Francia: una lotta imponente, davanti a un bivio: radicalizzarsi, o essere sconfitta.

I lavoratori francesi stanno dando prova di volersi battere sul serio contro la contro-riforma delle pensioni voluta a tutti i costi dall’asse Macron-padronato, e così facendo stanno dando una lezione a tutti i lavoratori europei, quelli italiani in particolare, su come condurre una lotta vera.

Il 7 marzo è stata la SESTA giornata di lotta contro una legge che:

  • aumenta l’età pensionabile da 62 a 64 anni;
  • riduce il rapporto tra pensione e ultimo salario dal 74% al 55%
  • aumenta il divario tra le pensioni delle donne e degli uomini dal 12% al 36%.

E alla sesta giornata di lotta in due mesi, indetta da 8 sindacati riuniti nell’Intersyndicale, il 7 marzo i lavoratori francesi non hanno mostrato segni di stanchezza. Anzi sono scesi ancora più numerosi in piazza in circa 300 città: 1milione 280 mila secondo la polizia, 3,5 milioni secondo la CGT. Oltre a Parigi (81 mila partecipanti secondo la polizia, 700 mila secondo la CGT), sono scese in strada in decine di migliaia in numerose altre città (Tolosa, Bordeaux, Marsiglia, Nantes, Limoges, Tarbes, Narbonnes tra le altre) in manifestazioni partecipate e combattive che hanno coinvolto anche settori studenteschi, e con slogan di sfida al governo che sta invece cercando di fare approvare la riforma in fretta e furia in Parlamento entro il 16 marzo.

Settori consistenti delle mobilitazioni hanno lanciato la parola d’ordine “fermare la Francia”, per costringere con la lotta il governo a ritirare la sua riforma. In diversi settori strategici, le ferrovie, il trasporto pubblico locale, la nettezza urbana, il settore petrolchimico, la produzione di energia elettrica e i rifornimenti di carburanti e del gas proveniente dai rigassificatori, i lavoratori hanno bloccato tutto. E gli scioperi proseguono nella modalità “reconductible”, vengono cioè prorogati di giorno in giorno dalle assemblee dei lavoratori senza bisogno di nuovi preavvisi. La grande maggioranza dei treni regionali, interregionali, intercity e ad alta velocità, gli autobus della zona parigina sono rimasti fermi, la disponibilità di energia elettrica (dalle centrali nucleari) è stata ridotta del 15%, le pompe di benzina non ricevono più carburanti dai depositi di Total e ogni giorno che passa un numero crescente resta a secco… Nonostante tutti questi disagi, la maggioranza della popolazione è solidale con scioperi e manifestazioni. Ed è da notare che anche l’industria privata (Stellantis, Continental, Arkema, etc.) è stata coinvolta dall’ondata di scioperi.

Con l’aumento dell’età pensionabile il capitale cerca di appropriarsi di più anni di lavoro per ciascun lavoratore, di costringere i proletari a fornire ogni loro energia residua per l’attività che produce profitto per il capitale, e restringere il tempo in cui le persone possono disporre del proprio tempo per cercare, almeno, di realizzare se stesse. Questo vale nell’arco della giornata, della settimana lavorativa, come della vita intera. “Lavoriamo per vivere, non viviamo per lavorare”: la lotta contro l’aumento dell’età pensionabile è tutt’uno con la lotta per la riduzione dell’orario di lavoro, anzi, in questo caso: contro l’allungamento del tempo di lavoro nell’arco della vita.

Certo, quella in corso in Francia è una lotta limitata alla questione pensionistica, che non tocca questioni come la guerra, sulla quale i sindacati promotori sono appiattiti sulle posizioni del governo francese (solo piccolissimi gruppi di lavoratori e compagni stanno denunciando che quella in Ucraina è una guerra imperialista contro i proletari ucraini, russi, europei e di tutto il mondo), e nemmeno investe con la stessa energia la perdita di potere d’acquisto dei salari, ma resta comunque una lotta di auto-difesa del proprio tempo di vita importante e giusta.

Al confronto con la Francia, l’Italia appare il regno della quiete sociale, dell’inazione e dell’abulia. Le varie riforme pensionistiche, iniziate nel 1995 con la Dini, e proseguite nel 2010 e 2011 con la Sacconi e Fornero hanno tagliato le pensioni introducendo il sistema contributivo e alzato l’età pensionabile non a 64, ma a 67 anni (riforme Sacconi e Fornero 2010 e 2011, con età pensionabile collegate alla speranza di vita) trovando nei sindacati confederali al massimo la “resistenza” di uno sciopero una tantum indetto per salvare la faccia ai vertici sindacali senza dar troppo fastidio a governo e padroni. Non certo le 6 giornate di lotta in due mesi già effettuate in Francia, con la settima indetta per sabato 11 marzo.

