I lavoratori tunisini e il colpo di stato

La crisi istituzionale tunisina è arrivata al capolinea, con il colpo di stato “democratico” del presidente Kais Saied. Inevitabili le conseguenze sull’intero quadro nord africano e medio orientale. Di qui l’attenzione di tutte le borghesie arabe, ma anche di Turchia, Francia e Italia. Saied cavalca l’onda lunga del malcontento popolare e proletario, per proporre una soluzione autoritaria. Soluzione che ovviamente non andrà a vantaggio del generoso movimento di protesta che a intervalli regolari occupa le piazze denunciando la situazione di disoccupazione, lavoro nero, crollo dei redditi e da ultimo fallimento della assistenza sanitaria. Un movimento che già dal 2013 ha registrato come tutte le promesse della politica borghese all’indomani della cacciata di Ben Ali  siano andate deluse e che deve emanciparsi in nome dei suoi interessi di classe.

Dopo la primavera del 2011, dieci anni di corruzione e sfruttamento

Nel 2011 si parlò molto della “eccezionalità” della Tunisia per l’esito pacifico e “democratico” della rivolta. Una retorica “occidentale” che ha coperto un esito sociale ed economico ben diverso.  La borghesia tunisina, industriali, banchieri, commercianti, che avevano subito l’occhiuto controllo del clan Ben Ali/Trebelsi, tenuti forzatamente lontani dalle scelte governative e politiche, hanno assistito senza intervenire alla rivolta, lasciando a operai, giovani e donne l’onore e l’onere della battaglia. Quando è stato chiaro che Ben Ali se ne sarebbe andato e parte dei suoi beni confiscati, le grandi famiglie, che controllano fabbriche, banche ecc., si sono mosse velocemente, ciascuna per offrire fondi, personale e consulenza ai partiti che sono diventati improvvisamente legali. I partiti, molti appena nati, altri provenienti da anni di esilio, sono stati ben contenti di accettare e di ricambiare con favori di ogni tipo. Ad esempio permettendo a questi gruppi di impadronirsi a prezzi di favore di imprese confiscate al clan sconfitto. Le grandi famiglie imprenditoriali sono state quindi le principali beneficiarie dell’allontanamento di Ben Alì.  Dopo un periodo di “disgrazia” anche i clan legati a Ben Alì e Trebelsi sono rientrati in gioco legandosi a qualche specifico partito, fra cui principalmente Ennahda e Nidaa Tounes (nota 1). Dopo il tentativo dei gruppi islamici radicali di forzare l’islamizzazione del paese e il rischio di una ripresa della rivoluzione, nel 2013, le f5razioni borghesi laiche e islamici moderati raggiungono un accordo di scambio che ha il doppio scopo di garantire gli affari della grande borghesia e bloccare le lotte popolari. Le proteste finiscono schiacciate nel sangue con 140 morti lasciati sul terreno, in linea col passato pre-rivoluzione, mentre sindacalisti e militanti di sinistra vengono brutalmente assassinati (nota 2). L’accordo è perfezionato con l’alleanza fra Ennahda e Nidaa Tounes, dopo le elezioni del 2014 (nota 3). Si inaugura un periodo d’oro per gli affaristi, pubblici e privati, che possono accedere a prestiti agevolati, appalti proficui, evadere nella totale impunità le tasse, vedere annullate le imputazioni per corruzione ecc. Nel contempo si prosegue con l’apertura al capitale francese e italiano e con una linea liberista spinta.

Struttura economico sociale della Tunisia

Per comprendere meglio gli avvenimenti occorre però analizzare brevemente la struttura economico sociale della Tunisia. Se vediamo il paese dal punto di vista della produzione del PIL, la Tunisia ha una struttura moderna: il settore terziario contribuisce a più del 60% del pil totale tunisino (14% il solo turismo); l’agricoltura pesa per l’8% e l’industria per il restante 30%. Tuttavia su 12 milioni di abitanti la forza lavoro è rappresentata da 4,4 milioni di persone. Tolti i bambini e i vecchi, sul resto la popolazione attiva non arriva al 50%. Un tasso piuttosto basso, che viene spiegato con la modesta partecipazione delle donne al mercato del lavoro (27%). Ma che meglio si spiega, come in Italia, per il peso del lavoro “informale” (nero, precario, giornaliero ecc.), un lavoro comunque non associato a un contratto o a un salario definito e garantito.   Solo il lavoro nel settore pubblico è regolamentato. Nel privato c’è una forte mobilità in entrata e uscita, volatilità salariale, precarietà e sostanziale mancanza di tutele. L’UGTT, con i suoi 700 mila iscritti, rappresenta e tutela, prevalentemente, i lavoratori pubblici, per i quali anche i governi hanno da sempre un occhio di riguardo.

