[Il Cuneo Rosso] L’Intifada araba e noi

Pubblichiamo un recente contributo dei compagni del Cuneo Rosso di Marghera sugli ultimi sviluppi della situazione mediorientale.

Scriviamo queste note sull’Intifada araba non solo e non tanto per rispondere alle critiche – alcune penosamente falsificanti – ricevute dal n. 1 de Il Cuneo Rosso, quanto per rilanciare il dibattito, finora poverissimo, sulla grande sollevazione popolare e proletaria che continua a scuotere l’intero mondo arabo. Le scriviamo mentre l’Egitto, in tutte le sue città, è percorso da grandi, infuocate manifestazioni di protesta contro il tentativo di Morsy di creare un nuovo regime in stile Mubarak (a cominciare dalla messa sotto controllo dei sindacati) e all’indomani della nuova bestiale aggressione di Israele e dei suoi protettori a Gaza e al popolo palestinese, finita con il sostanziale smacco per gli aggressori: avvenimenti che risultano inspiegabili se si prescinde dal contesto e dagli sconvolgimenti prodotti dall’Intifada araba del 2011-2012. Interveniamo per ribadire e chiarire le nostre posizioni, e per dare il nostro contributo non solo al rafforzamento del movimento di solidarietà con gli sfruttati arabi in rivolta e con il popolo palestinese, ma anche all’opposizione, finora quasi inesistente, alle minacce di guerra dell’imperialismo occidentale ai lavoratori e ai popoli della Siria e dell’Iran – un’opposizione che deve essere parte integrante della necessaria risposta di lotta dei lavoratori agli effetti della crisi in Europa e in tutto l’Occidente.

1) L’Intifada araba del 2011-2012 è stata ed è tuttora ignorata o largamente sottovalutata dalla sinistra rivoluzionaria europea, e italiana in particolare, affette da un senso di estraneità, di scetticismo e anche di disprezzo verso le genti arabe e “islamiche” assorbito quasi senza filtri dall’ideologia dominante. Essa costituisce invece, per noi, un avvenimento di importanza storica. Con la scesa in campo di milioni di operai, sfruttati, giovani senza futuro, donne senza diritti, ha infatti riaperto nelle piazze – con epicentro in Egitto, che è il paese chiave del mondo arabo – il processo della rivoluzione democratica e anti-imperialista in una regione strategica del globo. Sotto questo profilo l’Intifada araba è parte integrante del moto di risveglio e di ascesa delle masse lavoratrici del Sud del mondo, che ha compiuto i suoi primi passi nel Sud-America squassato dalla crisi del debito negli anni ’80 e ’90 fino all’Argentinazo, e ha poi investito una serie di paesi asiatici e africani in sviluppo, la Cina, il Bangladesh, il Vietnam, l’India, il Sud-Africa con una lunga catena di scioperi operai e di lotte di contadini poveri. Di tale moto essa costituisce un primo momento offensivo, a misura che è riuscita a buttare giù governi e, in parte, regimi come quelli di Mubarak, Ben Ali e Saleh, che sono stati per decenni dei veri e propri pilastri della dominazione imperialista nell’area.
C’è di più: per i mille nessi che stringono la regione araba al capitalismo globale e che legano gli sfruttati arabi ai proletari delle metropoli occidentali e del mondo intero, l’Intifada araba ha inferto duri colpi alla già precaria stabilità dell’ordine capitalistico internazionale a guida statunitense; ed è stata, è, allo stesso tempo, un grande apporto, il più energico dell’ultimo decennio, alla ripresa del movimento proletario alla scala internazionale. Con la sua esplosione, abbiamo scritto, “è la rivoluzione sociale in quanto tale che bussa di nuovo alle porte dell’Europa e dell’Occidente”1. È per questo, per il suo grande potenziale rivoluzionario, che abbiamo puntato la nostra attenzione sulla sollevazione popolare e proletaria araba e che rinnoviamo l’invito a occuparsene attentamente, facendola finita con una sufficienza euro-centrica nei confronti delle masse oppresse del mondo arabo che di rivoluzionario, di comunista, di internazionalista non ha assolutamente nulla.

