Eurobonds e Mes: due modi diversi per un unico fine: schiacciare i lavoratori

Nelle ultime settimane il dibattito sulla politica economica ed estera italiana è stato assorbito dalla scelta coronabond / MES, ossia tra l’emissione di titoli garantiti dalla UE per finanziare le misure anti-crisi, come vorrebbero i Cinquestelle, e l’utilizzo del Meccanismo Europeo di Stabilità, che il PD, Renzi e Forza Italia sono disposti ad accettare. La Lega poi ha votato contro entrambe le soluzioni, optando per un finanziamento interno all’Italia, voltando le spalle all’Europa.

A parte il fatto che non sarà l’Italia, ma la Germania a decidere, tutte e tre le posizioni partono dalla visione che gli interessi in campo sono quelli dell’Italia (e del Sud Europa) da una parte, della Germania (e nord Europa) dall’altra. Si tratterebbe di chiedere all’Europa “solidarietà” all’Italia colpita dal coronavirus (anche se Spagna e Francia si avvicinano alla situazione italiana, insieme alla Gran Bretagna che ormai ha rotto gli ormeggi europei).

L’articolo che pubblichiamo condividendolo parte da un presupposto e da un angolo visuale diverso: la partita che gli Stati giocano tra loro è solo una seconda battuta della partita fondamentale: quella tra lavoratori e capitalisti. Non ci sono pasti gratis, nel capitalismo. La finanza, pubblica o privata, non è magia. Le banche centrali possono stampare moneta, ma quella moneta serve in ultima analisi ad acquistare ciò che i lavoratori producono o creano. Che siano obbligazioni garantite dall’Unione Europea, e vendute sul mercato, o prestiti dal MES, o titoli di stato italiani, non saranno doni, ma prestiti, che andranno ad aumentare il debito dello Stato, già pari al 135% del Prodotto Interno Lordo, che andranno restituiti, con gli interessi, che già costano 65 miliardi l’anno, e che aumenteranno col debito.

Chi pagherà questo debito e questi interessi, a chi? Questa è la domanda. E la risposta finora è sempre stata: pagano i lavoratori con l’IRPEF sulla busta paga con l’IVA sugli acquisti, con le accise sulla benzina ecc. gli interessi del debito pubblico alle banche, italiane e straniere, e ai ricchi, italiani e stranieri, che possiedono i titoli del debito pubblico italiano (Bot, CCT, ecc.). Se si facessero gli eurobond pagheranno gli interessi anche ai possessori di eurobond, e anche il MES raccoglie gran parte dei suoi fondi emettendo titoli sul mercato, da pagare con gli interessi. Se poi passasse la posizione “sovranista” della Lega, di finanziamento interno, gli interessi sarebbero ancora maggiori, dato lo “spread” rispetto alla Germania (cioè la differenza tra gli interessi pagati sui titoli italiani e quelli tedeschi, che gli investitori chiedono per coprire il rischio che lo stato italiano dichiari fallimento).Per questo diciamo che non c’è bisogno di andare ad aumentare ancora il debito pubblico che verrà caricato sulle spalle dei lavoratori. I soldi ci sono, nei conti e nei possedimenti del 10% più ricco della popolazione, la borghesia, che possiede oltre 4.400 miliardi di ricchezza. Una ricchezza accumulata non con il lavoro del 10% più ricco, ma con il lavoro della grande maggioranza di lavoratori salariati. È ora di riprenderne una parte con una patrimoniale del 10% su questa ricchezza. Da utilizzare per garantire un salario decente ai disoccupati e a chi è rimasto senza lavoro causa la crisi da coronavirus, ricostruire il sistema sanitario, e investimenti sociali (istruzione, ambiente).


Eurobonds e Mes: due modi diversi per un unico fine: schiacciare i lavoratori

La riunione dell’Eurogruppo del 9 aprile si è conclusa con un generico compromesso. La decisione è stata demandata al Consiglio Europeo del 23 aprile, la sede nella quale i capi di Stato e di governo dell’UE dovranno sciogliere il nodo del MES e del Recovery Fund proposto dalla Francia e appoggiato dal fronte dei paesi favorevoli agli Eurobonds, sia pure nella forma dei cosiddetti coronabonds, un orrendo neologismo che sta a indicare la mutualizzazione del debito che sarà contratto per far fronte alla pandemia in corso e solo di questo, con l’esclusione di quello passato.

La questione ha aperto una aspra polemica politica in Italia, con divaricazioni sia all’interno della maggioranza di governo che nel fronte delle opposizioni. Gli schieramenti pro o contro il MES sono fin troppo noti e rendono qui superflua una loro illustrazione. Qualcosa in più, invece, vale la pena di dire sul merito della questione.

