Genova come Vajont – Fatale non è la Natura, ma il Capitale

Nel 55° anniversario della catastrofe del Vajont, mentre è ancora aperta la ferita del Ponte Morandi di Genova, ripubblichiamo un articolo pubblicato nel 50° del Vajont, che mette a nudo le responsabilità dei grandi gruppi capitalistici – le stesse che emergono dalle indagini su Genova

Vajont – Una frana che non s’è mai fermata
(da: PagineMarxiste n° 34, novembre 2013)
Mezzo secolo rappresenta uno spazio temporale troppo breve per dimenticare tragedie come quella del Vajont. Anzi, potremmo dire che dopo decenni in cui la memoria della strage era rimasta in angusti confini, negli ultimi 15 anni almeno l’attenzione verso quella tragedia sia andata progressivamente aumentando.
Oggi sono in molti a sapere, ad esempio, che non si trattò di un cedimento strutturale della diga, come avvenuto tragicamente quattro anni prima a Malpasset-Fréjus, bensì di una frana della montagna che proiettò nello stretto vallone 25 milioni di m3 di acqua e detriti a velocità e potenza spaventose, pari a due bombe atomiche, che spazzarono via Longarone a diverse frazioni della valle del Piave. Ma, soprattutto, molti sanno che, a differenza di quanto si tentò di far credere, fu tutt’altro che una sciagura naturale inevitabile.
Il progetto di costruzione della diga venne portato avanti dalla Società Adriatica di Elettricità (SADE). Lo sbarramento ad arco poggiava su rocce calcaree resistenti e compatte mentre, al contrario, le rocce del monte Toc, sulla sponda sinistra dell’invaso, erano assai deformabili e fessurate. Una pericolosa avvisaglia, che, confermando quanto riscontrato nelle relazioni geologiche e negli studi specifici di quelle montagne avrebbe dovuto mettere in guardia i progettisti, si verificò il 22 marzo 1959, quando 3 milioni di metri cubi di rocce franarono nel vicino bacino artificiale formato dalla diga di Pontesei (dimensioni di 1/3 rispetto a quella del Vajont), sollevando un’ondata di 20 metri che travolse il custode Arcangelo Tiziani, il cui corpo non venne mai ritrovato. Dopo l’evento venne dimezzato il carico della diga, e l’ingegner Carlo Semenza, progettista tanto di Pontesei quanto del Vajont, incaricò il figlio Edoardo e l’austriaco Leopold Müller, entrambi geologi, di studiare il versante sinistro della valle del Vajont, quello appunto del monte Toc. I risultati rivelarono la presenza di una paleofrana preistorica, che poi sarebbero stati confermati dalla comparsa di una fessura a forma di M. La costruzione di uno sbarramento artificiale in un vallone alto e stretto su rocce compatte non poté che favorire la penetrazione dell’acqua nelle rocce laterali, meno solide, minando la stabilità della montagna sul lato sinistro orografico. Era il caso, dunque, di accantonare il progetto, perché un disastro, in un simile contesto, era quantomeno prevedibile; ma, con tanti dubbi e pochi scrupoli, prevalsero gli interessi economici. La SADE completò la terza prova di invaso, nonostante le chiare avvisaglie provenienti dalla montagna.
Ne La leggenda del Piave, scritto all’indomani della catastrofe («Il Programma Comunista», 1-15 novembre 1963), Bordiga ricordava che la pressione dell’acqua sui fianchi dell’invaso aumentava a dismisura in proporzione all’altezza dello sbarramento ad arco (con la parte centrale rientrante) e quello – strettissimo – del Vajont era a quell’epoca il più alto al mondo; che la toponomastica stessa riferita al monte (“Toc”, pezzo, roccia a pezzi) ed al vallone (“Vajont”, va zo, va giù), avrebbe potuto consigliare meglio geologi progettisti ed ingegneri; che il primo imputato era il bugiardo mito del “Progresso” e che nel disumano sistema del Capitale i problemi tecnici si riducono a problemi economici, ovvero ridurre i costi ed alzare i ricavi.
Nel 1997, grazie all’orazione civile dell’attore teatrale Marco Paolini, trasmessa da Rai2 con enorme successo di pubblico in occasione del 34° anniversario della strage, è stata rivalutata la figura di Tina Merlin, già staffetta partigiana e cronista dell’Unità, che intraprese dal ’59 una solitaria ed ostinata battaglia contro la SADE, dando voce ai timori dei montanari di Erto, denunciando i pericoli del progetto, riferiti in particolare al versante opposto a quello di Longarone (quello del monte Salta, in effetti poi raggiunto, così come Erto, da una delle ondate provocate dalla frana): Tina venne attaccata, querelata, denunciata, processata per aver “diffuso notizie false e tendenziose, atte a turbare l’ordine pubblico”; finì