2) Questa grande sollevazione popolare e proletaria non nasce nel vuoto, né tanto meno, come qualche povero sciocco ha suggerito, dal discorso di Obama al Cairo del giugno 2009. Essa ha profonde radici materiali e politiche, determinate e determinanti, dalle quali non è possibile prescindere.
Le sue radici materiali affondano nella ri-colonizzazione imperialista della regione avviata negli anni ’70 con la “apertura” all’Occidente di Sadat e l’umiliante trattato di pace con Israele, e poi proseguita nel periodo neoliberista con un mix di devastanti aggressioni belliche e di “cure speciali” del FMI che hanno prodotto miseria, fame, disoccupazione su grandissima scala, super-sfruttamento, estrema polarizzazione della ricchezza, corruzione, perfino un ritorno in forze dei proprietari terrieri, e quant’altro. In questo periodo, che ha visto alternarsi fasi di caduta della produzione, di stagnazione ma anche di crescita degli indici del pil, le società arabe hanno conosciuto un ampio processo di proletarizzazione, scandito dalla espulsione massiccia di contadini dalle campagne, dai tumultuosi processi di urbanizzazione di massa, dall’incremento della produzione manifatturiera in sub-fornitura, dalla crescita della popolazione, dall’inesorabile erosione dei rapporti sociali pre-capitalistici, dagli altissimi tassi di inoccupazione e precarietà di una gioventù sempre più istruita e senza sbocchi, dalla necessità vitale di milioni di donne di trovare un lavoro extra-domestico, dai vasti movimenti migratori interni, nonché dall’estero e verso l’estero. Chi non tiene conto di queste radici materiali e di queste trasformazioni sociali non riesce neppure a vedere di quali “soggetti sociali” siano realmente composte le calde piazze arabe.
La radice politica della sollevazione, invece, è nel completo naufragio della rivoluzione nazionale araba e delle relative direzioni: un naufragio generale che ha coinvolto i paesi apertamente infeudati all’imperialismo, ma anche quei paesi (Libia, Siria) che hanno mantenuto negli anni un certo, decrescente, grado di attrito con esso. Un naufragio segnato da una sistematica repressione di ogni forma di attività autonoma delle classi lavoratrici, con una sequenza impressionante di divieti per i lavoratori, arresti, persecuzioni, impunite torture di stato, eccidi, nel vano tentativo delle élite borghesi al potere, sempre più ridotte ad affaristici aggregati di clan, di procrastinare all’infinito il momento della verità.
Date queste premesse, lo scoppio degli antagonismi sociali nel mondo arabo era soltanto questione di tempo. Esso si è verificato con l’avvento della crisi economico-finanziaria e alimentare degli anni 2008-2009, la più grande crisi nella storia del capitalismo, che ha segnato un vero e proprio spartiacque nella vicenda della lotta di classe a livello internazionale. Ed è stato proprio il carattere generale di questa crisi, che si è sentita sia nei paesi arabi più ricchi che, ovviamente con un impatto assai più acuto, in quelli più poveri, a produrre un sommovimento altrettanto generale. E’ questa grande crisi la grande regista della Intifada araba e del ritorno della guerra di classe – per ora più dall’alto che dal basso – in Europa.

