Gli indigeni in Brasile sotto attacco, oggi come ieri

Brasilia, 23 aprile 2019, 15° Acampamento Terra Livre

La pandemia di Covid-19 ha colpito duramente le popolazioni indigene brasiliane, prive di assistenza, di mezzi di protezione, di strutture sanitarie, ma aperte ai contagi per la presenza delle sempre più frequenti incursioni di squadre al servizio dell’industria mineraria e agroalimentare e di chi altro è interessato a sfruttare le risorse di quelle terre. A fine settembre si contavano 28.500 casi di contagio e 443 morti, dato in grande difetto per le difficoltà di una raccolta dati rigorosa ed esaustiva.

Il 1 ottobre il governo Bolsonaro emana un decreto legge che prevede la costituzione di ‘barriere sanitarie’ composte da dipendenti pubblici federali o da militari, sotto la supervisione della FUNAI (Fondazione Nazionale dell’Indio). Ma di fronte all’insufficienza della misura e alle omissioni nell’eseguirla, sono gli indigeni a mobilitarsi per contenere i flussi di persone e di servizi nella maggior parte dei 309 blocchi istituiti, sbarrando le strade e impedendo gli accessi ai loro territori, e ingaggiando uno scontro diretto con la Fondazione.

Secondo un rilevamento dell’Ufficio Regionale dell’OMS, le regioni indigene, soprattutto la zona amazzonica, hanno un’incidenza della malattia cinque volte maggiore di quella nazionale. Il tasso di letalità è del 6.8%. Uno studio tra gli indios Xavantes ha trovato che la letalità è del 160% sulla media nazionale.

Finora ogni intervento si è rivelato insufficiente, quando non dannoso; come ad esempio la campagna promozionale del Ministero della Sanità, che ha inviato una delegazione nelle regioni indigene di Roraima a spiegare che il Covid-19 era solo un’influenza e portando con sé grandi quantitativi di confezioni di idrossiclorochina, il farmaco sponsorizzata dal presidente come il rimedio unico e più efficace per guarire dal virus e smentito largamente dalla comunità scientifica internazionale.

Insufficienti sono i tamponi, che hanno raggiunto gli indigeni con 3 mesi di ritardo ed in numero irrisorio. Per non dire dei DPI, dell’assistenza e delle strutture sanitarie di portata territoriale, del tutto inadeguate e carenti.

Non solo Covid-19
Il presidente Bolsonaro, su pressione di grandi imprese internazionali che vedono i loro affari minacciati dalla deforestazione e dalla devastazione provocata dagli incendi su larga scala, a luglio ha presentato un progetto di legge con l’intenzione di affrontare il problema della protezione dei gruppi indigeni e quilombolas (discendenti degli schiavi africani fuggiti dalle piantagioni che andarono a formare comunità autonome) e rispondere alla fibrillazione dei grandi capitali (*).

Il testo del progetto originario è stato massicciamente emendato dal presidente nei punti che prevedevano la garanzia di acqua potabile, la distribuzione di materiale igienico-sanitario, la disponibilità di posti letto di emergenza e di Unità di Terapia Intensiva, lo stanziamento di fondi di emergenza per la salute, la disponibilità di una rete internet, di beni di prima necessità e la facilitazione nell’ottenere il contributo di emergenza, oggi ridotto a 300 R$ pro-capite (1 Real = 0.15 euro) e attivo solo fino alla fine dell’anno. Ciò che rimane è la libertà di sfruttare quelle terre e le loro risorse senza alcun vincolo. E’ la dichiarazione esplicita del suo disprezzo per il mondo dei nativi, considerati “uomini preistorici nelle loro riserve” a cui “non sarà ceduto un centimetro di terra”, e della vita umana che non sia bianca, borghese, evangelica.

FUNAI, oggi convertita in braccio esecutivo del governo sulle terre indigene – che occupano il 14% del territorio nazionale – sta sostenendo la liberalizzazione sia delle invasioni e della vendita delle terre non ancora omologate; sia dell’uso di sementi transgeniche e di pesticidi. Molti pesticidi sono vietati in Europa, negli USA e in altri paesi, ma sono questi stessi a sostenerne il mercato e incassarne grandi profitti vendendoli a paesi come il Brasile, di cui l’Italia è tra i principali fornitori.

Dal Progetto di Legge consegue che saranno pienamente legali lo sfruttamento minerario, le prospezioni petrolifere, di gas, le centrali idroelettriche, gli insediamenti turistici, oltre alle attività dell’industria agroalimentare.