Il comunicato dell’Eurogruppo

A dispetto di quanti sostengono che il compromesso del 9 aprile ha eliminato sostanzialmente le ragioni del contendere, e mancherebbe solo la definizione dei dettagli da parte del Consiglio, in realtà i motivi dello scontro sono ancora sul tappeto ma non certo per i motivi sottolineati dai media main stream. In altre parole, non c’è alcuno scontro tra fautori della solidarietà europea e difensori degli “egoismi nazionali”. C’è invece un contrasto duro fra paesi imperialisti, ciascuno dei quali difende ferocemente le proprie sordide prerogative di usuraio e cerca di rifarsi, per quanto possibile, sui paesi concorrenti. Riprenderemo fra poco queste considerazioni, non prima di aver analizzato più nel dettaglio la controversa materia.

Il testo uscito dalla riunione finale dell’Eurogruppo delinea a caratteri molto generali l’utilizzo del MES, precisando che l’unica condizione richiesta è che il prestito concesso sia utilizzato per le spese dirette e indirette di carattere sanitario. Al netto della decisione finale, la sola “condizionalità” prevista esplicitamente dal testo è questa. Il primo problema che sorge al riguardo è il seguente: la finalizzazione alla spesa sanitaria è la sola condizione per ottenere il finanziamento, ma nulla si dice circa le condizioni della sua restituzione. Il comunicato recita testualmente che il prestito sarebbe concesso “nei termini standardizzati (corsivo nostro) concordati dagli organi sociali del MES…. Il solo requisito di accesso (corsivo nostro)… sarà che lo Stato membro si impegni all’uso di questa linea di credito per il supporto domestico al finanziamento diretto e indiretto del sistema sanitario, di cura e prevenzione in relazione ai costi collegati alla crisi del Covid-19. Le previsioni del Trattato sul MES saranno seguite”. E dopo si afferma: “La linea di credito sarà disponibile finché non sarà terminata la crisi del Covid-19. In seguito gli stati membri dell’Eurozona rimarranno impegnati a rafforzare i fondamentali economici e finanziari, coerentemente con la coordinazione economica e fiscale UE e la piattaforma di sorveglianza, compresa ogni flessibilità applicata dalle istituzioni UE competenti”. Riepilogando: per l’accesso, unica condizionalità prevista è la destinazione alle spese sanitarie. Ma il testo parla di condizioni “standardizzate” e precisa che sarà rispettato il Tratto istitutivo del MES. Ma è in questo trattato che si stabilisce che il MES ha natura di creditore privato, che il rimborso delle “rate” del prestito ha la precedenza rispetto al rimborso del debito pubblico ordinario in scadenza e, infine, che gli Stati saranno impegnati a rafforzare i propri fondamentali economici. Gli Stati che si confrontano hanno sufficiente esperienza e sono mossi da analoghi, anche se spesso concorrenziali, interessi per non sapere che dentro quelle formulazioni può nascondersi di tutto. Ciascuno, infatti, ha cercato propagandisticamente di stiracchiare la risoluzione del 9 aprile in senso favorevole alla propria linea, ma sapendo che i giochi sono ben lungi dall’essere conclusi.

Il piano della BCE si estende

Quali sono le possibili direzioni alternative in cui può risolversi, in questa fase, il contrasto fra i due schieramenti e quali sono le “questioni irrisolte”?

Innanzitutto, la massa dei capitali in gioco. Benché diversi esponenti di primo piano dell’establishment europeo si siano affannati a dimostrare la volontà di intervento comune delle istituzioni del vecchio continente (piano della BCE di 750 mld, fondo Sure di 100 mld per il sostegno agli strumenti nazionali sulla disoccupazione, fondo della Banca Europea di Investimento di 200 mld per prestiti agevolati alle imprese), è evidente che le risorse stanziate sono largamente insufficienti. La BCE è quella che si è mossa prima e in modo più deciso, nonostante la gaffe di Lagarde e ha continuato su questa strada, stabilendo qualche giorno fa di accettare come collaterale (cioè come garanzia) per le operazioni di rifinanziamento delle banche ordinarie anche junk-bonds, le cosiddette obbligazioni-spazzatura, cioè titoli il cui alto rendimento è legato ad un altrettanto alto rischio di insolvenza. Non solo, anche nelle operazioni di acquisto titoli in Borsa, la BCE ha esteso l’acquisto al debito greco, che ha un rating cosiddetto high-yield (alto rendimento, che si associa come già detto ad alto rischio), battendo sul tempo la possibile speculazione internazionale sul rischio default di Atene, un provvedimento che prefigura lo stesso comportamento sui numerosi titoli privati (cioè le obbligazioni emesse dalle imprese per raccogliere finanziamenti in Borsa) sui quali già da giorni si addensano rischi di declassamento, declassamento che farebbe scattare automaticamente un’imponente ondata di vendite, poiché molti fondi di investimento, fondi pensione ecc. non possono per statuto tenere in portafoglio titoli con questo livello di rischiosità. La BCE quindi, come abbiamo detto nei testi precedenti, ha allentato al massimo la propria politica monetaria, che tuttavia è efficace soprattutto nel tenere sotto controllo gli spreads e favorire il rifornimento di capitale al sistema bancario.