3) Pur se ha presentato evidenti e profonde differenze da paese a paese, l’Intifada araba costituisce – al pari dei moti rivoluzionari nazionalisti del secondo dopoguerra – un processo unitario. Tale carattere unitario è dovuto alle comuni radici storiche, economiche e politiche delle sollevazioni; al comune bisogno espresso dalle masse insorte di conquistare quelle condizioni di esistenza promesse ma non realizzate dal nazionalismo rivoluzionario degli anni ’50 e ’60. Tale carattere unitario è dovuto, infine, alla comune intenzione di fare i conti con i rispettivi regimi borghesi autocratici: lo slogan politico caratterizzante dell’Intifada “il popolo vuole abbattere il regime” è risuonato anche nelle localizzate manifestazioni avvenute in Arabia saudita nella provincia di Qatif.
Parlare di unitarietà dell’Intifada, non equivale ad affermare una sua (inesistente) omogeneità. Vuol solo dire che in ogni angolo del mondo arabo essa ha fatto sentire i suoi effetti, ma questi effetti sono stati e sono differenziati a seconda delle specifiche caratteristiche dei singoli paesi e della forza materiale e politica del proletariato, da Egitto e Tunisia a Libia e Siria, dal Kuwait al Bahrein all’Oman all’Iraq, dalla Giordania al Libano, dallo Yemen al Marocco2. Un filo unitario delle proteste sociali e politiche, dunque, che non ha lasciato indenne neppure un paese della vasta regione araba, con evidenti ripercussioni anche in Israele, scossa nell’estate-autunno 2011 dalle proteste sociali più ampie della sua storia (benché mute sulla oppressione dei palestinesi), e in Turchia, attraversata nell’ottobre scorso da scioperi e dimostrazioni anti-governative nelle quali è emersa, con il rifiuto delle leggi anti-sciopero, la forte opposizione dei lavoratori turchi e curdi alla guerra contro la Siria.
L’ultimo test visivo di questa unitarietà si è avuto l’11 settembre scorso quando in una molteplicità di paesi e di luoghi del mondo arabo e “islamico” si è risposto all’unisono contro il provocatorio film su Maometto – e al Cairo in testa ai furibondi manifestanti non c’erano dei salafiti, bensì gli ultras delle squadre di calcio della capitale, Zamalek e Ahly. Niente di così strano: oggetto di un’aggressione imperialista ideologico-culturale, oltre che economica, politica e militare, unitaria, le genti arabe ed “islamiche” rispondono, per quel che possono e come possono, in modo unitario.

4) Il segno proletario su questa sollevazione popolare, di più classi sociali, che ha coinvolto anche grandi masse di semi-proletari e di piccolo-borghesi, è stato forte per quello che concerne le forme e i metodi di lotta, per l’energia e il coraggio infuso all’intero movimento, specie in Egitto, Tunisia, Bahrein. Nello stesso tempo, anche in questi paesi, è stato troppo debole – una debolezza che il proletariato arabo condivide con il proletariato internazionale – per riuscire a diventare la forza dirigente della sollevazione, per dare la propria impronta al programma delle trasformazioni economico-sociali e politiche da realizzare e alla strategia con cui far fronte alla reazione imperialista all’Intifada. Ciononostante, l’ampio processo di attivizzazione e di auto-organizzazione delle masse proletarie e semi-proletarie insorte (Samir Amin ha stimato in 15 milioni i dimostranti nel solo Egitto) con la creazione di centinaia di nuovi organismi di lotta interni e soprattutto esterni ai luoghi di lavoro, costituisce una fondamentale precondizione – necessaria, anche se non sufficiente – per la stessa riconquista dell’autonomia organizzativa, politica e teorica della classe lavoratrice. È questo il principale, ma non l’unico, risultato, all’oggi, dell’Intifada araba: l’entrata in campo di grandi masse di sfruttati e di oppressi che hanno rotto con la precedente condizione di passività e hanno iniziato ad unirsi, a riconoscere di avere bisogni e interessi comuni, ad organizzarsi per affermare con la lotta le proprie necessità e aspirazioni.