L’intreccio di interessi tra militari e borghesia agroindustriale per le regioni remote del Brasile è esplicito se si scorrono le recenti nomine apposte a dirigere istituti vecchi e nuovi, sia finalizzati al controllo e alla tutela di quei territori, sia alla difesa della vita e dei diritti di chi li abita. Troviamo nella lista solo militari o esponenti di spicco della Bancada (lett. tribuna; coalizione politica) Ruralista.

E’ grazie alla pressione di costoro che si vuole fondere il Ministero dell’Agricoltura con quello dell’Ambiente, pur essendo già oggi entrambi presieduti dai ruralisti.

La Commissione Pastorale della Terra ha esaminato la mappa dei conflitti per la terra nell’Amazzonia internazionale. Il Brasile risulta essere al vertice del numero di casi, la maggior parte dei quali coinvolgono indigeni, quilombolas e comunità tradizionali. Il 12% di questi hanno come obbiettivo popolazioni sem-terra espulsi, accampati o sfollati.

Il Ministro dell’Ambiente Ricardo Salles, noto per essere al servizio dell’imprenditoria brasiliana soprattutto agraria e già condannato per falsificazione di documenti e relazioni ambientali, approfitta della distrazione del coronavirus per indebolire la legislazione ambientale. Recentemente sta sostenendo un progetto di legge che ridurrà i controlli ambientali e le aree protette.

Per quanto riguarda la deforestazione sistematica e gli incendi delle aree forestali, sotto il suo mandato non c’è stata alcuna diminuzione di questi crimini ambientali, bensì un continuo aumento. Ultimo il caso del Pantanàl, zona umida tra le più importanti del mondo, che sta per essere divorato dalle fiamme in tutta la sua estensione.

Terre da saccheggiare
Quale sarebbe stata la politica del governo Bolsonaro nei confronti delle popolazioni indigene e delle loro terre lo si è capito subito, dal primo giorno di insediamento, quando il presidente ha emanato il suo primo atto legislativo (MP870): un attacco letale alla vita dei nativi e ai diritti conquistati in secoli di lotte.

Nel testo di legge la FUNAI, istituto garante dei diritti, della protezione e dell’erogazione dei servizi sociali agli indigeni, viene di fatto svuotata e le sue funzioni trasferite dal Ministero della Giustizia al Ministero della Donna, Famiglia e dei Diritti Umani. Quest’ultimo è diretto dalla Bancada da Biblia, evangelici che hanno stretti legami di interesse con i latifondisti e il potere agrario. FUNAI era già stata privata del suo presidente, un generale di origine indigena, perché non rappresentava gli interessi della borghesia fondiaria e agroindustriale.

Ma la legge si spinge oltre: la riforma agraria, la regolarizzazione e la consegna delle terre indigene e quilombolas, come pure il Servizio di Protezione Forestale, saranno gestiti dal Ministero dell’Agricoltura e dell’Allevamento, in mano alla potente Bancada Ruralista (oggi occupa più di un terzo del Parlamento). La leader ufficiale dei ruralisti, Tereza Cristina, presiede il ministero ed è già passata alle cronache per la sua “legge del veleno”, che liberalizza l’uso di ogni genere di pesticidi tossici per l’uomo e l’ambiente trasformandoli in “strumenti di difesa fitosanitaria”.

La formazione politica del Ministro si è svolta nel Mato Grosso do Sul, regione nota per le sue tradizioni schiaviste, per la repressione contro gli indigeni e i bagni di sangue provocati dai proprietari terrieri contro la principale tribù, i Guarani Kaiowà.

Il governo si è preoccupato subito di rivedere i titoli e i diritti acquisiti da indios e quilombolas sui loro territori demarcati e le procedure che rilasciano le licenze ambientali, revisione che risponde agli interessi dei ruralisti e dell’industria estrattiva, parte consistente del blocco di potere che sostiene Bolsonaro.

L’obbiettivo è convertire le riserve indigene in terre produttive, sostenendo siano indispensabili a garantire la sicurezza alimentare della nazione. In realtà lo sguardo è rivolto agli appetiti del capitale agrario e industriale. Oro, uranio e minerali, acqua, legname, caucciù, monocolture, allevamento… sono stati e continueranno ad essere l’obiettivo di una rapina che porta con sé violenza, schiavitù, morti e devastazione del territorio. Nel 2019, primo anno di mandato di Bolsonaro, il numero di assassinii di leaders indigeni ha battuto ogni record.

A capo del Ministero dell’attività Mineraria e dell’Energia viene nominato un militare, l’ammiraglio Bento Albuquerque, che fu Direttore Generale dello Sviluppo Nucleare e Tecnologico della Marina Militare. Il suo programma politico si basa sullo sviluppo estensivo del settore estrattivo, soprattutto di uranio, per dare nuovo impulso all’industria nucleare.