Il Sure e l’intervento della BEI

Gli altri due pilastri del preteso “solidarismo” europeo sono appunto il Sure e il piano della BEI. Entrambi sono congegnati per fornire, con stanziamenti ad hoc dei bilanci nazionali e di quello comunitario, le garanzie finanziarie perché si possa intervenire. Ma, senza entrare nel dettaglio, si può dire che il Sure, che dovrebbe finanziare la cosiddetta cassa integrazione europea, ha un margine limitato d’azione. Dei 100 miliardi totali, gli Stati possono attingere solo una quota parte dalla quale, dedotto il capitale versato a garanzia, rimane una cifra piuttosto bassa. Per l’Italia, ad esempio (ma vale, in proporzione, per tutti i paesi), tale cifra permetterebbe all’incirca il pagamento di un mese di CIG, vale a dire la metà del periodo di 9 settimane già fissato dal governo. Anche per la BEI, lo schema è quello delle garanzie finanziarie degli Stati, questa volta per attivare una linea di credito per le imprese, utilizzando la leva finanziaria (cioè la moltiplicazione dei capitali prestati rispetto a quelli versati a garanzia). Lo schema garanzie/prestiti è poi quello universalmente adottato, replicato anche dal governo Conte per i 400 mld destinati ad alimentare la liquidità delle imprese. È evidente che le cifre che devono essere stanziate per tamponare gli effetti economici della crisi viaggiano complessivamente ben al di sopra delle decine di miliardi messi a bilancio per costituire i fondi di garanzia di cui si è appena detto. Basti pensare che il calo del PIL sarà comunque drammatico e che le imprese, sebbene il meccanismo delle garanzie messo in piedi dal governo Conte sollevi quasi del tutto le banche dal rischio di credito, stanno già battendo cassa per avere capitali a fondo perduto, in sintonia con la ricetta Draghi che ha detto senza mezzi termini che il debito privato (delle imprese, eh, mica quello dei proletari per tirare a campare, quello è sacro e intoccabile!) dovrà essere cancellato e trasformato in debito pubblico… E siamo solo all’inizio di un cataclisma di cui nessuno è in grado di prevedere le reali dimensioni.

Gli stanziamenti anti-crisi e la raccolta dei capitali

Il piano anticrisi degli Stati, dunque, prevede un gigantesco rastrellamento di capitali da immettere nel sistema economico, di cui quelli destinati a impedire che la miseria generalizzata sfoci in aperta ribellione saranno le briciole, mentre la maggior parte sarà destinata a riattivare il meccanismo di accumulazione. Le quantificazioni immediate parlano, già adesso, di almeno 1000 mld €, che il fronte italo-franco-spagnolo con gli altri sei Stati minori vuole appunto raccogliere con l’emissione di eurobonds, comunque li si voglia chiamare, cioè emissione di titoli di debito pubblico dell’UE nel suo insieme. Il meccanismo del MES prevede invece, dal punto di vista quantitativo, il limite del 2% del PIL di ogni singolo paese, circa 36-37 mld per l’Italia. La contrapposizione, tutt’altro che ideologica, verte sulla volontà del fronte capeggiato dalla Germania, che ha già stanziato cifre più elevate per fronteggiare la crisi, di operare sul mercato del debito pubblico scevro dai condizionamenti esterni, approfittando della libertà di manovra data da un Bund capace di indirizzare verso Berlino e gli Stati collegati capitali consistenti a tasso d’interesse negativo, cioè senza pagare interessi sul debito, anzi magari guadagnando pure qualcosa. Il rischio non è tanto di fare un passo verso la mutualizzazione del debito passato (cosa facilmente evitabile), quanto di mutualizzare il debito attuale. Questo infatti significherebbe doversi finanziare a un costo superiore e mettere il proprio “merito di credito” a disposizione di tutti gli altri paesi.

Il compromesso del 9 aprile non ha poi risolto un’altra questione. Se un paese ricorre al MES per le proprie spese sanitarie e successivamente si trova in difficoltà a sostenere il proprio debito, non è chiaro se la BCE possa attivare le OMT, cioè gli acquisti illimitati di titoli per fronteggiare la difficoltà di un paese di accedere ai mercati finanziari o evitare il pagamento di tassi di interesse esorbitanti. L’accesso alle ECCL, le linee di credito per i paesi con rapporto debito/PIL superiore al 60%, sono infatti il requisito legale perché la BCE operi in tal senso. Da più parti, si sottolinea che il ricorso al MES nella forma prevista dall’Eurogruppo potrebbe non essere sufficiente per far aprire l’ombrello protettivo della BCE. Da qui, la possibilità che si avvii una spirale di successivi prestiti del MES con le condizionalità già conosciute in passato, tanto più che lo stesso comunicato parla dell’impegno a rafforzare i propri fondamentali economici una volta terminata l’emergenza.

