenti in feroce lotta tra loro). Nonostante ciò, è un governo pericoloso in quanto nasce sulla spinta di una investitura di voti che è anche di operai, di precari, di disoccupati, e ne dovrà in qualche modo tener conto; e perché sta capitalizzando decenni di politiche razziste di stato fatte tanto dalla destra quanto dal centro-sinistra per presentare all’opinione pubblica come fonte unica di tutto il malessere sociale, o quasi, i richiedenti asilo e gli immigrati.

C’è chi suggerisce perciò di “modulare l’atteggiamento nei confronti del governo giallo-verde. Ossia criticarlo sui punti inaccettabili, incalzarlo sugli obiettivi di redistribuzione, sostenerlo nel caso di duri attacchi europeisti (…), proporre, se ne siamo capaci, un più efficace modo di conflitto con l’Unione europea” – il solito trio Boghetta-Porcaro-Formenti. È una prospettiva sciagurata perché il programma di questo governo è un tutt’uno reazionario e anti-proletario. Si inscrive nella tendenza internazionale, ben espressa da Trump, a tentare di ricompattare in senso nazionalista aggressivo i rispettivi paesi polarizzati da 40 anni di politiche neo-liberiste, attraverso la narrativa “populista” e modeste misure di redistribuzione del reddito o di incremento del reddito dei salariati, per scagliarli il più compatti che si può nello scontro di tutti contro tutti. Una sorta di “nazionalismo popolare” che accoglie parzialmente temi che riguardano i lavoratori, ma li stravolge completamente per la prospettiva anti-proletaria in cui li inserisce.

L’opposizione al governo Lega-Cinquestelle non può che essere un’opposizione senza se e senza ma. Questo non è un governo amico dei lavoratori, né è un governo in cui abbiamo degli amici. Non c’è alcuna differenza sostanziale tra Lega e Cinquestelle. Sulla politica migratoria “io e Salvini siamo d’accordo”, dichiara Conte. Ed è così. Fico che va a San Ferdinando dove è stato assassinato Soumayla Sacko, e Di Maio che visita in ospedale Mimmo Mignano, sono solo sketch di politica-spettacolo, fumo negli occhi. Se davvero lo stato “ci fosse” contro il supersfruttamento dei braccianti neri, non ci sarebbero tendopoli come quella di san Ferdinando (in Italia, invece, ce ne sono decine) e assassinii come quello di Sacko. Se davvero lo stato “ci fosse” per tutelare il lavoro, non ci sarebbero licenziamenti politici e non sarebbe diventato una norma, come di fatto è diventato, “l’obbligo di fedeltà” all’azienda, che serve a chiudere la bocca agli operai che contestano i padroni.

Naturalmente, questo governo va lottato non come se fosse una fotocopia di Monti o di Renzi, ma per ciò che esso è realmente.

Il che significa, contestargli che:

1)si pone come il governo del cambiamento (e di tutti) ma il centro della sua politica economica, la politica fiscale, prosegue fedelmente, addirittura radicalizza, con la flat tax e la pace fiscale tombale con gli evasori, la politica neo-liberista della seconda repubblica, che è stata tutta a favore del capitale e contro il lavoro salariato. La radicalizza nel senso che l’allarga ulteriormente alla piccola e media impresa che vive proprio della precarietà dei rapporti di lavoro, del super-sfruttamento degli immigrati e dei bassi salari per italiani e immigrati – per questo non può in alcun modo essere considerata parte del nostro “blocco sociale”, come avviene nei programmi dei “sovranisti” di sinistra. E, inutile dire, la detassazione radicale dei capitali di tutte le taglie e degli strati sociali più ricchi porterà ad un taglio ancora più pesante del welfare nel corso degli anni.

2)In campagna elettorale Lega e Cinquestelle hanno promesso solennemente di cancellare il Jobs Act, la legge Fornero, la Buona scuola, etc., ma già è evidente che non potranno mantenere le promesse fatte – anche per la decisione della BCE, non criticata dal governo italiano, di chiudere il QE alla fine del 2018. Bisognerà fare questa contestazione entrando dettagliatamente nel merito dei provvedimenti che saranno presi, quando saranno presi, per mostrarne l’effettivo contenuto, che non potrà andare oltre piccole concessioni, se ci saranno, e per indicare da quale fonte saranno presi i relativi fondi. Dal momento che il governo è deciso ad abbattere il prelievo fiscale sulle imprese, sui ricchi e sui benestanti, la sola fonte che rimane è la fiscalità generale, che sarà sempre più a carico dei salariati. Quanto allo sbandierato taglio dei vitalizi ai deputati, porterà in cassa al massimo 40 milioni; se sarà destinato, come sembra, al contrasto della povertà, frutterà ai circa 2 milioni di famiglie in povertà assoluta la stratosferica somma di 20 euro annui…

3)Per questa stessa ragione, il reddito di cittadinanza, se e quando dovesse essere istituito, sarebbe sostanzialmente una partita di giro, in quanto pagato dalla fiscalità generale. E non servirà a creare nuovi posti di lavoro stabili e retribuiti in modo dignitoso, bensì a tagliarli, a moltiplicare i lavori-tampone facendo dumping salariale – come è stato per i provvedimenti dell’Hartz-IV in Germania, che il governo ha preso a riferimento. Dalla nebbia in cui il reddito di cittadinanza è avvolto, Di Maio ha fatto trapelare, per ora, una sola cosa: chi lo riceverà dovrà dare un certo numero di ore di lavoro gratuito al proprio comune…

4)La contropartita richiesta per le eventuali piccole concessioni in salsa “populista” è pesantissima: l’intensificazione della produttività del lavoro e della competizione con i lavoratori degli altri paesi europei, della Cina, etc.; il sostegno al militarismo e alle aggressioni neo-coloniali in programma – nei giorni in cui Salvini chiudeva i porti agli emigranti della Aquarius, infatti, il ministro degli esteri Moavero li spalancava, a iniziare da quello di Napoli, al segretario della NATO Stoltenberg, e questi a sua volta rilanciava la stretta collaborazione con il governo “del cambiamento” offrendo le truppe NATO per la gestione dei kampi profughi in Libia, e magari – l’appetito vien mangiando – in Ciad, in Niger, etc.