Un altro punto della legge riguarda i servizi e la sanità, che diventeranno di pertinenza delle amministrazioni municipali. Si smonta così il sistema nazionale di sicurezza sociale e sanitaria lasciando un vuoto che la pandemia di Covid-19 ha evidenziato in tutta le sue drammatiche conseguenze.

Bolsonaro chiude anche il programma di assistenza sanitaria di base ‘Più Medici’, approvato nel 2013 da Dilma Rousseff per raggiungere le aree più povere, lontane e inospitali del paese perché sostenuto da medici cubani, colpevoli di creare nuclei di guerriglia e di essere professionalmente impreparati (a febbraio il Parlamento ha riattivato la convenzione con Cuba per ripristinare in minima parte il servizio). Si sono così aperte grandi falle nella diffusione territoriale dei servizi di attenzione alla salute. Molte aree oggi sono scoperte, principalmente le zone di più difficile accesso. Un terreno di coltura propizio alla diffusione più nefasta del coronavirus.

In Amazonas, regione dell’Amazzonia brasiliana, sono presenti solo 29 medici brasiliani e restano vacanti 63 posti. La distanza, i bassi salari, il rischio di contrarre malattie, l’ignoranza dei medici sulla diversità e complessità etnica e culturale dei popoli indigeni, scoraggiano l’offerta di lavoro.

Nell’aprile dello scorso anno si è tenuto l’ultimo Acampamento Terra Livre, la principale assemblea a livello federale delle popolazioni indigene che si svolge ogni anno da 15 anni. In quell’occasione le manifestazioni, i cortei, i blocchi stradali hanno reso manifesta la critica alle politiche del governo, la determinazione alla lotta dei partecipanti, forgiata dalla resistenza alle aggressioni e alle violenze subite da secoli.

Queste le rivendicazioni: terra, istruzione (si è chiesto il ripristino delle borse di studio per gli studenti universitari indigeni, che oggi sono esclusi dalla formazione universitaria), salute; stop alle invasioni delle terre, alle persecuzioni e agli assassinii, alla devastazione del loro ambiente di vita.

“Il nostro popolo ha sofferto e resistito per più di 500 anni; ad ogni lotta che succede ad un’altra lotta confermiamo che non smetteremo mai di lottare e che non confidiamo in nessun governo, poiché tutto ciò che abbiamo conquistato è stato al prezzo di molto sangue e di molte lotte”.

Si chiede inoltre di abolire la soglia temporale (la data di approvazione della Costituzione) che dà validità al diritto alla proprietà della terra che si sta occupando, ma che lo sottrae a tutte quelle popolazioni che in quel momento erano espulse dalle loro terre.

Il presidente Bolsonaro ha rassicurato i suoi sostenitori garantendo che invaliderà ogni processo di riforma agraria ma anche tutti i procedimenti di demarcazione delle terre indigene e terrà sotto stretto controllo tutti gli organismi internazionali e le ONG operative sul territorio.

In campagna elettorale aveva affermato: “Se diventerò presidente, non ci sarà un cm2 di territorio designato come riserva indigena” e che chi vi abita gode sia di un’eccessiva tutela che di un territorio smisurato rispetto alla densità della popolazione (1 milione di km2 per circa 1 milione di indigeni).

Queste promesse e prospettive di inizio mandato hanno scatenato gli appetiti più voraci su quelle vaste risorse naturali, finora ‘sottratte’ allo sviluppo economico capitalistico del paese, e risvegliato il razzismo strutturale proprio della società brasiliana. Hanno dato la stura ad una vera e propria campagna di invasioni, omicidi, minacce, aggressioni armate, intimidazioni e atti di violento razzismo e intolleranza verso le popolazioni native, anche nelle zone urbane.

Da quando è stato chiaro chi sarebbe stato il presidente eletto, le invasioni territoriali sono aumentate del 150%. FUNAI ha rilevato che nel Pará e nel Maranhão, stati amazzonici che primeggiano la classifica delle lotte per la terra, si sono intensificate le aggressioni organizzate dai taglialegna e dai minatori illegali, tanto che alcune popolazioni hanno formato milizie armate per proteggere le proprie terre.

Ma l’attacco di Bolsonaro si è spinto oltre:

  • il presidente liberalizza il porto d’armi e incoraggia i proprietari terrieri e gli imprenditori all’autodifesa nelle circostanze più ampie e generiche (“daremo armi a tutti gli allevatori”);
  • unico di 48 paesi riuniti nell’assemblea dell’ILO, il Brasile vota contro l’impegno dell’organizzazione a garantire il rispetto dei diritti dei popoli indigeni e tribali;
  • ritira il Brasile da COP25, la conferenza dell’ONU sui cambiamenti climatici.

