Giovani in piazza ad Hong Kong: “primavera asiatica”, un’altra TienAnMen o cos’altro?

HONG KONG-CHINA-POLITICS-DEMOCRACY

Per spiegare quanto sta avvenendo a Hong Kong i giornalisti tendono a usare questi due termini di paragone, le primavere arabe e la più grande rivolta studentesca mai vista in Cina. Ma la storia raramente si ripete uguale nello stesso paese o nello stesso tempo in luoghi diversi.

I giovani liceali e universitari che si sono mobilitati a Hong Kong in comune coi proletari e i giovani arabi del 2011 hanno poco, salvo l’età. Non sono l’avanguardia di una enorme massa di giovani disoccupati che rappresentano quasi la metà della popolazione come nei paesi del Nord Africa. La fascia 15-25 anni a Hong Kong raccoglie il 6,3% della popolazione, per quanto l’immagine di piazze gremite ci faccia pensare il contrario, (in Italia la stessa fascia è il 9,9% della popolazione…). La disoccupazione a Hong Kong è del 3,3%, per ora i giovani trovano lavoro con una certa facilità e sono altamente qualificati. Inoltre il PIL pro capite a Hong Kong è di 50.900 $. Sappiamo che si tratta della media del pollo, comunque il 20% della popolazione vive sotto il livello di povertà, sono per lo più immigrati illegali dalla Cina, dal Vietnam ecc. enon mandano i figli all’Università. Dietro il movimento per la democrazia ci sono giuristi e accademici, i giovani che si sono mobilitati temono di non poter, come i loro padri, acquistare una casa, avere una confortevole carriera o dar vita a nuovi affari. Sono i rampolli di un ampio strato di piccola e media borghesia minacciati nei loro livelli di vita dall’abbraccio soffocante della Cina.

Può stupire un italiano, abituato all’infanzia prolungata di molti giovani, che il leader abbia solo 17 anni e che a 15 abbia organizzato una manifestazione di 120 mila giovani contro la riforma scolastica improntata al modello cinese.
Ma appunto Tien An Men o la Rivoluzione Culturale Cinese ci spiegano che sempre dietro queste masse di giovani che protestano ci sono gruppi politici o economici che stanno ingaggiando una lotta contro il gruppo dirigente, per cambiarne la direzione.
I giovani di Tien An Men chiedevano un cambiamento sociale, più libertà ma anche più giustizia sociale, al loro fianco si schierarono decine di migliaia di operai, che approfittarono di quella protesta per organizzarsi in sindacato indipendente.

Nel caso di Hong Kong la protesta sta maturando da anni ed è espressione di un forte desiderio di autonomia se non di indipendenza.

Per capire cosa sta succedendo il leader cinese Xi Jinping ha convocato il 22 settembre a Pechino 70 fra i più ricchi ed influenti tycoon di Hong Kong, fra cui Li Ka-shing, considerato l’uomo più ricco in Asia, l’armatore Tung Chee-hwa e altri rappresentanti degli interessi immobiliari, bancari, proprietari di giornali e televisioni, o di casinò dove si “lavano” migliaia di banconote “sporche” e i proventi del traffico di droga e prostituzione. Va da sé che i Tycoons si sono espressi contro l’occupazione simbolica ma anche concreta, del cuore del mondo degli affari; si sono dichiarati “patrioti” come è giusto dal momento che la loro patria è dove si fanno profitti ed è la China di Xi Jimping che garantisce i loro affari. Tanto più che uno degli obiettivi polemici della protesta è il gap, il solco che sta dividendo i pochi miliardari da strati piccolo borghesi e impiegatizi che rischiano l’impoverimento. La parola democrazia evoca per questi tycoon come per Xi Jinping il rischio di dover adeguarsi allo welfare state di tipo europeo, di dover garantire agli operai servizi salute e pensioni.