assolta. Mentre il suo partito, quello che di comunista aveva solo il nome, che pure si era opposto al progetto, rinunciò ad uno scontro frontale limitandosi ad utilizzare gli strumenti istituzionali, lasciando di fatto il campo libero alla stampa borghese che, nonostante la strage, minimizzò parlando di fatalità ed evento naturale, arrivando a lanciare (Montanelli) accuse di sciacallaggio. Dino Buzzati scrisse sul «Corriere» che “un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui”. Giorgio Bocca scrisse che l’uomo non poteva dominare la forza della natura. Secondo il settimanale della DC «La Discussione» “quella notte nella valle del Vajont si [era] compiuto un misterioso disegno d’amore”.
Nel suo libro, Sulla pelle viva, uscito (solo) nel 1983 quando finalmente riuscì a trovare un editore disposto a pubblicarlo, Tina Merlin scrisse: Resterà un monumento a vergogna perenne della scienza e della politica. Un connubio che legava strettissimamente, vent’anni fa, quasi tutti gli accademici illustri al potere economico, in questo caso al monopolio elettrico SADE. Che a sua volta si serviva del potere politico, in questo caso tutto democristiano, per realizzare grandi imprese a scopo di pubblica utilità – si fa per dire – dalle quali ricavava o avrebbe ricavato enormi profitti. In compenso il potere politico era al sicuro sostenuto e foraggiato da coloro ai quali si prostituiva. La regola era – ed è ancora – come in tutti gli affari vantaggiosi, quella dello scambio. Il monumento si chiama Erto.
Degli 11 imputati al processo di primo grado, due vennero condannati in tutti i gradi di giudizio (Alberico Biadene, responsabile in capo della diga e Francesco Sensidoni, ingegnere capo del servizio dighe), due nel frattempo erano deceduti, uno (il capocantiere Pancini) si suicidò il giorno prima del processo di primo grado, tenutosi a L’Aquila. Nel frattempo la maggior parte dei parenti delle vittime aveva accettato i risarcimenti in base ad una sorta di tariffario dei morti: 1,5 milioni per i genitori, 800mila lire per i fratelli conviventi, 600mila lire per quelli non conviventi … sarebbero trascorsi 40 anni prima che la Montedison, subentrata alla SADE-ENEL, risarcisse le comunità colpite.
Come ha scritto, pubblicandolo in rete, il compagno Elder Rambaldi nei giorni dell’anniversario, occorre aprire gli occhi “a partire dalle modalità losche della concessione dei lavori; all’esproprio delle terre dei contadini; alla violenza sugli oppositori; alla complicità tra impresa costruttrice e stato; alla prostituzione di settori accademici; alla noncuranza della storia della valle; agli avvertimenti contemporanei alla costruzione della diga, come frane e crolli nei paesi circostanti e come la prima frana del Vajont nel 1960; all’imboscamento di studi scientifici che segnalavano elevati pericoli; al depistaggio riguardo segnali di scosse di terremoto e slittamenti della montagna; agli studi e ai lavori per provare ad aggirare un problema non più risolvibile (galleria di by-pass); ai lavori della diga pagati dai contribuenti due volte (prima attraverso finanziamenti dello stato e poi con l’indennizzo per la nazionalizzazione) … e ancor dopo la tragedia l’opera di falsificazione da parte di SADE, stato, e dei loro servi; l’elemosina verso i superstiti trattati come numeri; la speculazione di professionisti sui diritti dei superstiti; la speculazione con la “legge Vajont” (n. 357/1964) in cui venivano facilmente elargiti miliardi di lire ad imprese estranee al disastro per dare inizio allo sviluppo in quel Nord-Est ancora in ritardo. Allora, come sempre, l’opera è spacciata come necessaria. Mentre in realtà la necessità è solo per un sistema barbaro”. Ebbene sì, l’odierno cosiddetto “miracolo del Nord-Est” è figlio di quella sciagura; imprenditori senza scrupoli acquistarono sotto costo le licenze destinate ai superstiti aprendo attività anche in altre località.
Quella notte il Piave, portando a valle centinaia di cadaveri, aveva “perso il suo titolo di nobiltà”, come scrisse Bordiga. Aggiungiamo che, assieme ai cadaveri, il Piave portò a valle un “sistema” che perdura ancor oggi. Un sistema che continua a definire le catastrofi come “naturali”, i danni conseguenti come “imprevedibili”, al limite generati da “incuria”. Ma il tratto comune è quello del dolo, non della colpa. In nome del profitto. Un “progresso” fatto di fabbriche di morte, di saccheggi e devastazioni, di opere al risparmio che crollano, e che l’onda trascina via.

Alessandro Pellegatta