E’ facile da tutto ciò presumere il Brasile si stia preparando ad un nuovo genocidio, e la pandemia di Covid-19 ne sta facilitando il compito.

Chi sono gli indios brasiliani

In Brasile oggi vivono circa 900.000 indigeni (lo 0.47% della popolazione totale del paese), suddivisi in circa 240 tribù, di cui più di 100 non ha mai avuto contatti con il mondo esterno alla sua area. Parlano 275 lingue diverse ed occupano il 13% del territorio federale.

Parte di questi gruppi sta scomparendo o è rappresentata da poche decine di individui; alcuni vivono isolati, altri in riserve, altri ancora in villaggi adiacenti alle città. Circa 350.000 vivono in zone urbane e 550.000 in zone rurali (dati IBGE del censimento 2010).

Le terre indigene sono principalmente demaniali e i diritti di chi le abita non comprendono quello di proprietà. Solo in minima parte sono ‘terras dominiais’, in cui l’indio è sia usufruttuario che proprietario in seguito a compravendita o per donazione.

Sono distribuite per il 98% in Amazzonia ed occupano circa il 21% della regione.

Intorno al 1500, quando arrivarono gli europei, le popolazioni native erano disseminate in circa 2000 tribù seminomadi, 11 milioni di persone che vivevano di caccia, pesca e agricoltura. Furono in parte assimilate e in parte sterminate dagli invasori e raggiunsero il minimo storico di 100.000 persone negli anni ottanta del secolo scorso. Da allora la creazione di riserve e leggi speciali hanno permesso un’inversione di tendenza demografica.

La tribù più numerosa è la Guarani (51.000 individui), che nel corso dell’ultimo secolo è stata derubata di parte del suo territorio ancestrale per far spazio ad allevamenti di bestiame, piantagioni di soia e canna da zucchero.

Gli Yanomami occupano il territorio più vasto: 9,4 milioni di ha nell’Amazzonia settentrionale per 19.000 persone, in relativo isolamento.

Una storia di abusi e sopraffazioni
La storia dei popoli indigeni del Brasile è segnata da violenze, schiavitù, malattie e sterminio.

Le origini sono controverse: la teoria tradizionale dice risalgano alla Siberia, alla fine dell’ultima era glaciale; ma è ancora aperto il dibattito tra archeologi ed antropologi. Si parla di tre ondate migratorie attraverso lo stretto di Bering, la prima delle quali, verso il 9000 a.C., avrebbe occupato l’attuale Brasile, probabilmente arrivando dal Rio delle Amazzoni.

Ma alcuni ritrovamenti di resti umani in Sudamerica datati circa 20.000 anni, tra cui lo scheletro di Luzia, hanno caratteristiche morfologiche differenti rispetto al genotipo asiatico e più simili ai popoli africani e australiani. Si suppone questi gruppi abbiano raggiunto le coste americane attraversando l’oceano e siano stati assorbiti successivamente da quelli provenienti dalla Siberia. Altre ipotesi parlano di migrazioni dall’Australia e dalla Tasmania procedendo per le isole sub-antartiche e le coste dell’Antartide fino all’estremità del Sudamerica, nel periodo di ultimo massimo glaciale.

Maloca, abitazione comunitaria Yanomami

A differenza dei nativi mesoamericani e andini, gli abitanti originari del Brasile non hanno lasciato tavole scritte o monumenti e il clima caldo umido ha distrutto buona parte delle tracce sia della loro cultura che degli artefatti.

Sapere ciò che furono prima del 1500 è frutto quindi solo di ipotesi e deduzioni da lavorazioni primitive in pietra.

Grosse quantità di crostacei e molluschi lungo le coste dell’Atlantico e depositi di ‘terra preta’ (nera) lungo il Rio delle Amazzoni, resti di un consumo alimentare stabile e circoscritto, hanno portato alla scoperta di quelli che erano grandi insediamenti, anche di decine di migliaia di abitazioni, che indicano articolate strutture sociali ed economiche.

I manufatti si evolvono dall’uso di ossa e pietre scheggiate a pietre levigate, lance, archi: la progressione degli stili degli oggetti in ceramica indica una complessa sovrapposizione di migrazioni interne.

Le prime tribù, di piccole dimensioni, si sostenevano cacciando e pescando. Seguì un’agricoltura che nel tempo andava arricchendosi di molte tecniche importate dalle popolazioni più evolute delle Ande, come ad esempio la coltura della manioca, divenuta l’alimentazione principale per molte tribù.