5)Il massacro materiale e mediatico degli emigranti e dei rifugiati e le discriminazioni nei confronti degli immigrati non servono certo a proteggere i lavoratori italiani dalla loro “concorrenza sleale”. Servono, al contrario, ad abbattere ulteriormente il valore della loro forza-lavoro e i loro diritti, ad accrescere la loro forzata concorrenza al ribasso. Per i proletari italiani approvare tale massacro sarebbe, è, farsi harakiri. “Prima gli italiani” è uno slogan truffa. Il suo vero significato è: prima i profitti dei padroni italiani (e non), tutto il resto – cioè il lavoro vivo – vada a morire ammazzato.

Alcune prime risposte al governo fasciogrillista sono già venute dai lavoratori immigrati, dal SI Cobas, dall’USB, dal movimento Non una di meno, da Potere al popolo. Una parte di esse è rimasta però sul terreno molto fragile dell’anti-razzismo democratico e umanitario, o rimanda alla prospettiva deviante di un’Europa del Sud contrapposta in blocco all’Europa del Nord, o di un’Italia contrapposta in blocco, “da sinistra” (???), alla Germania.

Noi crediamo, invece, che nessuna risposta di lotta efficace a questo governo trumpista, alla sua politica e alla sua abile demagogia “nazional-populista”, può essere data in nome di altre e diverse forme di nazionalismo, fossero pure connotate in senso “popolare”, “proletario”, o perfino “socialista”. Né può essere data in nome di una impossibile riforma social-democratica dell’Europa, à la Varoufakis-De Magistris. Nè europeismo, comunque connotato, né accodamento ai malumori anti-europei e anti-tedeschi di una parte dei piccoli e medi padroni (lunga la linea dei “rosso”-bruni). Le forze di classe vive, per piccole che siano, non debbono farsi imprigionare in simili alternative, entrambe contrapposte agli interessi degli sfruttati.

L’avvento del trumpismo negli Stati Uniti preannuncia, dicevamo, un cataclisma nella politica e nell’economia internazionale. E questo governo esprime in Italia proprio la tendenza internazionale, forte in primo luogo in tutto l’Occidente, al neo-protezionismo e a un rafforzato militarismo. Va combattuto perciò in una prospettiva internazionale e internazionalista che si contrapponga all’ulteriore scatenamento della competizione tra i proletari dei diversi paesi e alla preparazione di nuove guerre tessendo la trama della loro unità di bisogni, interessi, prospettiva, organizzazione.

Partiamo da dietro, dalle poche lotte di resistenza che sono in piedi, con l’impegno di allargarne lo sguardo e il cammino in direzione della ricomposizione del campo degli sfruttati, oggi disorganizzato e disperso, in un fronte unico proletario anticapitalista. Ci sarà modo di discutere più a fondo dei punti caratterizzanti di un programma politico di classe adeguato alle contraddizioni esplosive dei nostri giorni. Anticipiamo soltanto che vi dovranno avere un posto particolare (in relazione al percorso di ripresa delle lotte):

-la lotta per forti aumenti salariali egualitari e sganciati dalla produttività e dalla redditività delle imprese, che consentano di recuperare il potere d’acquisto perduto nell’ultimo ventennio, e per il salario pieno (il salario medio operaio) garantito a precari e disoccupati finanziato con un prelievo fiscale sulla classe capitalistica;

-la lotta per la riduzione drastica e generalizzata dell’orario di lavoro (a parità di salario) e per il lavoro socialmente necessario, come unica soluzione alla triplice dissipazione di energia vitale degli uomini e della natura, nel super-sfruttamento del lavoro, nella disoccupazione e precarietà di massa, nel saccheggio delle risorse naturali;

-la lotta contro l’oppressione di genere, base fondante del sistema capitalistico, con la sua sistematica violenza, discriminazione, supersfruttamento e svalorizzazione del lavoro e del corpo delle donne, la cui condizione è destinata a peggiorare grazie all’intensificazione della concorrenza tra lavoratori e lavoratrici, alla demolizione del welfare, al militarismo e al rafforzarsi dell’ideologia familista e reazionaria già manifesta nella scelta del ministro “per la famiglia”;

 

-la lotta contro il sistema bancario per l’annullamento del debito di stato in quanto debito di classe, un vero e proprio cappio al collo degli operai, dei precari, dei disoccupati, come abbiamo visto pure in questa crisi di governo. Una lotta che va collegata alla denuncia dell’indebitamento privato e del debito estero che sta strangolando i paesi del Sud del mondo, ed è tra le cause primarie delle migrazioni internazionali;

-la lotta contro il montante militarismo, a cominciare dalla denuncia della riconfermata fedeltà dell’esecutivo Salvini&Di Maio alla NATO e ai suoi obiettivi di guerra nel Mediterraneo, in Africa, nel Medio Oriente e sul fronte russo, e da una rinnovata iniziativa per il ritiro immediato di tutte le truppe di stato italiane e dei contingenti privati militari italiani dislocati all’estero.

 

29 giugno 2018

 

Il cuneo rosso – Gcr (Gruppo comunista rivoluzionario) – Pagine marxiste

Compagni e compagne per una tendenza internazionalista rivoluzionaria