Nel privato invece i salari dei lavoratori e le condizioni di lavoro non sono tutelati, anche perché, dopo le aperture al capitale straniero iniziate con Bourguiba e proseguite con successo con Ben Alì, bassi salari e buon livello di istruzione sono ciò che attira gli investitori esteri in Tunisia.  Moltissimi giovani, anche laureati e diplomati, sperimentano la disoccupazione, ma anche la sottooccupazione, il vivere di espedienti, “invisibili” alle statistiche.

La maggior parte di loro si concentra nelle banlieu delle grandi città  come Ettadhamen e Douar Hisher a Tunisi, quartieri popolari di Sfax, Sousse, Monastir) ma anche nelle zone dell’interno. Cioè dove l’occhio esercitato del marxista vede prevalentemente scoppiare i moti e le rivolte di piazza dal 1956 ad oggi (Kesserine,  Jendouba, Béja, Redeyef, Sfax, Kram, Hay Ettadhamen). L’80% del PIL è prodotto nelle regioni della costa dove si concentrano turismo, banche, industrie, commercio con l’estero. Nell’interno c’è solo agricoltura a conduzione familiare e piccolo commercio. Le regioni della costa godono di servizi quasi a livello europeo. Nelle regioni dell’interno i trasporti sono penosi, l’acqua potabile e l’elettricità non sempre garantite, l’istruzione scadente, l’assistenza sanitaria quasi assente.

Questo modello di sviluppo (contrapposizione fra lavoratori statali e lavoratori del privato; pesanti differenze regionali) caratterizza la società tunisina da Bourguiba a oggi ed ha sempre costituito un grande vantaggio e il problema per la borghesia tunisina.

In un paese come la Tunisia in cui lo stato controlla ancora una fetta consistente dell’apparato produttivo dell’economia, i partiti al potere hanno potuto spartirsi il bottino delle risorse statali. Le briciole di questi fondi sono state utilizzate per concedere piccoli aumenti stipendiali e indennità nel settore pubblico, ma anche assunzioni degli amici degli amici, una politica clientelare tradizionale in Tunisia, che consente un gioco di squadra fra governo e il più grande sindacato tunisino, l’UGTT, che ha sua volta garantisce un controllo delle tensioni sociali, ottenendo in cambio vantaggi economici e di agibilità (la storia italiana ha per un certo periodo visto fenomeni analoghi). In questo quadro i governi post 2011 hanno aumentato gli assunti nello stato di 90 mila addetti, portandoli a 620 mila. Hanno anche proseguito con pratica di sostenere prezzi “politici” dei beni di prima necessità, per tamponare la crescita della povertà. Ma questa ha determinato un aumento della spesa pubblica rispetto a una situazione di stallo delle entrate fiscali (l’evasione dei grandi ricchi, ma anche della piccola borghesia è elevatissima, il 57% del gettito sociale viene dalle imposte indirette sui consumi). Di qui l’indebitamento (raddoppiato dal 2011 al 2018, dal 44,5 all’85,5% del PIL), il ricorso obbligato al FMI e alla Banca Mondiale. E i giri di vite sui lavoratori. E l’inevitabile risveglio delle lotte di piazza