Pressoché inesistente è stato l’utilizzo degli animali sia per il trasporto che per il lavoro nei campi.

I portoghesi al loro arrivo trovarono la costa e le rive dei fiumi principali densamente abitati e un paradiso di ricchezze naturali. Inizialmente considerarono i locali dei “nobili selvaggi” e si mescolarono a loro, diffondendo malattie come il morbillo, il vaiolo, la tubercolosi e l’influenza, provocando migliaia di morti. Ma i buoni rapporti durarono poco.

Gli invasori procreavano con le indigene, dando origine ad una generazione meticcia di lingua indios, che divenne presto predominante e cominciò a sfruttare nei campi i nativi. Col tempo i meticci organizzarono spedizioni di rapina nelle loro terre, impadronendosi di oro e pietre preziose, assoggettandoli e deprivandoli di ogni mezzo di sussistenza.

Vennero fatti schiavi per ogni genere di servizio: in casa, nelle piantagioni di canna da zucchero e di caucciù, nell’esercito.

Le prime rotte commerciali che si aprivano il varco nell’entroterra diffondevano malattie che decimavano tribù intere. Si stima che dopo il primo secolo di contatto con gli europei circa il 90% degli indigeni fu sterminato.

Ben presto i conquistatori li ritennero schiavi di basso rendimento e l’impresa di catturarli eccessivamente onerosa. Per questo si cominciò ad importare forza-lavoro dall’Africa, il cui commercio a quel tempo era monopolio del Portogallo.

I portoghesi si spinsero sempre più verso l’interno, facendo arretrare gli indios nel ventre della foresta amazzonica, unica protezione per molti fino ai nostri giorni di fronte a un nemico con armi da fuoco. Molte tribù praticarono il suicidio di massa pur di non cadere nelle mani degli invasori. Altri, allora come oggi, erano in perenne fuga.

Vennero cooptati nelle guerre contro i francesi e gli olandesi, nelle scaramucce contro i pirati o per integrare le scarse capacità militari portoghesi. I loro villaggi venivano risparmiati solo se funzionali all’espansione e alla difesa delle frontiere.

L’attuale Amazzonia brasiliana è infatti il risultato della sedentarizzazione forzata dei villaggi indigeni in funzione di avamposti (“muraglie del sertão”).

Con il trasferimento del governo centrale a Salvador (1549) viene stilata la prima regolamentazione che riguarda le popolazioni indigene e viene affidato ai Gesuiti l’incarico di occuparsene.

I gesuiti si presero cura di loro nelle “reducciones” (“riduzioni”: i villaggi organizzati attorno alle missioni gesuite) per convertirli e spogliarli della loro cultura, delle loro tradizioni e annullarne la struttura sociale. Nel 1770, quando furono espulsi dal Brasile e le missioni confiscate e vendute, delle tribù indigene non si curò più nessuno.

Nel corso dei secoli successivi furono emanati numerosi atti legislativi e regolamenti che si proponevano il rispetto di queste popolazioni e ne sancivano diritti e protezione: dall’istituzione nel 1680 dell’”indigenato” (riconoscimento del diritto congenito e primario dei nativi alla loro terra tradizionale), al “Diretório dos Indios” (1757) (abolì la schiavitù ma represse molte tradizioni e costumi, secolarizzò le reducciones e identificò l’indio come suddito della Corona), al riconoscimento della residenza (1798).

Purtuttavia la schiavitù continuò ad essere praticata (ufficialmente terminò nel 1755) e le normative non solo furono disattese ma suscitarono proteste e rivolte tra la popolazione bianca.

La Carta Régia del 1801 concesse agli indigeni la conquista di nuove terre, denominate “terre restituite”, fondi del bottino delle “guerre giuste” del dominio coloniale.

Il XIX° fu un secolo contraddittorio: l’ufficialità di riconoscimenti e attestazioni di rispetto dell’indio nascondeva la realtà di una politica coercitiva di integrazione per mezzo della catechizzazione, la negazione delle proprie credenze, usanze e tradizioni.

Il secolo portò fiorenti commerci in Amazzonia, dove crescevano i migliori alberi di caucciù del mondo. Le tribù vennero radunate nelle zone produttive dell’Amazzonia occidentale per soddisfare la crescente richiesta di gomma di Europa e Stati Uniti. In soli 12 anni furono resi schiavi, torturati e fatti morire di fame più di 30.000 indigeni.