Non è un’ipotesi accademica, dal momento che, come abbiamo già detto negli scritti precedenti, almeno parte delle linee di comportamento della BCE e delle altre istituzioni europee, si muovono già sul terreno dell’eccezione, dell’aleatorietà, della forzatura e quindi, per definizione, senza certezze su durata e caratteristica degli interventi, legati all’emergenza e ai compromessi raggiunti fra gli Stati. Anche il rapporto fra QE e OMT viaggia su un crinale stretto, non normato ma dipendente dalle decisioni prese di volta in volta dal board della BCE. La questione del rapporto fra MES ed eventuale intervento della BCE non può quindi essere data per scontata. Poiché la trattativa è condotta da pescecani che conoscono bene i loro simili, è facile che più di un dubbio alligni fra le delegazioni trattanti.

Lo scontro tra gli Stati all’interno dell’eurozona

Non sarà certo attraverso dissertazioni sul carattere “simmetrico” della crisi attuale che i cosiddetti “rigoristi” accetteranno gli eurobonds. Lo scontro fra i fratelli-coltelli del capitale imperialistico europeo sarà deciso dai rapporti di forza, l’unico vero criterio che il capitalismo conosca. La retorica della solidarietà e degli egoismi, utile per legare il proletariato e le masse sfruttate alle sorti di questo sistema, gioca un ruolo ideologico di copertura rispetto alla reale natura dello scontro. Questo non significa che a guidare la contrapposizione sia solo l’interesse immediato. A pesare sono anche considerazioni di carattere strategico generale, ad esempio la consapevolezza del rischio che la crisi possa spingere paesi come l’Italia a cercare canali di finanziamento esterni all’eurozona o che la persistenza dell’impasse europeo possa addirittura mettere fine alla moneta unica, fatto che investirebbe come uno tsunami l’ordine internazionale, con la possibilità che il disordine mondiale precipiti verso una crisi incontrollabile. Far presagire questi rischi sistemici, in fondo, è la carta più forte in mano a paesi come l’Italia o la Francia, anche se Parigi può esercitare su Berlino un condizionamento ben più forte di Roma. Too big to fail, vale per le Banche e, mutatis mutandis, anche per gli Stati. La borghesia italiana sa di aver bisogno dell’UE, sa che la BCE ha funzionato come paracadute del suo debito pubblico e che il mercato tedesco è lo sbocco per gran parte dell’industria manifatturiera del Nord, ma sa anche che la sua permanenza nella moneta unica è ormai condizione irrinunciabile perché l’eurozona non si dissolva rovinosamente. Il messaggio di Conte “se l’Europa non si dimostrerà solidale faremo da soli”, al netto di una drammatizzazione strumentale e di un certo livello di velleitarismo – incapace di fare i conti fino in fondo con il pragmatismo del grande capitale nostrano, i cui legami “europeisti” sono ben presenti in tutte le forze politiche, dal PD alla Lega a Forza Italia – ha in fondo questo significato: se la borghesia italiana ha bisogno della Germania e della UE, è vera anche l’affermazione opposta e cioè che Berlino non può pensare di mantenersi a capo di un blocco imperialistico europeo solo facendo leva sulla sua forza economica per imporla ai briganti minori, ma deve pagare un prezzo per esercitare la propria leadership sui suoi compari. Perché questa strategia abbia sufficienti chances di successo è però essenziale che la Francia non cambi campo, cioè non si sfili dallo schieramento attuale in cambio di un rilancio dell’asse franco-tedesco che ha diretto lo spartito europeo finora: è dunque Parigi l’ago della bilancia dello scontro attuale. In ogni caso, il compromesso che potrà scaturire dal Consiglio dei Capi di Stato e di Governo del 23 sarà solo una tappa di avvicinamento al redde rationem finale. Lo schieramento di Parigi mostra che la paura del diluvio attanaglia la borghesia francese più del passato e l’ha condotta, finora, a non cedere alle richieste tedesche. Ma tutta la costruzione europea è dilaniata da un’alternativa che appare senza soluzione: non si può “tornare indietro” senza uno sconquasso di enorme portata (le ipotesi di “divorzio consensuale”, “patto amichevole” sono pie illusioni senza fondamento), non si può continuare come per il passato e non si può andare avanti. Entrambi i fronti puntano le loro carte sull’impraticabilità della soluzione opposta a quella su cui sono schierati, più che sulla praticabilità della propria, ma i tempi della crisi corrono veloci.

