Guerra di classi in Etiopia

Dell’Etiopia si parla di recente solo per la fragile tregua che ha temporaneamente bloccato la guerra del Tigray, l’ennesimo conflitto nato dalle spinte centrifughe che hanno caratterizzato da sempre il paese. Spinte che hanno ragioni storiche e nascono dalla contraddizione fra l’esistenza fin dall’antichità nel Corno d’Africa di un impero, che ha cercato di tenere insieme popoli molto diversi fra loro per lingua, cultura e livello di sviluppo. Queste differenze sono spesso banalizzate e ricondotte a fattori etnici, ignorando la complessa articolazione di classe, ieri come oggi.

Una parte del Corno d’Africa, quella a est, si affaccia sul Mar Rosso, un mare facilmente navigabile. Quindi,  condivide fin da tempi molto antichi (almeno dal 4° secolo a.C.) le vicende demografiche storiche, linguistiche religiose del Medio Oriente e delle regioni asiatiche limitrofe. Essa è abitata fin dal 1° millennio a.C. dagli abissini formatisi da un incrocio fra camiti e semiti (detti habesta), provenienti da Medio Oriente e dall’Asia  (da essi discendono gli attuali amhara e tigrini). Al loro interno si sviluppa una ricca borghesia commerciale, che si arricchisce con i lucrosi traffici che si svolgono fra Mediterraneo e Oceano indiano. Commercia i propri prodotti agricoli, ma anche avorio, metalli, bestiame e schiavi, per ottenere i quali compie razzie e campagne di conquista verso le popolazioni dell’interno.

Le parti più interne sono più simili all’Africa nera per retaggio socio culturale. Vi abitano popolazioni nomadi. È il caso degli Oromo (detti da alcuni storici Galla, termine considerato spregiativo, come Tigré dai nativi).  I maschi oromo erano distinti in 10 o 11 classi sociali”, che si distinguevano in base alla famiglia di appartenenza, all’età, alle abilità, al coraggio nel combattimento ecc. Ogni 8 anni la comunità si riuniva e decideva il passaggio di ogni adulto a una classe inferiore o superiore, a seconda del suo comportamento. La classe più elevata era quella dei guerrieri. Era il sistema del gadaa.

La costa e l’interno hanno condiviso la loro storia fin dai primi secoli d.C., ma con la parte nord est nel ruolo di colonizzatrice. Il nord est ha un facile accesso al mare (nel resto del Corno d’Africa si deve attraversare aree semidesertiche e quasi disabitate.  Le popolazioni dominanti abitano gli altipiani, ricchi di fiumi e piovoso in aprile-settembre, con un clima mite (8°-18°), mentre la pianura è insopportabilmente calda (fino a 50°) e solo vicino ai fiumi è possibile praticare la pastorizia.

L’aristocrazia abissina nei primi secoli d.C. si organizza in uno stato (l’impero di Axum), stimato dai contemporanei al pari di quello romano o bizantino, con città cosmopolite e un esercito. Questo impero ha una ideologia aggregante che è quella del cristianesimo, derivato da quello copto, in cui Il sovrano è il capo della Chiesa a cui elargisce privilegi fiscali, in una sorta di cesaropapismo etiope La Chiesa etiope garantisce l’amministrazione  statale e i monasteri sono strutture latifondiste che sfruttano manodopera servile, ma anche assistono la popolazione nei momenti di crisi. È una società schiavista, in cui gli schiavi sono principalmente prigionieri di guerra o il frutto di razzie fra le popolazioni limitrofe come gli Oromo; sono loro a lavorare nell’agricoltura e nelle miniere, oppure vengono venduti oltre il Mar Rosso.

Il “feudalesimo etiope”

Dalla fine del 7° sec. d.C. l’Islam isola per lunghi periodi lo stato etiope dalle coste e inizia la decadenza di Axum, un arretramento verso l’interno e gli altipiani del sud. Ne consegue  un mutamento sociale, una sorta di feudalizzazione (per usare un termine occidentale) in cui le élite sono latifondisti che traggono la loro ricchezza  principalmente dall’agricoltura e saltuariamente dal commercio, gestiscono la tratta degli schiavi assieme ai mercanti arabi. In Etiopia tuttavia la schiavitù evolve verso una sorta di servitù della gleba.