  I dieci anni fra il 2011 e il 2029 sono stati un decennio di lotte e di proteste : si è già detto del 2013, altre proteste punteggiano il 2015 e il 2016, perché la disoccupazione giovanile è per tutto il decennio intorno al 30% e riguarda in buona parte laureati e diplomati, mentre l’inflazione costante erode i salari. L’ondata di proteste riparte più violenta nel 2018: a Tunisi e a Tebourba  i giovani “sono scesi in strada lanciando pietre contro la polizia, dando alle fiamme cassonetti, pneumatici, perfino caserme della polizia” (Sole 24 ore 10 gennaio). La rivolta dilaga a Beja a Testour, Sfax, Meknassi, Sidi Bouzid, Ben Arous, Kebili, Nefza, Sousse. La scintilla è stata la nuova legge finanziaria che prevede il taglio dei sussidi sul gas domestico e carburante e nuove tasse su carte telefoniche, internet, camere d’albergo, frutta e verdura, carne e cereali (si calcola un aumento mensile per una famiglia media di 100 $). La polizia arresta 200 persone, fra cui 9 avvocati impegnati in controversie sindacali e dirigenti di partiti di sinistra. Allora come nella primavera del 2021 il governo si nasconde dietro i diktat del FMI.  Nel 2018 I salari in Tunisia sono intorno ai 160 $ al mese, mentre il minimo vitale per una famiglia di 3 persone è di 240$ (New York Times 9 gennaio). Il tasso di analfabetismo è cresciuto al 32%, la disoccupazione giovanile è del 35%, il 40% della popolazione non ha accesso all’acqua potabile, l’assistenza sanitaria non è più gratuita, nelle famiglie di lavoratori manuali si consuma carne una volta al mese.  L’Huffington Post (9 gennaio) parla di piazze gremite di giovani sotto i 35 anni, tutti diplomati o laureati e disoccupati. Uno degli slogan era “vogliamo vivere con dignità” oppure “io non perdono” (in riferimento alla corruzione dilagante) e anche “che cosa stiamo aspettando?”. Le manifestazioni hanno riguardato i quartieri operai di Tunisi come Djebel Lahmer e Zahrouni, ma anche le città e i villaggi industriali dell’interno.

La crisi dei partiti, la svolta del 2019, la crisi istituzionale

Che qualcosa sia cambiato si vede anche sul piano elettorale nel 2019 e serve a comprendere anche la crisi istituzionale del 2021: leggere l’attuale crisi nella sola accezione di scontro partiti laici e partiti islamisti è ovviamente riduttivo. I molti partiti riconosciuti a partire dal 2011 hanno subito un processo di logoramento e crollo del loro seguito elettorale  e ha riguardato principalmente Ennahda e Nidaa Tounes. Ennahda ha perso i legami con i poveri delle campagne e la tradizione assistenziale dei Fratelli mussulmani, per trasformarsi in un partito di affari, creando un vuoto dove si sono collocati partiti islamici più radicali (Karama ed Errahma), che però rappresentano settori economicamente deboli (commercio al dettaglio, piccoli imprenditori agricoli). Nidaa Tunes in cambio è stata dilaniata dagli scontri interni, dovuti alla conflittualità di affari delle grandi famiglie che la finanziavano. Di conseguenza le elezioni del 2019 hanno prodotti un parlamento super frammentato, in cui era molto difficile raggiungere una maggioranza. Contemporaneamente è stato eletto un presidente non legato ad alcun partito, Kais Saied, votato dai giovani, dai disoccupati istruiti, dai delusi. Entrambi i fenomeni sono frutto della profonda delusione rispetto alle aspettative della primavera 2011, di un forte atteggiamento anti establishment, un establishment ritenuto autoreferenziale e che ha ignorato i problemi sociali, limitandosi a partecipare al saccheggio corrotto e senza morale, pronto a qualsiasi mercanteggiamento utile a restare al potere. L’incapacità a produrre governi stabili, il persistente fermento politico indurrà la borghesia tunisina a cercare due anni più tardi una soluzione diversa. Con la sua costante non collaborazione e boicottaggio delle scelte dei governi e del Parlamento Saied si è fin dall’inizio candidato a essere una delle soluzioni possibili