Europeisti e sovranisti in lotta,
ma uniti nello strangolamento del proletariato

Divisi e in lotta feroce fra di loro, i governi borghesi sono però assolutamente uniti e compatti nell’intento di scaricare i costi di questa gigantesca doppia crisi sulle spalle del proletariato, accollando ad esso, per generazioni, il fardello insostenibile dello smisurato debito di Stato con cui si accingono ad affrontare i problemi dell’attuale emergenza.

Non c’è nessun esponente di rilievo dei partiti borghesi, nessun capitalista o tecnocrate che non sfugga come la peste ogni ipotesi, per quanto blanda, di patrimoniale. Perfino la sbiadita proposta di Del Rio, che non è nemmeno una patrimoniale, bensì una innocua addizionale Irpef per gettare un po’ di fumo negli occhi dei lavoratori, è stata prontamente cassata. La ricetta che accomuna tutta la classe dominante è invece quella enunciata a chiare lettere da Draghi al Financial Times: cancellare il debito privato delle imprese e trasformarlo in debito pubblico. A questo si affianca ogni genere di proposta per stimolare un ambiente favorevole al massimo sfruttamento dei proletari e alla massima redditività per le aziende, a partire da contributi a fondo perduto e detassazioni sempre più marcate. Ciascun partito rivendica infatti per sé la capacità di meglio difendere quest’unico programma. Le proposte avanzate, quindi, sono accomunate dal medesimo impianto.

Il fronte “europeista” è adesso diviso fra chi avversa il MES e chi lo reputa, nella versione “priva di condizionalità”, un’opportunità da non perdere. Tutti però presentano gli eurobonds come la vera soluzione del problema, una soluzione “equa e solidale”, dalle dimensioni adeguate. A sentirli, sembra che i capitali raccolti con questo strumento finanziario piovano dal cielo. Parliamo invece di una montagna di debito pubblico, ancorché mutualizzato, che dovrà essere remunerato e rimborsato (o ricollocato sul mercato) e che peserà come un macigno sulle spalle dei proletari, sulle loro condizioni di vita e di lavoro. Dal loro sfruttamento, infatti, verranno succhiate le sempre più ingenti risorse per farvi fronte, così come alle tasche di profittatori, redditieri, parassiti, banche e fondi di investimento affluirà la massa enorme degli interessi su questo debito.

Il governo Conte punta al Recovery Fund

Certo, “l’Italia” preferisce gli eurobonds, cioè la borghesia italiana preferisce che si incrementi il debito pubblico nella forma diretta prevista da questo strumento anziché in quella indiretta e più pericolosa del MES. Quest’ultima soluzione, per i motivi sopra esposti, contiene il rischio di limitare lo spazio di azione delle nostre classi dominanti, di vincolarle maggiormente nel decidere la politica di bilancio, esponendole ad un controllo più stringente di borghesie imperialiste più forti, con obblighi più ravvicinati nel tempo, senza godere del vantaggio delle lunghe scadenze a cui sarebbero emessi gli eurobonds. Ma la massa degli interessi da pagare sarebbe imponente, calcolando anche che da tale strumento finanziario la borghesia conta di realizzare una raccolta di capitali molto superiore a quella messa a disposizione dal MES. E ovviamente, l’ingigantimento del debito non farebbe altro che accrescere le difficoltà del bilancio pubblico, rafforzando ulteriormente la sua funzione di spoliazione del proletariato. Basti ricordare che, con un debito al 135% del PIL, costruire ogni anno la legge di stabilità significa continuare a impegnare una quota sempre maggiore delle risorse future, come dimostrano le clausole di salvaguardia sull’IVA arrivate l’anno scorso a 23 mld e tuttora in ascesa. E questo nonostante un saldo primario (rapporto fra entrate e uscite al netto degli interessi sul debito) che è da anni in attivo, con la spesa sociale sistematicamente smantellata in nome della spending review e gli stanziamenti continui a favore dei mille interessi capitalistici che sono invece salvaguardati e protetti. Si può immaginare quali enormi passi in avanti farà la spinta per attuare contro i lavoratori una macelleria sociale senza precedenti quando la borghesia sventolerà un rapporto debito pubblico/PIL attorno al 150-155%. Se le classi dominanti saranno coperte dal carattere mutualistico del nuovo debito contratto, questo non varrà certo per gli sfruttati, come sempre esposti all’offensiva congiunta dei loro sfruttatori, italiani ed europei, accomunati dai medesimi interessi di rapina, utilizzatori a pari titolo delle istituzioni comunitarie che ne difendono le ricchezze e dei paradisi fiscali (l’Olanda, tanto per dire…) che ne assicurano l’intangibilità, un servizio che il capitale globale di ogni nazione apprezza sommamente e per il quale dimentica rapidamente le polemiche contro l’egoismo dei paesi del nord.