Di tanto in tanto un imperatore amhara tenta di restaurare uno stato unitario, ma la normalità diventa un insieme di staterelli retti da un ras, in teoria tenuti a pagare tributi (in uomini per la guerra e in tasse), ma più spesso tendenti all’indipendenza. Le tendenze centrifughe sono favorite sia dalla struttura sociale che dalla conformazione geografica del paese, con i numerosi altipiani divisi da canaloni e canyon, che li trasformano in fortezze naturali. Inoltre l’impero etiope non aveva strade degne di questo nome. Col passare del tempo la mancanza di risorse impedisce al sovrano di mantenere una burocrazia e un esercito bene armato.

Tanto che quando, a metà del ‘500, lo stato etiope subisce una invasione da parte di stati  islamici nel frattempo sorti sulle coste e  dietro cui c’è la longa manus degli Ottomani, i sovrani etiopi sono costretti a ricorrere per le armi ai portoghesi installatisi in Eritrea.

Fino al 1633 i Portoghesi possono quindi esercitare una forte influenza sul regno etiope attraverso i Gesuiti, ma vengono cacciati nel 1633. In seguito il regno vive in una specie di isolamento e difende gelosamente la sua indipendenza.

La svolta dell’800

Nell’800 tre sovrani si impegnano a riunificare lo stato etiope. Il più importante è Menelik II, che come gli altri prima di lui non osa ridurre i privilegi delle aristocrazie fondiarie e religiose, ma le coinvolge in guerre di conquista particolarmente sanguinose ai danni degli staterelli circostanti. Infatti l’Etiopia raggiunge a sud i confini attuali. Menelik vince, ma dipende per i prestiti e le armi dagli europei, a cui concede lo sfruttamento dei minerali  e la gestione del commercio del caffè. Si impadronisce di due terzi delle terre dei gruppi sconfitti, che vengono acquisite dalla monarchia, ma distribuite anche alle élites tigrine e amhara e in piccola parte le usa anche per creare uno strato di piccoli proprietari agricoli.

Menelik non riesce invece nell’intento di modernizzare dal punto di vista produttivo il paese, che si limita a una agricoltura tradizionale, un artigianato tecnicamente poco evoluto. Lo stesso sfruttamento delle miniere è affidato a piccole, piccolissime imprese con mezzi rudimentali.Le conquiste di Menelik vengono vissute dalle altre etnie, principalmente dagli Oromo, come una vera e propria colonizzazione esattamente come venne percepita e tramandata la conquista del Sud Italia a opera dei Piemontesi.

L’etnia, strumento ancora attuale di potere delle élites,  contro le rivendicazioni di classe

In tempi recenti, storici e attivisti oromo hanno riscritto la storia dell’Impero dal loro punto di vista, come base per le loro rivendicazioni di uguaglianza e partecipazione allo sfruttamento delle risorse del paese, rivendicando fra l’altro la superiorità del loro modello sociale egualitario che è sopravvissuto fino all’800. In realtà gli Oromo non sono più soltanto pastori e contadini, dal ’700 molti di loro sono mercanti, anche di schiavi.

 Viceversa si è consolidata a partire dal ‘900 la narrazione dei tigrini e degli amhara, che sottolineano il loro ruolo di patrioti, quelli che hanno combattuto da sempre per l’indipendenza del paese e per il suo sviluppo. Accusano gli Oromo di fare del “vittimismo”, sottintendendo che i loro privilegi sono frutto del merito; alimentando una sorta di razzismo verso gli altri gruppi, gli esclusi, quelli davvero “neri”.

Già da questi brevi cenni (è possibile approfondire leggendo la Breve storia sociale dell’Etiopia [https://www.combat-coc.org/storia-sociale-delletiopia-fino-alla-caduta-di-haile-selassie/ ] si possono recuperare le radici storiche di contrapposizioni vive ancor oggi.

Abbiamo cercato di dimostrare che sono le circostanze geografiche e storiche che consentono alle élites abissine di essere dominanti. Lo stesso Menelik vinse gli oromo perchè aveva armi più moderne, fornite dagli inglesi. Sconfisse anche gli italiani  con le armi comprate (ironia della storia) grazie  un prestito fornito dall’Italia stessa!  Ma questi prestiti e questi aiuti  da parte delle potenze coloniali  (estremamente interessate alle coste eritree e somale, dopo l’apertura del canale di Suez – 1869), Menelik li ottiene  abbandonare le regioni costiere, i commerci e le miniere alle ingerenze e allo sfruttamento di Italia, Francia, Gran Bretagna.