Hong Kong, colonia inglese per 150 anni, è tornata alla Cina nel 1997 e ha ottenuto lo status di Regione Speciale (SAR), con amministrazione propria, possibilità di intrattenere relazioni economiche (commercio, investimenti) e intergovernative proprie, ad esempio Hong Kong ha consolati indipendenti firma accordi bilaterali con governi, una propria politica di immigrazione, tanto che fra Hong Kong e Cina si viaggia con passaporto, ma non una politica estera e una difesa proprie. Parlando di Hong Kong e della necessità di preservarne il tessuto capitalistico di successo, Deng aveva affermato “Cos’è un patriota? E’ uno che rispetta la nazione cinese, appoggia sinceramente la riassunzione di sovranità su Hong Kong e ha cura di non impedire la stabilità e la prosperità di Hong Kong. Non importa se il patriota crede nel capitalismo, nel feudalesimo o nella schiavitù. Non gli chiedo di credere nel sistema socialista della Cina, ma di amare allo stesso grado la Cina e Hong Kong”.

Questa situazione di “Un paese, due sistemi”, definita dalla Dichiarazione Congiunta anglo-cinese del 1997 prevedeva che Hong Kong conservasse il suo sistema economico e le sue istituzioni sociali fino al 2047. Questo è stato scritto anche nella Costituzione di Hong Kong (la cosiddetta Basic Law). Ma l’interferenza di Pechino è cominciata da subito; tutti i premier sono stati scelti da un Comitato formato da 1200 cittadini scelti nella elite politica e degli affari, preferibilmente yes-men nei confronti di Pechino: così è stato per C. H. Tung (1997-2005). Donald Tsang (2005-12) fino all’ultimo, C.Y. Leung, che ha raggiunto impressionanti vertici di impopolarità, soprattutto dopo che ha tentato di introdurre nelle scuole curricula e piani di lavoro, testi di studio simili a quelli cinesi. Il premier ha anche tentato di costruire intorno alle università un cordone sanitario di polizia che impedisca i contatti con giornalisti e uomini politici di altri paesi. Molti professori considerati non in linea sono stati allontanati. Ancora più dure le misure prese contro giornali e giornalisti troppo indipendenti (ad esempio il South China Morning Post è stato messo sotto tutela con la complicità del proprietario malaysiano Robert Kuok; allontanati dei veterani delle inchieste come Paul Mooney e Kevin Lau del Ming Pao Daily; Lau è poi sfuggito a un attentato come Jimmi Lai del Apple Daily, Chen Ping del Sun Affairs e Tony Tsoi del House News. I giornali denunciano come i servizi segreti cinesi stiano collaborando attivamente con la malavita locale.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la comunicazione che nelle elezioni del 2017 il premier di Hong Kong sarebbe sì stato eletto a suffragio universale dai cittadini, ma dentro una rosa di 2-3 nomi pre-selezionati da Pechino.

L’ostilità verso la Cina è diffusa in tutti gli strati sociali per ragioni spesso molto concrete.
I cinesi della terraferma, ovviamente appartenenti agli strati alti, acquistano il 30% delle merci di lusso, sono i principali clienti dei grand hotel; la loro corsa all’acquisto di case ha fatto crescere in maniera esorbitante i prezzi delle abitazioni, tanto che nemmeno i giovani della classe media possono più aspirare a un appartamento in proprietà. Centinaia di migliaia di migranti dal continente cercano di piazzare i figli nelle scuole di Hong Kong che sono considerate migliori, impedendone l’accesso ai nativi. Addirittura fanno incetta di latte per i neonati, (dopo lo scandalo del latte avariato nel 2008 i genitori cinesi hanno la psicosi di vedere i loro piccoli avvelenati) e le madri dei quartieri poveri di Hong Kong ne restano prive. Un numero spropositato di donne incinte cerca di partorire a Hong Kong per dare ai figli la doppia cittadinanza, tanto che le madri locali non trovano più posto nelle cliniche e devono partorire in casa (l’ultimo dato disponibile è del 2010 e parla di un 37% di bambini nati a Hong Kong da genitori del continente). Il gruppo Facebook che ha convocato i dimostranti delle ultime settimane ha definito i cinesi del continente “locuste”. Un docente universitario di Pechino ha contraccambiato chiamando gli abitanti di Hong Kong “cani bastardi aggiogati al carro dell’imperialismo inglese”.