La linea di Salvini, Meloni e Tremonti

Il fronte sovranista, invece, denuncia le titubanze di Conte, che potrebbe decidere di “vendere la patria allo straniero” ricorrendo al MES.

Lega e FdI, con qualche diversità fra di loro, propugnano l’emissione di debito riservato agli italiani, a condizioni di favore (interessi più alti). A parte l’enfasi autarchica e l’adozione di un linguaggio bellico (“fare come in tempo di guerra”), la loro ricetta non sposta il problema. Si tratta in ogni caso di aumentare il debito di Stato e, pur sempre, di contare sulla BCE, che dovrà provvederà a comprare il nuovo debito contratto e a riacquistare i 364 mld € di titoli di Stato italiani che ha già in portafoglio.

Anche se la Lega e FdI si sono divisi nel voto al Parlamento europeo sui coronabonds, la loro proposta ricalca, con qualche volgarizzazione in più, quella di Tremonti. L’ex ministro berlusconiano mette subito le mani avanti contro la patrimoniale (“distrugge la fiducia, colpisce banche e assicurazioni, causa la fuga dei capitali all’estero”), sottolinea l’insufficienza degli strumenti messi in campo (BCE, BEI) e propone l’emissione di debito pubblico italiano a lunga o lunghissima scadenza, con annessa garanzia di esenzione da qualunque imposta presente o futura. La proposta di Tremonti, dunque, non preconizza nessuno strumento particolarmente innovativo. Si limita a sostenere la necessità di fare ulteriore debito, liberandolo da ogni prelievo fiscale. La sua specificità sta nel tentativo di emancipare tale operazione dalla richiesta di garanzie europee e quindi fa intravvedere, in filigrana, un percorso dell’Italia verso una minore integrazione con gli strumenti finanziari e monetari dell’eurozona. L’altro presupposto da cui muove la proposta Tremonti è l’esistenza di una enorme ricchezza finanziaria delle “famiglie italiane” (cioè dei borghesi) parcheggiata nelle banche domestiche e nei paradisi fiscali europei. La garanzia di esenzione da tasse presenti e future dovrebbe servire a mettere in appetito i detentori di questa ricchezza e invitarli al banchetto di una nuova grande abbuffata di debito pubblico. I proprietari di capitale monetario, tutta la genìa di speculatori e tagliatori di cedole che vivono già adesso come parassiti riscuotendo la “giusta remunerazione” dei loro capitali, potrebbero così essere allettati e spinti a “dare un aiuto alla patria”, purché …ad un tasso di interesse conveniente ed esente da rischio. Notiamo, en passant, che è lo stesso presupposto da cui muovono i fautori del debito europeo. D’Alema, ad esempio, nell’intervista a Repubblica del 3 aprile, sostiene che gli eurobonds potrebbero mobilizzare la ricchezza che si annida nelle pieghe del sistema finanziario. Date agli usurai la possibilità di arricchirsi e loro apriranno il portafoglio e …faranno avanzare l’integrazione europea!

Lo scontro che oppone europeisti e sovranisti non verte sulla necessità di fare più debito e, ovviamente, di accollarne l’onere ai lavoratori, dal momento che la ricchezza dei grandi capitalisti industriali, dei finanzieri, delle banche e dei possessori del debito pubblico è intoccabile, ma solo come fare questo debito, attraverso quali strumenti finanziari, nel quadro di quale prospettiva strategica dell’imperialismo italiano. E su questo terreno i sovranisti non hanno, per adesso, una linea praticabile, capace di affasciare gli interessi del grande capitale e di promuoverla come strumento per rinnovare l’alleanza col medio e piccolo capitale, soprattutto con quel mondo vasto e variegato sia di piccoli accumulatori che di artigiani e lavoratori autonomi in bilico fra possibilità di arricchimento e proletarizzazione, una rilevante parte dei quali vedrà aprirsi con la crisi lo spettro del fallimento e della difficoltà del vivere.