L’etnia non ci deve fare velo, da marxisti, nell’analisi di classe del paese, né ne rispetto all’Etiopia attuale né per quanto riguarda il passato. Ma ci deve fare riflettere sulla forza di condizionamento ideologico che ancor oggi ha e che ancora determina la collocazione sociale degli individui.

Molti degli stessi strati agrari e istruiti della società etiope rimangono in posizioni di potere e ricchezza come all’epoca di Hailé Selassié. Ad essi si sono affiancati i dirigenti statali che collaborano con gli investitori stranieri o i manager nelle nuove zone speciali. Per lo più la ricchezza, l’influenza e lo status sono una specie di diritto di nascita. La mobilità sociale è per ora ancora largamente marginale. Ma i gruppi dominanti, una vera è propria borghesia, connessa ai gangli dell’economia di stato, sono stati abili a mobilitare in particolare i contadini indirizzando le loro rivendicazioni contro gli approfittatori di stato delle altre etnie, E in minor misura hanno garantito a piccoli settori di contadini e operai l’accesso alle  “briciole” dell’arricchimento della borghesia vincitrice, come le assunzioni nei ranghi inferiori dei dipendenti dello stato, con redditi di gran lunga più elevati che non quelli contadini, oppure la concessione di piccoli appezzamenti di terreno (la ricetta di Menelik II), oppure l’accesso all’istruzione, consolidando materialisticamente il legame etnico, basato su storia,  lingua e cultura comuni. D’altro canto la borghesia etiope è stata da Selassiè ad oggi, estremamente dura contro le rivendicazioni indipendentiste delle minoranze, che anch’esse hanno impugnato l’etnia come elemento unificante fra élites e sfruttati.

Per questo le etnie hanno ricominciato ad essere al centro del dibattito politico in Etiopia moderna, in particolare dopo il 1991 (caduta di Menghistu).

Le riforme mancate di Selassié

 Per capire questo fenomeno dobbiamo tornare alla caduta di Hailé Salassié nel 1974. Indiscusso capo politico dell’Etiopia per 52 anni, prima come reggente (1916) e poi come imperatore (1930), prima e dopo la dominazione italiana (1936-41), tentò una modernizzazione senza mutamenti sociali sostanziali, cioè senza toccare i privilegi dei latifondisti e consentendo lo smodato arricchimento dei circoli di corte. La modernizzazione civile riguardò principalmente la regione di Addis Abeba (strade, elettricità, servizi moderni ecc.).  Dal punto di vista sociale, rispetto agli schiavi (che erano 2 milioni nel 1830 si 8 milioni di sudditi) proibì di rendere ereditaria la condizione di schiavo. Non modificò in modo sostanziale la condizione servile dei lavoratori agricoli. Ne derivarono lunghe rivolte contadine: dal 1916 al 1924, fra il 1928-30 fra i Wollo.  Nel dopoguerra si accreditò in tutta l’Africa e all’interno del paese come capo della resistenza etiope, ottenne che Addis Abeba fosse la sede dell’Unione Africana (1963).  Ma il potere restò sostanzialmente autocratico.

La sua impopolarità salì alle stelle con la crisi economica degli anni ’70, legata alla chiusura del canale di Suez nel ’67 e alla crisi petrolifera del 1973, ma anche alle terribili carestie. Quello che per i più ricchi fu una modesta diminuzione della loro ricchezza, fu morte per denutrizione e per fame per i più poveri  Sulla defenestrazione di Selassié influì anche la crisi energetica del 1973. Crebbe la richiesta di riforme sociali, di maggiori diritti politici, di una modernizzazione della struttura dello stato, cui erano interessati anche gli strati intermedi della borghesia.

I moti degli intellettuali e degli studenti degli anni ’60 e ‘70, influenzati dallo stalinismo russo e dal maoismo cinese, cominciarono a parlare di classi, anzi di superamento delle classi, opponendosi sia ai “residui feudali” dell’impero sia alla influenza devastatrice del colonialismo occidentale. Anche gli studenti più radicali, tuttavia, erano più interessati ai destini nazionali che ai mutamenti sociali. Vedevano l’Etiopia come un paese dominato e Europa e Usa come paesi dominanti. Le élites delle etnie oppresse si inserirono con la richiesta dell’autodeterminazione.