L’effetto Covid

La fallimentare gestione della pandemia dopo il 2019 ha accresciuto il distacco ed eroso anche l’alto indice di gradimento del nuovo presidente Kais Saied . Mentre i morti crescono ogni giorno, il sistema sanitario, dove c’è, è al collasso. Il paese dispone di 331 posti di terapia intensiva /100 mila ab. (in Italia nel 2019 erano 8,42 poi potenziati), nessuno nelle regioni dell’interno. Mancano le bombole di ossigeno. La campagna vaccinale ha raggiunto poco più del 7 percento dei 12 milioni di abitanti.  Il Covid ha avuto un forte impatto sull’economia, azzerando il turismo, un settore ad alta occupazione umana, anche ad alta presenza di lavoro “informale”, persone che hanno perso quasi tutte il lavoro. Anche il settore manifatturiero ha visto un aumento dei licenziamenti anche fra i lavoratori a tempo determinato, per il forte calo dell’export in Europa. Sono calate anche le rimesse degli emigrati.

Già a metà del 2020 sono ricominciate le agitazioni (nota 5) e nel solo gennaio 2021 il Forum tunisino per i diritti  sociali ed economici ha registrato 1492 proteste; tra il 14 gennaio e il 17 febbraio 2021 sono stati effettuati 968 arresti, di cui 141 hanno coinvolto minori (dati Ministero Interni); la LTDH (lega tunisina dei diritti umani) parla di 1700 arresti di cui 500 di minorenni. La polizia ha reagito con estrema violenza

Il colpo di stato

Come è noto Saied il 25 luglio ha sospeso le attività del parlamento (che resta chiuso e presidiato dall’esercito), tolto l’immunità ai suoi membri, destituito il primo ministro Hichem Mechichi, il ministro della Difesa e quello della Giustizia, il capo dei Servizi Segreti, il direttore della TV di Stato; ha sostituito con un fedelissimo il ministro degli Interni, ha assunto ad interim l’incarico di Procuratore generale.  Il paese è sotto coprifuoco dalle 19 alle 6 di mattina, sono vietati gli assembramenti con più di tre persone e gli spostamenti tra i governatorati. Sono stati rimossi i vertici delle aziende di stato (fra cui Tunisair). Il pagamento di fatture (elettricità, acqua, telefono, internet, gas ) è sospeso, così come il rimborso dei mutui e dei prestiti bancari, il pagamento delle tasse per 30 gg. I prezzi degli alimentari di prima necessità sono ridotti del 20%. La polizia ha sgomberato la sede di Al Jazeera e chiuso il giornale filo qatariota. Saied ha consegnato il potere a se stesso e all’esercito, offrendo una carota ai più poveri.  L’indomani del colpo di stato gruppi più o meno numerosi hanno incendiato le sedi di Ennada a Sousse, Monastir, Sfax , El Kef, Sidi Bouzid e Tozeur,  tacitamente incoraggiati dal governo e tollerati dalla polizia. Che le masse sfoghino la loro collera contro gli islamici. La polizia ha invece l’ordine di sparare a vista contro le manifestazioni non autorizzate (WSWS 29 luglio 21). Come scrive l’Etincelle “In Tunisia non si hanno le bombole di ossigeno, ma c’è abbondanza di lacrimogeni e proiettili di gomma”. La risposta ai problemi sociali è ancora una dura repressione, arresti e detenzione in condizioni inumane. L’unica soluzione concreta, l’emigrazione, è contrastata per mantenere rapporti cordiali con l’Europa.

Chi sono i padrini esteri del colpo di stato

Voci giornalistiche, che fanno capo a Middle East Eye, danno per assodato che dietro la mossa di Sayed ci siano il presidente egiziano Al Sissi e i servizi segreti degli Emirati Arabi, quali battistrada dell’Arabia Saudita (il cui ministro degli esteri si è recato a Tunisi il 30 luglio), per ottenere la definitiva messa al bando del partito islamico Ennada, al potere in vario modo da dieci anni, considerato connesso coi Fratelli Mussulmani e quindi con Qatar e Turchia. E’ una lettura tutta interna al mondo arabo, che vede Saied come emulo del colpo di stato egiziano del 2013. Ma che trascura la forte influenza economia e politica di Francia (ex potenza coloniale) e Italia (che fra le altre cose nel 1887 impose al governo Ben Alì). Per questi due paesi e per la UE sono in gioco investimenti, export, oleodotti e flusso di materie prime, ma anche la necessità di tenere sotto controllo i flussi migratori. Ma in generale anche altri grandi potenze, dalla Russia, alla Cina, agli Usa, sul lungo periodo guardano al controllo dei porti e delle rotte nel Mediterraneo.