Un esempio di “social-sovranismo”: la posizione di Fassina

Due parole infine sui “sovranisti di sinistra”. Incarnano una posizione che da tempo cerca spazio fra i movimenti di lotta e opposizione sociale esistenti, una posizione da respingere e molto pericolosa perché, con un linguaggio e una proposta politica apparentemente radicale, in realtà disegna una prospettiva assolutamente nazionalistica, completamente subalterna alla borghesia italiana. Non possiamo proporne qui una critica complessiva, ci limitiamo ad una chiosa sulla questione specifica del MES. Fassina, leader di Patria@Costituzione, in un articolo di qualche giorno fa, mostra tutta la sua preoccupazione “nazionale”. Ecco come riassume il senso del comunicato dell’Eurogruppo: “In sintesi, siamo in trappola. Il nostro debito pubblico arriva su un sentiero insostenibile e il MES con il connesso programma di aggiustamento macroeconomico e strutturale è il capestro politico per arrivare all’Outright Monetary Transaction, lo strumento predisposto dalla BCE nel 2012 per dare credibilità al whatever it takes di Mario Draghi”. La sua proposta è la seguente: “…per rendere sostenibile un debito pubblico superiore al 150% del PIL… [l’unico intervento sensato sono] gli acquisti della BCE per finanziare i maggiori deficit necessari a combattere il Covid-19, alimentare la ricostruzione “post-bellica” e, contestualmente sterilizzare i Titoli di Stato acquistati da ciascuna banca centrale nazionale nell’ambito del Quantitative Easing”. Conclude poi affermando che si tratta di una strada “in salita e impervia, ma di minore resistenza politica per salvare l’Italia e l’eurozona… [oppure] si prenda atto che è necessario recuperare, attraverso un “divorzio amichevole” … l’autonomia monetaria sciaguratamente ceduta… [Occorre] rideterminare le basi dell’Unione europea; dal sempre più pericoloso miraggio federale, ad una confederazione di democrazie nazionali”. Ecco servito il piatto della via italiana al confederalismo di democrazie nazionali. Dove sono finiti i proletari in quest’orgia di vie nazionali per reagire alla crisi? Facile, non ci sono mai stati, o meglio, stanno laddove sono da sempre: a tirare la cinghia per ripagare il debito che le classi dominanti contraggono per alimentare ad un tempo le loro ricchezze e la stabilità del loro dominio. Secondo Fassina, l’esito che si va profilando è che “siamo in trappola”. In effetti, vediamo Unicredit, Luxottica, ENI, Leonardo, Fincantieri, Tronchetti Provera, Luca Cordero di Montezemolo e gli altri bei nomi del salotto buono della finanza e dell’industria nostrana arrabattarsi nelle ristrettezze insieme ai proletari degli stabilimenti FCA, dell’ILVA di Taranto, alle centinaia di migliaia di facchini della logistica, al personale sanitario che muore nelle corsie degli ospedali e ai milioni di proletari delle industrie che non hanno chiuso nonostante la pandemia “per non cedere quote di mercato ai concorrenti”… Ma la preoccupazione di Fassina è “salvare l’Italia e l’eurozona” e, se l’eurozona non funziona, si tratta pur sempre di salvare il bene supremo: l’Italia, cioè il capitale italiano, i suoi profitti, il suo posto al sole fra gli sfruttatori del vecchio continente e del mondo intero. Nell’immediato, il rischio è di arrivare alle Outright Monetary Transactions (OMT) e contro questo pericolo invoca che si dia il via libera, da subito, esattamente allo stesso meccanismo, solo privato della aleatorietà che adesso ne rende incerta durata e caratteristiche, volto a favorire l’emissione di tutto il debito nazionale necessario. In altre parole, lasciamo saldamente in mano alla nostra borghesia il controllo dell’intero meccanismo di indebitamento, superiamo pure il 150% di rapporto debito/PIL; schiacciare il proletariato per ripagarlo sarà una dura ma ineludibile necessità, l’importante è che a farlo siano i “nostri” padroni. La strada di un’alleanza con il sovranismo tout-court ha un terreno comune da esplorare.

Nazionalismo ed europeismo sono armi contro i proletari

Ci occuperemo in un altro momento di prendere in considerazione i sovranisti di sinistra ancor più decisi di Fassina nel rivendicare l’uscita dell’Italia dall’euro. Basti dire che il punto di approdo nazionalistico è il medesimo e così la caratterizzazione della loro politica come subalterna alla borghesia e antiproletaria.

Insomma, tutti fautori dell’aumento del debito di Stato, tutti a fare la voce grossa per convincere i proletari che più deficit, in salsa europea o autarchica, sia la strada maestra, anzi l’unica strada per uscire dalle secche della crisi. La sconfinata ricchezza accumulata per decenni dal grande capitale, questa montagna di lavoro non pagato, estorto agli operai e appropriato dai capitalisti e dai parassiti di ogni genere, è intoccabile e deve essere incrementata e salvaguardata. Ma la crisi che avanza, e che raggiungerà profondità sconosciute, lascia sempre meno spazio alle soluzioni intermedie. O i proletari accetteranno di farsi mettere al collo un cappio sempre più soffocante, di vedere la loro condizione di classe sprofondare indietro di decenni e di consegnarsi inermi ai propri sfruttatori, o sceglieranno di lottare a fondo contro il progetto della borghesia di fare di loro carne da macello, si organizzeranno per la battaglia, uniranno le loro forze per dichiarare guerra alla società del capitale, per colpire sempre più a fondo la proprietà privata della ricchezza, dei mezzi e delle condizioni di produzione. Il nemico è il capitale e gli apparati politici e istituzionali, nazionali e internazionali, che ne assicurano il dominio. E soprattutto, il nemico è in casa nostra.