 Nel 1974 tutte queste rivendicazioni si fusero: si partì con le agitazioni urbane, animate da tassisti, impiegati disoccupati, studenti, seguite poco dopo dai militari e dalle forze dell’ordine che, invece di reprimere le agitazioni, simpatizzarono con la folla. Ma il grosso dell’opposizione venne dai contadini che lavoravano in condizioni semiservili e che si erano rivoltati nel Tigray nel 1943, nel 1958 e  nel 1966. Le rivendicazioni erano sempre le stesse: abolizione vera della schiavitù, ma anche  delle servitù semi feudali, come le corvée, possibilità di lasciare la terra,  contro la requisizione forzata dei capi di bestiame, contro il sistema di tassazione, ma anche la rivendicazione di tornare al sistema di proprietà del villaggio. La pretesa degli Oromo di essere stati l’unico obiettivo storico delle repressioni è ovviamente falsa, ma essendo l’etnia più numerosa e più diffusa nelle varie province ne pagò evidentemente una quota proporzionata al suo peso demografico.  I contadini si armavano e l’esercito bombardava. Le rivolte del ’58 e del ’66 scoppiarono davanti alla totale indifferenza del governo davanti a una terribile carestia, durante la quale di continuava a pretendere le tasse. L’altro detonatore era che già allora l’acqua era tolta alle comunità contadine per irrigare le piantagioni di cotone e di caffè.  La carestia del ’72-73 nell’Afar e nel Danakil non fu la più grave in ordine al numero dei morti (100 mila), ma fu documentata da un giornalista inglese e il reportage rimbalzò da televisione a televisione in tutto il mondo, con un effetto moltiplicatore sulle proteste.

Le nazionalizzazioni del DERG (1974-91)

Nel ’74 Selassiè (82 anni) venne rovesciato, ma nel frattempo si era formato un Comitato (in amharico Derg) di coordinamento di ufficiali, sottoufficiali che riuscì a prendere la guida delle lotte e nel ’75 costituì una giunta militare  amharica.

Il Derg nazionalizza le tre banche private (2 italiane, 1 etiope), mentre trasporti e manifattura restarono privati (occupavano circa 60 mila persone). Nel marzo ’75 la terra appartenente alla monarchia e all’aristocrazia di corte viene nazionalizzata. La riforma viene accolta entusiasticamente dai contadini che iniziarono a cacciare aristocratici e clero, chiedendo la redistribuzione delle terre. Il Derg preferì la formula delle terre che diventavano proprietà dello stato e “del popolo”. Quindi anche i piccoli proprietari vennero espropriati.  Menghistu instaura nel 1977 un regime militare pseudo socialista. Studenti universitari (circa 40 mila) vennero inviati ad alfabetizzare le campagne per levarseli di torno. Gli organismi spontanei creati in città e campagna furono imbavagliati e ridotti a meri esecutori.

Spalleggiato da Urss e Cina, il regime dovette fare i conti col movimento indipendentista tigrino e la guerra con la Somalia per l’Ogaden. La guerra giustificò la trasformazione del paese in una caserma, in cui i soldati spadroneggiavano. I contadini furono di nuovo pesantemente tassati per far fronte alle elefantiache spese militari, mentre gli investimenti in industrie e infrastrutture crollarono (nota 1). Tutto questo spiega la crescente influenza dei due partiti guerriglieri (quello indipendentista eritreo guidato da Afwerki e il TPLF tigrino diretto da Zenawi, alleati contro il comune nemico) che nel ’91 rovesciarono Menghistu, complice l’implosione dell’Urss.

Il Fronte democratico rivoluzionario del Popolo Etiope (1991-2018)

Coerente con gli impegni presi, Zenawi riconosce l’indipendenza dell’Eritrea e cerca un compromesso con le élites oromo e ahmara (nota 2).  Viene creato l’Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front (EPRDF) e viene scelto per l’Etiopia un modello di  Federalismo etnico, in cui ogni stato ha un proprio Parlamento, una propria lingua, una propria polizia. Ad Addis Abeba, nei posti chiave militari economici e amministrativi, sono stati i tigrini a fare la parte del leone. Su modello sovietico si è creata una borghesia di funzionari statali che si è arricchita e che ha potuto contare, grazie al solido legame con gli Usa, su aiuti e generosi prestiti internazionali. Inizialmente l’Etiopia è riorganizzata il 14 stati federali. Nella costituzione del ’95 i 5 stati meridionali vengono unificati in uno solo che contiene 46 o forse 56 etnie.  