Gli studenti a Hong Kong diventati bersaglio di gas urticanti e pallottole di gomma, con a difesa solo gli ombrellini di seta, non possono non suscitare simpatia, ma è inevitabile chiedersi se vanno incontro al massacro come a Pechino nel 1989?
Ci sono molte ragioni che potrebbero spingere Xi Jinping a una sanguinosa repressione e altre che la sconsigliano.

Hong Kong è tuttora la porta principale della Cina, un hub finanziario di importanza senza pari piazzato al centro del Delta del Fiume delle Perle a ridosso del Guangdong. Né Shanghai né Shenzhen possono raggiungere in pochi anni un tale grado di internazionalizzazione, infrastrutture, competenza e organizzazione per gli affari.
Hong Kong ha venti volte i visitatori di Singapore.
Il 77% degli investimenti diretti esteri cinesi nel 2011 hanno preso la via di Hong Kong. Il resto è distribuito fra Taiwan, Giappone, Singapore, Usa, Corea e Germania. Viceversa provengono da Hong Kong il 47,7% di tutti gli investimenti esteri diretti in Cina.
A Hong Kong hanno sedi 71 fra le 100 più importanti banche internazionali e 290 fondi di investimento Di lì passa il 53% di tutta la massa degli yuan che circolano all’estero e l’80% del commercio estero in yuan. Si vocifera che Hong Kong abbia riserve in yuan pari a 160 miliardi di $ (e cioè mille miliardi di yuan).
Hong Kong fornisce servizi e informazioni di ogni tipo allo straniero che vuole investire in Cina e comunque è il secondo partner commerciale con la terra ferma (finisce in Cina il 45,6 % dell’export di Hong Kong e finisce a Hong Kong il 17,4% dell’export cinese).
La città ha alti standard di qualità della vita e di ambiente ben curato, ha i migliori professionisti asiatici in tutti i campi (dagli albergatori ai broker), formati in 60 università che offrono più di 1000 diversi corsi per rispondere a qualsiasi esigenza professionale; garantisce la massima tutela legale e trasparenza nelle transazioni d’affari.
Infine Hong Kong è il principale centro logistico dell’Asia, la logistica produce il 24,1% del PIL e garantisce il 24% dei posti di lavoro, grazie alla qualità e all’ampiezza del porto, terzo nel mondo per il traffico di container (ne passano 60 milioni in un anno), mentre l’aeroporto è il primo per i cargo. Nel 2010 per l’aeroporto sono passati 50 milioni di persone (pari a un giro d’affari che copre l’9% del PIL); vi iniziano o terminano 880 voli al giorno. Soprattutto Hong Kong è nota per i livelli di sicurezza garantiti agli uomini di affari che vi si recano.

Una repressione violenta nel centro degli affari rischia di uccidere la gallina dalle uova d’oro, Hong Kong potrebbe essere disertata dai businessmen stranieri.
Molti degli alti papaveri dell’attuale Comitato Centrale non vedono l’ora di mandare un segnale duro alla enclave che dal 1997 è diventata il rifugio di dissidenti politici e religiosi, di capi sindacali e attivisti per i diritti umani, per giornalisti non allineati.
Ma è significativo che tutte le notizie sul movimento a Hong Kong siano state accuratamente censurate sulla terraferma. Instagram è stato bloccato.
Al di là di uno stretto lembo di mare ci sono il Guangdong, con le città di Guangzhou (=Canton) e Shenzhen con le loro centinaia di fabbriche e fabbrichette, con una classe operaia che, nonostante repressione e censura, da vita continuamente a scioperi e proteste.
Lo scontento è in costante crescita anche sulla terraferma. Hong Kong può essere un esempio pericoloso. D’altro canto raggiungere Hong Kong dalla Cina è sempre più facile. E trasmettere da Hong Kong in Cina non del tutto impossibile.

Secondo Pechino i manifestanti sono poche migliaia, i manifestanti con raro rispetto per la verità hanno parlato di 80 mila (da noi si sarebbero… dati i numeri, a centinaia di migliaia), ma potrebbe essere la punta di un iceberg. E soprattutto a togliere il sonno ai boss di Pechino non sono solo gli educati, english style studenti di Hong Kong, ma le masse proletarie della grande Cina.