Glossario essenziale

Bond – Obbligazione. Si chiamano così tutti i titoli di debito, cioè i titoli emessi da uno Stato, un Ente, un’azienda privata, ecc. per finanziarsi sul mercato. Ad esempio, i BOT, i CCT, i BTP, ecc. (cioè i titoli di Stato italiani) sono bond, ossia titoli con i quali lo Stato certifica che ha ottenuto un prestito che dovrà restituire ad una certa data pagando un determinato interesse stabilito all’atto dell’emissione del titolo. La stessa operazione la può fare una società privata quotata in Borsa.

Bund – Si chiamano così i titoli di Stato emessi dalla Germania. Devono la loro fama al fatto di essere presi come riferimento per calcolare il differenziale di rendimento (spread) con quelli degli altri paesi. Più è alto lo spread fra un titolo di Stato di un paese europeo e il Bund, maggiore è il tasso di interesse che questo paese paga per finanziarsi sul mercato.

Coronabonds – Sono Eurobonds emessi per fronteggiare le spese dell’epidemia di coronavirus.

Declassamento – Quando un’agenzia di rating (ad es. S&P) esprime un giudizio negativo su una impresa quotata in Borsa (perché è in difficoltà finanziarie, ha troppi debiti, ecc.) o uno Stato (perché ha accumulato una eccessiva quantità di debito e quindi aumenta il rischio che non sia in grado di far fronte ai propri impegni finanziari) procede al declassamento dei relativi titoli. Ogni agenzia di rating ha la sua scala di valutazione fondata su lettere, numeri, ecc. Ad es. i titoli valutati AAA (tripla A) sono quelli di “qualità migliore”; quelli valutati “high yield” (alto rendimento, come i titoli di Stato della Grecia) sono di bassa qualità ed è per questo che rendono tanto, perché l’interesse elevato che pagano deve compensare gli investitori per il rischio più alto che si assumono. Spesso, questi titoli sono anche chiamati “junk-bonds”, cioè “obbligazioni-spazzatura”.

ECCL – La sigla sta per Enhanced Conditions Credit Line, cioè linea di credito a condizioni rafforzate. E’ la modalità con cui il MES effettua i prestiti ai paesi con rapporto debito/PIL superiore al 60%.

Eurobonds – Sono titoli di debito pubblico che non sono emessi da un singolo Stato, ma da tutti gli Stati dell’eurozona, cioè sono un debito comune che questi Stati contraggono.

MES – Meccanismo Europeo di Stabilità. E’ un fondo, finanziato dai governi nazionali, che ha come scopo quello di prestare denaro al/ai paesi che ne facciano richiesta. I suoi prestiti, se il paese che chiede il suo intervento ha un rapporto debito/PIL superiore al 60%, sono concessi attraverso una procedura sottoposta a stretta “condizionalità”, cioè lo Stato che usufruisce del prestito è sottoposto ad un severo controllo dei propri bilanci e gli si possono imporre “manovre correttive” particolarmente onerose (Grecia 2012).

OMT – Sta per Outright Monetary Transactions, all’incirca Transazioni Monetarie Immediate. Sono gli acquisti in Borsa, da parte della Banca Centrale Europea, dei titoli di Stato di un determinato paese. Si distinguono dal QE perché sono rivolti solo ai titoli di Stato di un paese specifico. Lo scopo delle OMT è quello di impedire che ondate di vendita, sostenute dalla speculazione, possano far crollare il prezzo di questi titoli (quando la vendita supera la domanda il prezzo di una “merce” cala), facendone automaticamente rialzare il rendimento (se un titolo di Stato costa la metà di prima, il suo rendimento, cioè l’interesse che paga e che rimane immutato, in termini relativi raddoppia). Se il rendimento sale, lo Stato che ha emesso quel titolo dovrà progressivamente pagare di più per finanziarsi, con un aggravio sul suo bilancio.

Quantitative Easing (QE) – Il meccanismo in base al quale la Banca Centrale Europea acquista in Borsa titoli emessi sia dagli Stati (debito pubblico) che dalle società private quotate in Borsa (debito privato) per immettere denaro (liquidità) nell’economia.

Recovery Fund – Fondo per la ripresa. E’ il fondo proposto dalla Francia alla riunione dell’Eurogruppo del 9 aprile. Il comunicato finale dell’Eurogruppo fa riferimento alla possibilità che questo Fondo sia finanziato con “strumenti innovativi”, senza specificare quali.

Sure – “Sicuro” – Si chiama così il fondo varato in sede europea per finanziare i meccanismi di “cassa integrazione” dei diversi paesi.