  È in questa occasione che viene creato l’OLF, il Fronte di liberazione oromo che ricomincia la guerriglia con santuari fra gli Oromo del Sudan e del Kenia.  In ogni regione l’etnia più forte ha trattato le etnie più deboli o minoritarie come prima il governo centrale aveva trattato loro, quindi censura sulla stampa, proibite le associazioni, violenze da parte della “polizia regionale”, omicidi, esecuzioni capitali ecc. Quindi Zenawi ha creato una sorta di clientelismo del potere centrale verso i governi regionali, per scaricare su di loro il malcontento. Il governo trattiene il 60% delle risorse e le distribuisce come vuole nelle regioni, ad esempio concedendo linee di credito privilegiate alle imprese del Tigray.  

Il periodo 1993-2005 è punteggiato da scontri fra le numerose etnie per i sussidi statali per il diritto allo sfruttamento della terra, la definizione dei confini, il loro status, questo ha alleggerito la pressione sullo stato centrale che poteva destreggiarsi con  favoritismo e clientelismo economico attraverso una ineguale allocazione delle risorse centrali. Il governo lascia mano libera ai conflitti locali e il risultato sono i 3 milioni di sfollati interni in seguito alle contese etniche, futura manodopera per le industrie delle zone speciali…

Dal punto di vista economico Zenawi (morto nel 1912) e i suoi successori del EPRDF pensano a uno “Stato sviluppista” e teorizzano una sorta di NEP etiope che però non aumenta la produttività  nelle campagne anche se vi si concentra il 75% dell’occupazione (nota 3).  Di fatto anche se sulla carta chi vive sotto il livello di povertà, (fissato a 0,6 dollari al giorno) passa dal 45% nel 1995 al 30% nel 2015, i redditi dei contadini poveri sono sostenuti  principalmente dalle rimesse degli immigrati.  Inoltre il fatto che la terra in ultima analisi sia dello Stato scoraggia anche i grandi possessori di terra a fare investimenti a lungo termine, perché temono che rivolgimenti politici li privino del loro capitale.

Per finanziarsi  il governo ricorre all’emissione di carta moneta (inflazione media annua del 60%) e al land-grabbing che va a colpire i più poveri, quelli dipendenti dalle terre del villaggio. Le dighe che devono fornire grandi quantità di elettricità da vendere ai paesi limitrofi sono costruite scacciando intere comunità dai loro villaggi e concentrandole con la violenza in campi profughi interni.

 Nel periodo di governo Zenawi continuano le periodiche spaventose carestie e continua anche la repressione violenta delle opposizioni. Dal 2014 infatti gli Oromo organizzano  una serie di rivolte contadine e campagne politiche contro le dighe e il land-grabbing; denunciano  il debito che grava sullo Stato (10,7 miliardi di $ di prestiti stranieri tra 2010 e 2015) ed è pagato dai più poveri attraverso l’inflazione, la costosa modernizzazione  delle infrastrutture. Lo Stato dirigista e interventista, oltre all’essere l’unico proprietario legale della terra (art. 40 della Costituzione), ha il monopolio in alcuni settori strategici che vanno dall’energia alla logistica, dalle ICT (tecnologie dell’informazione e della comunicazione) ai trasporti aerei. L’impegno maggiore oltre quello per l’energia elettrica e le dighe, sono stati i grandi investimenti statali nelle infrastrutture, in particolare nei trasporti (strade e ferrovie, cruciale quella che connette la capitale al porto di Gibuti, da cui transita pressoché tutto l’export etiope), e nel lancio dei parchi industriali. Una scelta, quest’ultima che conferma la capacità di attrarre investimenti stranieri in particolare dalla Cina. I parchi industriali  vengono trasformati in “zone economiche speciali”: poli in grado di offrire incentivi (fiscali e non) e infrastrutture (energia, connessione a corridoi per l’export) per attrarre investimenti privati ed esteri, in particolare quelli di delocalizzazione industriale. (nota 4)

Si formano grosse concentrazioni operaie, in cui la manodopera è mal pagata e esposta a rischi. (nota 5)

Il governo Abiy

Il nuovo premier Abiy (2018)  è un Oromo, naturalmente dell’élite e all’inizio l’OLF ne appoggia il governo. Abiy ha rilasciato i prigionieri politici, fra cui importanti leader Oromo, ne ha nominati molti nei posti chiave del governo, dell’esercito e dei servizi di sicurezza, con la mediazione dell’Eritrea. Molti attivisti esiliati sono tornati a casa.