I pachidermi confederali italiani, che vantano milioni di iscritti, 4 volte quelli dei sindacati francesi, portano in piazza, le poche volte che ci vanno per manifestazioni di facciata, ormai solo i loro funzionari. Il perché è facile capirlo: in mancanza di obiettivi chiari da conquistare, in presenza di atteggiamenti servili nei confronti dei governi, compreso quello di destra della Meloni, i lavoratori si comportano come con le elezioni: meglio starsene a casa che andare in strada a farsi prendere in giro. E l’ultimo “sciopero generale”, indetto il 16 dicembre scorso per la prima volta dopo anni, non ha fermato nulla. Perché non organizzato nei luoghi di lavoro e perché privo di contenuti. CGIL, CISL, UIL (e UGL che sostiene apertamente il governo Meloni) hanno di fatto fiancheggiato tutti i governi degli ultimi decenni, per continuare ad avere i finanziamenti pubblici tramite CAF e patronati, e il quasi monopolio legale della rappresentanza per tenere fuori dai negoziati con i padroni i sindacati combattivi. È così che hanno lasciato passare senza una lotta vera sia la riforma delle pensioni che tutte le riforme precarizzanti del mercato del lavoro fino al Jobs Act di Renzi, che hanno privato i lavoratori di gran parte dei diritti conquistati in anni di lotte, esponendoli a ogni sorta di ricatti padronali. Sappiamo bene che la passività delle masse non è solo l’effetto dello sfacciato collaborazionismo dei vertici confederali. Vi è una buona dose di paura, paura di perdere il posto di lavoro trovato a fatica e il salario, che trattiene molti lavoratori dalla lotta. Una paura ingigantita dall’estrema precarizzazione del lavoro. E all’altro polo del lavoro dipendente, in settori di lavoratori che si ritengono “garantiti” c’è lo spirito di conservazione di privilegi relativi o percepiti tali.

Tuttavia anche i proletari ed i salariati francesi debbono stare ben in guardia dalle loro burocrazie sindacali che, se finora hanno in una certa misura assecondato, con prudenza e abilità, la spinta di massa contro la riforma Macron, ora che si avvicina la stretta finale e la mobilitazione si allarga di continuo e diventa sempre più animata, danno segni preoccupanti, se non scandalosi, di essere pronti a sabotarla, come quello di appellarsi a Macron per un incontro urgente con lui onde evitare che la situazione esploda. Testualmente: “il silenzio del presidente della Repubblica costituisce un grave problema democratico che conduce immancabilmente ad una situazione che potrebbe diventare esplosiva”. In contemporanea, settori dell’Intersyndicale organizzano incontri con i deputati della destra – proprio mentre, al contrario, i comparti più combattivi delle mobilitazioni premono con decisione per lo sciopero a tempo indeterminato dal momento che la data per la finale approvazione della legge è il vicinissimo 16 marzo.

Il movimento di lotta si trova, quindi, davanti ad un bivio: o contraddire sé stesso implorando la benevolenza di Macron, e lasciarsi imbrigliare dalle piccole concessioni selettive prospettate dalla premier E. Borne, oppure indurire la protesta e fermare del tutto la Francia contro il padronato e il suo governo. Il Reseau pour la grève générale spinge in questa direzione appellandosi all’Intersyndicale “perché allarghi le sue parole d’ordine ed integri in esse le rivendicazioni salariali. Mobilitandosi in modo massiccio e generalizzando lo sciopero, il mondo del lavoro, la gioventù e l’insieme delle classi popolari hanno oggi un’occasione storica per ottenere non soltanto il ritiro della riforma pensionistica, ma anche la riduzione da 60 a 55 anni dell’età della pensione per i mestieri usuranti, l’aumento generale dei salari e la loro indicizzazione in rapporto all’inflazione”.

Anche in questo appello, però, c’è un certo strabismo perché le direzioni sindacali consorziate nell’Intersyndicale hanno marciato in tutt’altra direzione finora, facendo il possibile (e qualcosa in più) per circoscrivere la protesta, e scoraggiare lo sciopero nella forma “reconductible” – c’è una tradizione, ahinoi, particolarmente solida in Francia, di scarsa fiducia della capacità di auto-organizzazione della massa dei proletari, mentre se non si sviluppa e si radicalizza questa auto-organizzazione, la lunghissima fase di arretramento della classe operaia e dell’insieme del proletariato non potrà avere fine. E nella Francia di oggi, nulla sarebbe più frustrante che essere sconfitti dopo una così ampia mobilitazione per avere accettato di restare entro il perimetro delle compatibilità d’azione fissato dalle burocrazie sindacali.

Che ci si accusi pure di essere estremisti e sognatori, ma permetteteci di affermare che in un movimento di questa portata i militanti rivoluzionari avrebbero dovuto portare con ben altra determinazione la denuncia della guerra e dell’economia di guerra. Infatti se Macron, finora, appare determinato a non cedere di un pollice, è perché la Francia va impegnata nella corsa agli armamenti e alla rispartizione del mercato mondiale, e in questo contesto non c’è spazio per “fantasie infantili” come la riduzione generalizzata degli orari di lavoro, ma solo per il loro allungamento e la loro intensificazione. Guerra esterna e guerra interna ai proletari e agli sfruttati si tengono strettamente. E far finta, tanto più in un contesto caldo del genere, che la guerra in Ucraina e la generale tendenza alla guerra sia una questione a sé, separata dai conflitti sindacali, è cecità suicida.

Al fianco degli operai, dei proletari, dei salariati di Francia perché portino fino in fondo la loro lotta al governo Macron e lo mettano in ginocchio, senza lasciarsi fermare dai loro “capi” ad un passo o due dal traguardo! Sarebbe lo squillo di tromba che attendono in tanti paesi milioni di proletari/e.

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