Nel 1850 fu approvata la Ley da Terras, la prima regolamentazione della proprietà privata in Brasile. Anche agli indigeni fu assicurato il diritto alla terra, ma altre leggi emanate vi si contrapponevano, affermando il diritto dei coloni bianchi al possesso di terre tradizionali che fossero considerate abbandonate per dichiarazione degli stessi coloni. Fu l’occasione per espellere comunità intere, con appropriazioni fraudolente (grilagem) che continuano ancor oggi.

La concessione di aree indigene a imprese straniere, soprattutto tedesche ed italiane, portò a continui interventi di bande armate al loro soldo per ‘ripulire’ dalle tribù che vi abitavano le zone di nuova proprietà.

Nella prima Costituzione della Repubblica (1891) gli indigeni non vengono nemmeno citati. Le ‘terre restituite’ furono consegnate al potere statale e il fenomeno del grilagem si acutizzò, costringendo ad un massiccio esodo le popolazioni tribali. Cercarono sostentamento come operai edili o braccianti agricoli: una forza lavoro dequalificata, a basso prezzo, maltrattata e licenziata, senza alcuna protezione sociale e diritti del lavoro.

All’inizio del XX° secolo il Brasile fu denunciato a livello internazionale per il massacro degli indigeni. I governi brasiliani reagirono adottando una politica più morbida, di apparente tutela, istituendo le prime riserve. Nacque il Servizio di Protezione dell’Indio (SPI), precursore della FUNAI.

Ma questo non frenò le invasioni cicliche, le espulsioni e i massacri, le guerre batteriologiche, la schiavitù e gli abusi sessuali.

Dopo il primo periodo di attività, lo SPI si piegò alla linea governativa con un programma di acculturazione e di riconversione degli indios in piccoli produttori agricoli, mentre nello stesso tempo sosteneva le usurpazioni dei latifondisti. Il massacro non conosceva fine: tra il 1900 e il 1997 furono sterminate 98 tribù indigene.

A differenza della precedente, la Costituzione del 1934 e le successive riconobbero il diritto alla proprietà della terra abitata tradizionalmente dagli indigeni. Ma a metà del secolo degli indigeni non erano rimasti che 120.000 individui e in continua diminuzione.

Durante il periodo della dittatura militare (1964-1984) si effettuano migliorie legislative e strumenti per consolidare il riconoscimento dei diritti e la protezione degli indios (le terre come patrimonio dell’Unione, il diritto all’usufrutto esclusivo delle loro risorse naturali, la nullità degli atti pubblici che minacciano la proprietà della loro terra…), con la conseguenza prevalente di accendere un contraddittorio con la borghesia agraria che non accettava di veder minacciata la proprietà privata.

La questione controversa della proprietà della terra sfocia nella stesura dello Statuto dell’Indio (1973), che annulla gli effetti giuridici degli atti precedenti sul possesso, l’uso e l’occupazione (illegale) delle terre indigene e lascia allo Stato il diritto di intervenire “per esigenze di sicurezza nazionale”, “per la realizzazione di opere pubbliche di interesse e per lo sviluppo nazionale”, “per lo sfruttamento delle ricchezze del sottosuolo di rilevanza nazionale”.

L’applicazione di questa serie di normative è stata sempre disattesa e sottoposta a larghe interpretazioni. Il loro effetto vanificato dai reali rapporti di forza nella società brasiliana.

La dittatura ha dato un forte impulso alla conquista dell’Amazzonia; le sue risorse avrebbero garantito la sicurezza alimentare nazionale. Molti villaggi furono distrutti per far posto a progetti di selvicoltura, agro-zootecnici, ad impianti idroelettrici, a elettrodotti, infrastrutture come strade e autostrade, che avrebbero incoraggiato i commerci e la migrazione nella regione. Con i fondi della Banca Mondiale enormi estensioni di foresta vennero abbattute, con o senza uomini che le abitavano. E le strade furono percorse ancora da malattie ed epidemie.

Negli anni ‘80 si ebbe un nuovo ciclo di devastazioni in seguito alla scoperta di oro nelle aree di riserva Yanomami. Il mercurio usato per l’estrazione inquinò i fiumi, uccise i pesci e ammorbò i residenti. I minatori seminarono tubercolosi, malaria e influenza. Nel 1977 gli Yanomami erano circa 20.000. Alla fine del secolo ne rimanevano 9000.

Ancor oggi il calvario di questa tribù, come di molte altre, non è finito: le invasioni continuano, e le dichiarazioni di Bolsonaro di autorizzare l’attività estrattiva su larga scala nei territori indigeni hanno impennato le richieste di intervento delle compagnie minerarie. Nel territorio Yanomami ne sono state avanzate già più di 650.