Ma la tregua è durata un anno, poi l’OLF ha ripreso la sua opposizione. Le contraddizioni sociali non si sono ridotte.  Abiy vuole una svolta ancora più dirigista e contemporaneamente di apertura agli investimenti esteri, che si desidera attirare nel settore minerario. Le condizioni dei lavoratori non sono migliorate (bassi salari, condizioni di lavoro pericolose per la salute). La popolazione analfabeta è ancora il 49%. La disoccupazione avanza, perché migliaia di contadini scacciati dalla siccità alimentano i disoccupati delle città. Il 30% della popolazione vive ancora sotto il livello di povertà. La corruzione non si è ridotta. Le terre vengono accaparrate ancora da pochi.

Davanti alle proteste e agli scioperi il governo Abiy ha reagito come sempre, con la violenza, “la legge e l’ordine” è il primo imperativo per garantire i prestiti e gli investimenti esteri. Poi c’è stata l’invasione delle locuste 2019-20, che il governo non ha saputo prevenire né affrontare.  

Ma soprattutto il governo ha trasformato lo scontro con la leadership del Tigray in una guerra sanguinosissima, con il suo macabro corollario di morti (pare 500 mila), sfollati e distruzioni, un vero e proprio genocidio.  (https://www.combat-coc.org/tigray-le-stragi-di-una-guerra-dimenticata/).

La guerra ha consentito ancora una volta a contrapporre un’etnia all’altra: amhara e somali con Abiy, tigrini contro, Oromo spaccati (i giovani istruiti col governo, gli altri contro), l’Afar a fare da terreno di scontro. L’Eritrea di Afwerki a sostenere il governo etiope.

Del Covid, come scrive Limes, gli etiopi non si sono quasi accorti, presi come sono dagli scontri etnici, dalla fame, dalla guerra Una contabilità dei morti non si è neanche tentata; non ci sono presidi medici per registrarli o curarli, metà della popolazione è sotto i 18 anni, quindi più facile che muoia di sottonutrizione o di malaria, piuttosto che di Covid e comunque molto vecchi in Corno d’Africa non si diventa. Gli imam mussulmani e i preti ortodossi aiutano il governo nel diffondere il mito della invulnerabilità degli africani rispetto al Covid, perché già immunizzati dalla malaria e questa ideologia no vax, comoda per il governo, è arrivata anche in Europa e si è diffusa fra gli immigrati del Corno d’Africa. Lo stesso servizio hanno fatto i pope ucraini per i loro fedeli.

Ogni uomo o donna che lascia il Corno d’Africa per emigrare in Europa o da altre parti del mondo porta con sé la storia politica sociale e di classe della sua generazione. I sopravvissuti alla repressione di Selassié portavano con sé la narrazione dell’epopea della decolonizzazione e del socialismo marxista leninista, in salsa stalinista e/o maoista er erano spesso “devoti al nazionalismo etiope”. Poi c’è stata la generazione devota al nazionalismo etnico, in continua polemica gli uni contro gli altri. I più giovani si dividono fra i testimoni del nascente movimento operaio, aderenti a un marxismo che superi le etnie e si avvicini a un criterio di classe e invece gli entusiasti del neoliberismo, sedotti dalla modernizzazione e dalla possibilità di un riscatto individuale.

La vera novità dell’ultimo decennio sono le lotte operaie, scioperi non ancora in grado di egemonizzare i movimenti di protesta ma che rappresentano la possibile opposizione di domani. Secondo il Factbook della CIA, l’industria rappresenta nel 2021 solo il 7,4% della forza lavoro (circa 57 milioni). Anche aggiungendo i lavoratori dipendenti nel settore dei servizi si tratta ancora di una minoranza. Nessun intervento palliativo riformista può risolvere le contraddizioni del paese senza un cambiamento radicale del sistema sociale e gli investimenti che mirano al profitto producono dialetticamente la classe che li affosserà.