Italia e Francia stanno premendo sulla UE perché assuma un ruolo di garante rispetto alla situazione debitoria della Tunisia, ne favorisca la ristrutturazione del debito e la modernizzazione dell’economia. In cambio il nuovo governo può garantire il controllo dei flussi migratori e un occhio di riguardo per gli investimenti europei, evitando che nella crisi si inserisca la Turchia, con evidenti conseguenze anche sugli avvenimenti libici.

Che futuro per i lavoratori della Tunisia?

In conclusione se anche qualche lavoratore può aver dato credito alla retorica vecchio stile di Saied “l’onesto”, non è da lì che verrà una soluzione ai problemi. Al massimo può svolgere un ruolo “bonapartista” di garante del sistema, al di sopra delle frazioni borghesi, in presenza di partiti inadeguati (un Mario Draghi autoritario spalleggiato dall’esercito). La sfiducia nei partiti corrotti è un punto di partenza, ma non basta. La carica protestataria senza un programma e un’organizzazione nemmeno. Commenta Mohamed Kerrou (Università El Manar – Tunisi) che la contestazione è poco strutturata; a livello organizzativo si è rimasti a Mohamed Bouazizi che si immola davanti alla folla sconvolta. La parola d’ordine è « nidham », il crollo dell’ordine costituito. I giovani delle periferie scendono in piazza, ma la polizia li tiene facilmente a bada. Si protesta a piccoli gruppi, non coordinati. Si protesta per un posto di lavoro, per l’acqua, per il caro vita, ma non ci sono proposte articolate e collettive. Alla mancanza di un discorso di prospettiva da parte dei politici corrisponde la mancanza di rivendicazioni di largo respiro dal basso. Anche i più scolarizzati, che si muovono fra associazionismo e i partiti minoritari della sinistra radicale, concentrano gli attacchi contro la corruzione dominante e la malavita che si insinua in tutti i corpi dello stato, chiedendo dignità, una rivendicazione morale ma non tradotta in termini politici.

L’unica organizzazione che ha una forza organizzata è l’UGTT, ma è una grossa macchina burocratica che è stata un pilastro per il regime di Ben Ali, non disdegna di trattare con Saied e si propone per le azioni di pompieraggio in cui è specialista (vedi ancora nota 2)

D’altronde, sempre secondo Kerrou i piccoli partiti della sinistra marxista, con una capacità di analisi più ampia, non hanno saputo andare oltre i circoli intellettuali. Il giovane proletariato tunisino si troverebbe quindi ad affrontare il rischio di un nuovo regime autoritario senza preparazione e senza organizzazione. Anche ammettendo che Kerrou sia troppo pessimista, è evidente che c’è un potenziale di lotta (molti giovani, tradizioni a proteste dure e prolungate, condizioni di vita in continuo peggioramento), ma è un potenziale che non è sostenuto e indirizzato da una organizzazione con un programma di classe. Del resto saremmo meglio preparati noi in Italia rispetto a una svolta autoritaria?

Molti fattori hanno concorso a questo risultato. Una presenza minoritaria di posizioni internazionaliste, per cui per molti lavoratori il nazionalismo e il socialismo sono stati nel passato e anche ora sinonimi, tanto da essere facilmente strumentalizzati dai partiti borghesi. La tentazione diffusa di risolvere con le elezioni il problema del potere. Una repressione durissima che dura da decenni e che ha via via decapitato il movimento dai leaders più preparati. Differenze regionali, di impiego e di reddito che rendono complesso unificare le lotte, infine la stessa giovinezza di chi in ogni generazione protesta è un vantaggio ma può essere un limite. Soprattutto se non c’è stata nel tempo la formazione a un ideale di classe e rivoluzionario, un passaggio di esperienza da una generazione all’altra. Siamo partiti con il descrivere l’operazione gattopardesca che ha consentito alle élites economiche di conservare tutto il loro potere prima e dopo il 2011. Ma se informazioni come questa restano nel chiuso delle aule universitarie, non diventano strumento di consapevolezza, le lotte restano alla stregua di sommosse che lasciano morti sul terreno ma non fanno avanzare di un passo la forza del proletariato.