A sud tribù come i Guarani vivono in condizioni spaventose, in squallide baracche lungo il ciglio delle strade; i loro leader vengono assassinati dalle milizie private assoldate dagli allevatori di bestiame. La disperazione per una vita senza prospettive ha portato molti al suicidio.

La Costituzione del 1988 e il nuovo Codice Civile del 2002 affrontano ancora la questione della proprietà della terra ed evolvono la figura giuridica dell’indio verso una maggiore autonomia. Si ribadisce il diritto ”all’ usufrutto esclusivo delle ricchezze del suolo, dei fiumi e dei laghi”, che rimangono però patrimonio federale, mentre sarà il Congresso a concedere l’ autorizzazione allo sfruttamento di tali risorse ad altri soggetti dopo aver ascoltato le comunità coinvolte, che manterrebbero la partecipazione ai prodotti dello sfruttamento.

Parole che non reggono la competizione con gli interessi del capitale.

Scarsi benefici per gli indigeni hanno portato anche le varie Convenzioni firmate nei consessi internazionali come ONU, UNESCO, ILO. Il Brasile è firmatario della Dichiarazione dell’ONU sui Diritti dei Popoli Indigeni, che proclama l’uguaglianza degli indigeni di fronte agli altri popoli, il loro diritto all’autodeterminazione e alla preservazione delle loro terre e cultura. Ma a dispetto dei trattati continua a seguire la strada della discriminazione e della rapina.

Verso i nostri giorni
Il disconoscimento e la prevaricazione sulla vita dei popoli nativi non hanno avuto colore politico. I governi PT hanno mirato sin dall’ inizio a costruire solide alleanze di potere con il capitale agroalimentare, i settori evangelici e i militari, consolidando quel fronte di classe che oggi è alla base del consenso e della legittimazione di Bolsonaro. Questi tre blocchi hanno fortemente ostacolato sia la realizzazione della riforma agraria che ogni sorta di politica che promuovesse la piena autodeterminazione degli indios.

Il rafforzamento della borghesia rurale durante il periodo ‘lulista’ si è manifestato con un forte impulso alla concentrazione fondiaria. Nello stesso tempo le lotte per la terra sono aumentate del 269%, subendo spesso una forte repressione.

Con Dilma Rousseff il processo di demarcazione delle terre indigene è precipitato. I grandi proprietari terrieri del Mato Grosso do Sul, tra le principali regioni di produzione agroalimentare, hanno esercitato una forte pressione sul governo affinché sospendesse il programma, come era già avvenuto nel Paraná e nel Rio Grande do Sul.

Almeno il 90% delle demarcazioni veniva contestato e portato in giudizio, e le contestazioni arrivavano spesso alle armi: bande della sicurezza privata e pubblica, minatori al soldo dei loro padroni, industriali e latifondisti continuavano a seminare morte. Nel 2012 la violenza contro gli indigeni aumenta del 237% rispetto all’anno precedente.

La destra ruralista ufficialmente paventa, nel caso le terre indigene siano riconosciute, un pericolo per la sicurezza alimentare e l’economia del paese. Eppure in Brasile non c’è penuria di terre agricole: si stimano 340 milioni di ha di terre coltivabili, di cui la metà destinata a pascolo; di questi ultimi almeno 100 milioni sono sottoutilizzati.

Le riserve indigene sono viste non solo come minaccia alla sovranità alimentare ma anche alla sovranità nazionale, benché gli indigeni non cerchino l’autonomia. Nel 2007 la Dichiarazione dei Diritti dei Popoli Indigeni ha stabilito il diritto, tra gli altri, all’autogoverno, alla libera determinazione politica, a istituzioni politiche e ad un sistema giuridico propri, al diritto di veto sulle azioni militari nelle proprie terre e a quello di poter accettare o meno le misure legislative dell’Unione. Parole inaccettabili per i difensori dell’integrità nazionale e per la borghesia rurale.

A tutt’oggi non è chiaro, anche in seno allo stesso movimento indigenista, come le popolazioni native debbano gestire le proprie risorse territoriali. Devono essere guardiani dell’integrità del loro ambiente e restringere le proprie pratiche a quelle di sussistenza? Prospettiva improbabile e anacronistica, data ormai la mescolanza culturale, gli scambi e i contatti con altre realtà sociali, e anche la prossimità con infrastrutture e terre sottoposte ad uno sfruttamento su scala industriale.

Dal censimento del 2010** risulta che circa il 42% degli indigeni vive fuori dalle riserve e il 78% di questi risiede nelle città. Sul totale degli indigeni di oltre 5 anni di età, ormai solo il 37,4% parla la lingua della propria etnia.

