Il covid-19 in Cile

Il Cile attualmente è il terzo paese dell’America Latina, dopo Brasile e Perù, per numero di contagi da Covid-19: al 21 aprile sono 10.832 le persone infette e 147 i morti, con una mortalità del 1,36%.

Di fronte alla crisi sanitaria che sta vivendo il paese, il governo Piñera dimostra ancora una volta il suo disprezzo per la vita della classe lavoratrice e della popolazione più povera.

Durante la rivolta popolare scoppiata il 18 ottobre sono state assassinate più di 50 persone: studenti, operai, giovani mapuche; e fatti oltre 2000 prigionieri politici.

Il 12 novembre il grande sciopero generale che ha paralizzato il 90% del settore pubblico e il 70% di quello privato ha segnato l’apice delle mobilitazioni e della potenza insurrezionale delle classi oppresse cilene.

Tre giorni dopo lo sciopero il Frente Amplio getta al presidente la scialuppa di salvataggio e assieme ai partiti della destra sottoscrive il “Patto per la pace e la nuova costituzione”, cercando di incanalare la rabbia popolare in un ingannevole processo costituente.

Il PC e la CUT (Centrale Unica dei Lavoratori) giocano la carta dello sciopero simbolico il 26 novembre, nell’analogo tentativo di smorzare l’irruenza della protesta e di dividere la ribellione di massa.

Quel giorno stipulano con il governo una tregua che dura fino ad oggi, e nella quiete della loro quarantena i dirigenti della CUT conquistano il “premio di buona gestione sindacale”, intascando 51 milioni di pesos (1 pesos =0.0011 euro).

Anche in Cile come in tutta l’America Latina la pandemia sta ricadendo sulle spalle dei lavoratori e della popolazione più povera. Nel mese di marzo sono state spedite 300.000 lettere di licenziamento e firmate 700.000 sospensioni dal lavoro, grazie alla Legge della Protezione dell’Impiego, votata da una parte del Frente Amplio e dal Partito Comunista assieme alla destra.

La Legge non è altro che la legittimazione dei licenziamenti, delle sospensioni, della riduzione dei salari e della giornata di lavoro nel periodo della crisi sanitaria, mascherata da pochi spiccioli che andranno nelle tasche di qualche proletario fortunato, ma solo se le imprese vi aderiranno volontariamente. Finora vi hanno risposto 56.000 aziende ma molte, in assenza di divieti, preferiscono liberarsi della mano d’opera in modo più sbrigativo.

Da un’inchiesta della Camera Nazionale del Commercio effettuata tra 569 aziende che comprendono 113.448 lavoratori, si è trovato che il 38% ha licenziato i propri dipendenti. Il campione comprende il 44% di microimprese, il 31% di piccole imprese, il 16% di medie e il 9% di grandi imprese (rispettivamente: <10, tra 10 e 49, tra 50 e 199 e oltre i 200 lavoratori).

Le cifre sono attese in aumento. Si valuta che il 17% di lavoratori rimanga senza fonti di sostentamento, ma il numero è senz’altro in difetto.

La maggior parte delle sospensioni dal lavoro vengono da imprese private: alberghi e ristorazione in primis, poi commercio e edilizia, ma anche multinazionali come H&M, Burger King, Mc’Donald, Starbucks e Ripley.

Di fronte ad un governo che non vieta i licenziamenti e solo raccomanda di non abusare della Legge, le aziende cercano di salvarsi.

Il governo propaganda che alle sospensioni seguirà, cessata la crisi, il reintegro dei lavoratori, ma nessuno è in grado di assicurarlo.

Al confronto in Argentina i licenziamenti e le sospensioni nello stesso mese sono 15.000, mentre in America Latina fino a marzo si sono persi il 5,7% delle ore di lavoro, corrispondenti a 14 milioni di posti di lavoro a tempo pieno (dati OIL).

Immigrati bloccati al Nord
Sono più di 1500 i lavoratori immigrati che non riescono a ritornare nei loro paesi di origine. Si tratta per lo più di peruviani e boliviani, che da un lato si trovano ad affrontare la repressione poliziesca e militare non appena protestano, dall’altro subiscono l’indifferenza dei loro governi. Un centinaio di boliviani ha allestito un accampamento a Iquique e circa 400 ad Antofagasta dormono nei terminal dei pullman; la maggior parte sono stagionali e braccianti.

La presidente golpista boliviana Jeanine Añez si oppone al loro rientro, ma organizza staffette aeree per il rientro dei miliardari in vacanza a Miami e Città del Messico.

Agli immigrati non viene data alcuna assistenza dalle istituzioni cilene: né cibo né riparo né acqua potabile, e non hanno alcun contatto con i loro familiari.

Il Comitato di Emergenza e Protezione di Antofagasta, costituito da lavoratori dell’industria e delle miniere, organizzazioni sociali e di volontariato, della scuola e della sanità e che ha avuto un ruolo fondamentale nell’organizzare la resistenza durante le lotte dell’autunno scorso in Cile, ha lanciato una campagna contro i licenziamenti e gli attacchi ai lavoratori e si sta muovendo in soccorso agli immigrati bloccati nel paese.

Ha ripreso la rete di solidarietà delle lotte precedenti e autoproduce e fornisce mascherine, gel, guanti per la popolazione più esposta e senza protezioni, a cominciare dal personale sanitario dell’ospedale di Antofagasta.

Il Comitato denuncia il governo Piñera, che sta approfittando della pandemia per sferrare un ulteriore attacco ai lavoratori e alla popolazione, rea di essersi ribellata alle sue misure neoliberiste e ad una situazione sociale insostenibile.

Oltre alla legge suddetta, approvata anche su spinta delle maggiori centrali sindacali, denuncia l’indifferenza del governo verso i rischi sanitari della pandemia, governo che continua a mantenere attivi i servizi, i trasporti e l’industria non essenziali, con nessun riguardo per i DPI e il distanziamento necessari.

Il Comitato sta organizzando assemblee nei vari settori lavorativi, chiedendo la convocazione di uno sciopero generale.

La CUT rimane in silenzio, assieme alla Mesa de Unidad Social, per non violare la tregua con il governo, anche di fronte ai licenziamenti e alle sospensioni dal lavoro indiscriminate. La Centrale sindacale non teme nemmeno di perdere la faccia accettando di sedere a fianco del governo al “tavolo di controllo e monitoraggio dei licenziamenti”, per assicurare che i lavoratori vengano licenziati nel modo migliore.

Se prima della pandemia le famiglie cilene erano indebitate per il 75% del reddito familiare, lo scenario attuale non può che peggiorarne le condizioni di vita, perché costrette a scegliere tra la propria vita e la fame.

Fonti: La Izquierda Diário 13, 14, 17, 18 aprile 2020