Dall’altra parte del mare sono arrivati dalla sinistra avvertimenti (potrebbe essere una riedizione del colpo di stato egiziano) e solidarietà. Ma una solidarietà efficace, che non si limiti cioè alle parole e ai sentimenti, richiederebbe organizzazioni sindacali e politiche in grado di tradurla in azioni.  Un primo passo potrebbe essere di porsi questi problemi anche in Italia.

 Nota 1. Per approfondire l’intreccio fra affari e politica dopo il 2011 e le modalità con cui i grandi gruppi tunisini capitale bancario e industriale si è riciclato nel post rivoluzione dei Gelsomini è consultabile un allegato Tunisia allegato 1 – Affari e politica

Nota 2 – gli omicidi politici individuali dei leaders di sinistra sono  opera delle LPR (Leghe Per la difesa della Rivoluzione), le squadracce islamiche che si muovono contro sindacalisti,  volontari per i diritti civili, sinistra radicale; Le vittime più note sono Chokri Belaid, Mohamed Brahmi, Mohamed Belmufti, tutti responsabili di piccoli partiti che fanno riferimento al Fronte Popolare nato nel 2012. Ma nel mirino ci sono anche singoli militanti o scioperanti, perché in mancanza di qualsiasi riforma sociale che risolva i problemi di carovita e sottooccupazione, povertà nelle campagne riempiono le piazze. La polizia usa tranquillamente la violenza anche contro chi partecipa ai funerali delle vittime. La tortura è pratica comune nelle prigioni. Quando la misura è colma e la protesta sembra ormai fuori controllo, la UGTT (l’Unione generale dei Lavoratori tunisini), fino a quel momento compiacente con il governo di turno, organizza uno sciopero generale che la rimette alla testa delle proteste popolari (manifestazioni del Bardo agosto 2013). I lavoratori otterranno poco o nulla, sarà l’ala laica della borghesia, in particolare Nidaa Tounes guidata da Essebsi, a trarne vantaggio.

Per approfondire la storia e i legami dei partiti di sinistra, marxisti e no, prima e dopo il 2011 è consultabile l’allegato SINISTRA RADICALE TUNISINA

Per una breve storia della UGT e i suoi rapporti con i principali momenti di rivolta e contestazione  è consultabile Tunisia allegato 4 – Lotte e organizzazione

Nota 3 Per notizie più dettagliate sulla evoluzione dei partiti, le elezioni, i governi che si sono succeduti e l’attuale composizione del Parlamento è consultabile Tunisia allegato 2 – l’evoluzione dei partiti dopo il 2011.

 Per riferimenti alla storia della Tunisia precedente al 2011 è consultabile Tunisia allegato 3 – breve storia politica della Tunisia moderna

Nota 4 cfr ISPI Il lavoro che non c’è: profilo e cause della crisi socio-economica in Tunisia

25 gennaio 2016

Nota 5 da ECFR European council of foreign relations 29 aprile 2021 Come la Tunisia può trasformare il Covid-19 in un’opportunità Nota 6 per avere un’idea di chi partecipa alle agitazioni del 2020: a)I disoccupati diplomati della regione di Gafsa che da mesi attendono il risultato delle graduatorie di assunzione del Gruppo Chimico Tunisino, hanno più volte bloccato i binari della linea Mhdilla/Gafsa-Sfax utilizzata per il trasporto dei fosfati, anche alcune locomotive sono state date alle fiamme. b)Gli operai dei cantieri edili hanno proclamato uno sciopero per il 2 giugno con manifestazioni nelle diverse regioni per l’applicazione del contratto 2018 c)protesta dei venditori ambulanti di Susa che non possono vendere per strada d) I professori precari hanno organizzato un sit-in il 29 maggio alla piazza della Kasbah, per essere assunti e stabilizzati. d) personale sanitario in mobilitazione perché mancano mascherine, ventilatori, ossigeno, ecc.

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