Oggi molti indigeni vivono ammassati in riserve sovraffollate o accampati sotto teloni di plastica ai cigli delle superstrade. Molte tribù sono ancora in continua fuga dall’avanzata del disboscamento e degli incendi che convertono la foresta in pascolo per i grandi allevamenti o in terreno fertile per la monocoltura.

Non esiste nessuna banca dati sulle morti e gli assassinii degli indios, nessuna raccolta di testimonianze delle violenze subite. Alcune delle loro organizzazioni stanno lavorando proprio in questo senso.

Sotto una continua pressione e continui abusi, i popoli nativi del Brasile hanno maturato una coscienza politica collettiva che li ha portati ad organizzarsi a livello nazionale ed internazionale, ad entrare in contatto con altri movimenti sociali e sindacali, come i sem-terra, i quilombolas e le leghe contadine. Questo sforzo organizzativo ha raggiunto piena visibilità in occasione dell’Acampamento Terra Livre del 2005, dove venne creata la Articulação dos Povos Indígenas do Brasil (APIB), un’aggregazione delle molteplici associazioni regionali sulla base di una sintesi politica e rivendicativa.

Oggi in Brasile esistono più di 200 organizzazioni indigene, tutte impegnate a difendere i loro diritti, come l’accesso ai servizi sociali, all’istruzione e alla sanità, e disposti ad unire la loro lotta con quella di tutto il proletariato, contro i governi e le loro politiche antipopolari. Questo rinnovato protagonismo si è manifestato al grande sciopero generale dell’aprile 2017, dove numerose organizzazioni indigene si sono integrate alla mobilitazione proletaria accampandosi nelle piazze delle metropoli e unendo le proprie proteste a quelle di tutta la classe lavoratrice e dei settori sociali discriminati o emarginati.

Oggi il Ministero dell’Agricoltura ha nei fatti, prima che per decreto, inglobato quello dell’Ambiente e incoraggia l’apertura di tutte le barriere territoriali all’attività estrattiva e al capitale agroalimentare; la riforma agraria è sempre più lontana, le demarcazioni bloccate e la FUNAI resa inoffensiva; è liberalizzato il possesso di armi per i proprietari terrieri e gli imprenditori e fa crescere il razzismo endemico del paese… in questo quadro di aggressioni a tutto campo le popolazioni native del Brasile non possono che unire le loro lotte e rivendicazioni a quelle di tutto il proletariato. La loro scuola di resistenza sarà un importante esempio e sostegno alla lotta di classe contro le forze del capitale, l’unica via verso la loro piena autodeterminazione per loro e la liberazione dal giogo dello sfruttamento, della violenza e della miseria per tutto il proletariato.


NOTE:

(*) La Banca Dati degli Incendi dell’INPE (Istituto Nazionale di Ricerche Spaziali, fonte principale di informazione sulla devastazione ambientale brasiliana e ferocemente attaccato da Bolsonaro) nei primi 6 mesi del 2020 rileva nella regione amazzonica la preponderante corrispondenza tra zone messe a fuoco e grandi proprietà terriere, mentre solo il 10% degli incendi interessa i territori indigeni. Il dato, se ce ne fosse stato bisogno, sconfessa la dichiarazione di Bolsonaro che l’Amazzonia sta andando a fuoco per mano e incuria degli indios che la abitano. Ma lo studio rivela anche la sovrapposizione tra zone incendiate e quelle che hanno subito la deforestazione. Il fuoco infatti serve a bruciare la vegetazione sradicata, liberando il terreno all’attività agraria e all’allevamento.

(**) L’ultimo censimento è del 2018, ma il taglio drastico di risorse per realizzarlo, con conseguente riduzione dei campi di indagine, delle inchieste e del numero dei soggetti scelti a campione, ne ha ridotto la portata conoscitiva. Questa forniva un quadro coerente del sistema produttivo e sociale brasiliano e della sua evoluzione all’interno; uno strumento sottratto alla lotta di classe dal presidente Temer.

Fonti:
Brasil de Fato: 11/12/2018
Esquerda Diário: 30/4/2018; 06,07/02, 23/05, 14,25,27/06, 15/07, 18,22,23,29/09, 01,03/10/2020
Sito CSP-Conlutas: 23,29/04/2019
Valor Econômico: 27/3/2019
Wikipedia: “Popoli indigeni del Brasile”; “Terre indigene”
Il Fatto Quotidiano: 19/04/2018
Sito Survival International: “Indiani del Brasile”
Internazionale: 12/3/2019