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Note

Nota 1) Va considerato che in Etiopia le terre coltivabili sono circa la metà del totale, il resto è lasciato al pascolo e sostenta in modo precario pastori, che erano un 7% della popolazione rurale. I pascoli hanno cominciato ad essere minacciati dalla desertificazione già negli anni ’80. Il Derg tenne il controllo diretto sulle piantagioni statali (il 6,5% del totale terre coltivabili). L’aspetto più progressivo della riforma del ‘75 fu che vennero abolite tutte le servitù feudali e che gli affittuari potevano tenersi quello che producevano. Ma per la diversa quantità di terra fertile nei vari stati, di fatto nel 60% dei casi le aziende agricole affittate risultarono di un ettaro e un 6,5% restò comunque senza terra. I piccoli contadini consumavano tutto quello che producevano, anche perché il commercio era tutto in mano agli ufficiali dell’esercito che pretendevano di fissare il prezzo dei prodotti.  Le comunità di villaggio sopravvissero e continuarono a funzionare come prima, ma le cooperative restarono sulla carta. La produttività delle campagne crebbe pochissimo, al contrario della popolazione. Infatti anche gli affittuari che avevano ottenuto grosse proprietà non investirono minimamente nel progresso tecnico, temendo nuove requisizioni. Il risultato fu la carestia del 1984-86, che uccise un milione di persone. Il regime sposta intere comunità, per lo più oromo, sidama ecc. dall’altipiano in zone di pianura. Si dice 13 milioni di persone, numero certamente esagerato ma che dà la percezione della violenza subita nelle popolazioni coinvolte, Spendendo per l’esercito e le armi una quota pesante del bilancio. Il Derg aumentò le quote fiscali a carico dei contadini e a causa della corruzione dei vertici solo i più poveri pagavano.  Le asfittiche industrie di stato (principalmente tessili, alimentari, cementifici, concimi, concerie) concentrate intorno alla capitale e ad Asmara, languivano per assenza di capitali: le maestranze erano illetterate, i macchinari antiquati, le materie prime arrivavano irregolarmente per il cattivo stato delle strade.

Nota 2) Ma con l’Eritrea si combatterà un conflitto dal 1998 e le truppe etiopi invaderanno la Somalia nel 2006.

Nota 3) Si doveva aumentare la produttività nelle campagne per aumentare i consumi dei contadini che così avrebbero incentivato la produzione industriale. Per questo gli aiuti sono diretti non ai contadini senza terra, ma agli affittuari medio-piccoli; a cui sono forniti a prezzi di favore attrezzatura, sementi, pesticidi ecc.  per incrementare la loro produttività. Viene garantito l’accesso all’acqua e alla elettricità  nei villaggi che sono collegati da strade.  I tre quarti della popolazione raggiunge l’istruzione elementare, sia pure con grave discriminazione delle ragazze. Quanto alla sanità essa è fornita parzialmente solo nella capitale e in qualche città, viceversa nelle campagne non esiste alcuna assistenza sanitaria. Il 50% delle donne in Etiopia muore di parto, sia per  la diffusa pratica delle mutilazioni genitali e dell’infibulazione, sia perché non c’è nei villaggi o nelle campagne nessuna possibilità di accedere a un presidio medico.

Nota 4 I maggiori sono l’Hawassa Industrial Park, l’Eastern Industry Zone, il Bole Lemi Industrial Park, ma distribuiti sul territorio se ne trovano ben 14 operativi (dieci a gestione statale sotto la Industrial Parks Development Corporation e quattro a gestione privata) che nel 2020 contavano complessivamente 153 imprese, attive in particolare nei settori del tessile, concerie e pelletterie, calzaturifici e metallurgia. 5) Ha fatto testo la situazione creata dalla  olandese Sheer che nelle sue serre, dove produce un miliardo annuo di rose per l’esportazione espone quotidianamente le operaie e gli operai (30 $ al mese) agli agenti chimici utilizzati per far durare, i fiori. Sono aumentate le nascite di bambini malformati. La ditta gode di esenzioni fiscali. Con i suoi scarichi ha inquinato il lago Ziway distruggendo la fauna che dava lavoro e sostentamento a migliaia di pescatori e cacciatori della zona.

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Made in Ethiopia, la nascita dell’industria tessile
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https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/leconomia-che-brillava-letiopia-tra-guerra-interna-e-altre-crisi-35263

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