5) Un altro effetto di prima grandezza dell’Intifada araba del 2011-2012 è quello di avere riaperto la questione palestinese, un nervo scoperto, come si sa, di tutto il mondo arabo. Mai i palestinesi erano stati tanto isolati come durante e dopo le tremende giornate dell’operazione di massacro “piombo fuso” nel gennaio 2009. Le sollevazioni tunisina, egiziana e così via hanno spezzato questo isolamento e hanno rianimato “un minimo di protesta di massa dei palestinesi a Gaza, in Cisgiordania, ai confini di Israele, ad Haifa, nelle carceri di Israele; ed è stata ancora l’Intifada a mettere in discussione gli accordi economici neo-coloniali tra Israele ed Egitto” e se poi “la memoria non ci inganna, è andata semi-distrutta l’ambasciata di Israele al Cairo” (non accade ogni giorno, vero?).
Sia la nuova bestiale aggressione a Gaza del governo Netanyahu-Barak, sia il modo con cui si è conclusa, poco glorioso per i suoi promotori, confermano a pieno quanto abbiamo scritto. Essa è nata dalla volontà dello stato sionista di “far abbassare la cresta” ai palestinesi, ma l’abbattimento di Mubarak, uno dei pilastri dello strapotere israeliano nella regione, ha posto un freno alla libertà d’azione di Israele nel suo pianificato annientamento della popolazione e della causa palestinese, mentre sul fronte opposto ben undici governi arabi, per la pressione dei loro popoli, hanno pensato bene di presentarsi a Gaza nella veste di amici e difensori dei palestinesi. Non dubitiamo dell’ambiguità della loro politica, né ci si può illudere che la tregua segni per davvero la fine delle aggressioni sioniste ai palestinesi e tanto meno la fine della occupazione della terra di Palestina; ma sta di fatto che Hamas e i palestinesi hanno potuto con qualche buona ragione salutare la tregua come una vittoria, mentre il governo di Israele è stato costretto dai nuovi rapporti di forza creati dall’Intifada a rinunciare, per il momento, alle ben più devastanti azioni che aveva in programma e il suo ministro della guerra ad imboccare mestamente il viale del tramonto…

6) Sebbene il termine “rivoluzione” sia di largo uso nei paesi arabi per marcare l’importanza della rottura avvenuta con gli avvenimenti del 2011-2012, l’Intifada araba non può essere considerata una rivoluzione, ma l’atto iniziale della riapertura su grande scala, dal basso e con epicentro sociale nelle classi sfruttate, di un secondo tempo della rivoluzione democratica e anti-imperialista nell’area. Le sue ripercussioni – lo abbiamo ripetuto fino alla noia nel nostro scritto – sono tutt’altro che limitate alla regione araba, ma hanno conseguenze potenzialmente dirompenti per l’ordine imperialistico nel suo complesso, anche all’interno delle metropoli. Innanzitutto perché riducendo le possibilità di un “tranquillo” super-sfruttamento della forza-lavoro araba, riducendo le possibilità di una “tranquilla” espropriazione delle ricchezze poste nel sottosuolo arabo, e rendendo più insicuro il bastione israeliano, l’Intifada fa diminuire le risorse materiali e politiche con cui l’Occidente e Israele possono cercare di tenere a bada le proprie contraddizioni sociali interne. Specie – non ci stancheremo di sottolinearlo – perché siamo dentro una crisi capitalistica molto profonda, dalla quale non si intravvede l’uscita.
Se per l’attuale sollevazione del mondo arabo parliamo (ancora) di rivoluzione democratica e anti-imperialista è perché, da materialisti, teniamo ben presenti le condizioni locali e internazionali in cui essa si dà. Chi ci ha letto e ci leggerà libero da spocchie dottorali (dottori in marxismo… occidentalizzato, e tramutato in metafisica) non farà fatica a distinguere tra l’analisi degli avvenimenti per ciò che essi sono, tra l’analisi del movimento reale per come esso si è dato e poteva darsi (sempre e necessariamente “impuro”, specie se si tratta di rivoluzioni democratiche, e cioè ancora confinate nel recinto di rapporti sociali borghesi) e la prospettiva che da comunisti internazionalisti auspichiamo e preconizziamo per i nostri fratelli di classe arabi, per il proletariato dell’Occidente e del mondo intero, che è quella della “rivoluzione in permanenza”, del percorso rivoluzionario ininterrotto al socialismo internazionale e al comunismo; la prospettiva per la quale lavoriamo quotidianamente, a fianco e dentro il movimento reale.

7) Proprio per la forza delle sollevazioni arabe e per il timore delle loro conseguenze a catena dentro e fuori il mondo arabo, la controffensiva imperialista non si è fatta attendere ed è stata a 360 gradi.
Nei primi tempi dell’insorgenza Washington&C. hanno provato a dialettizzarsi con le sue componenti giovanili piccolo-borghesi in nome di alcune libertà occidentali da esportare via internet, twitter e fiumi di dollari. Il nocciolo duro dell’azione delle cancellerie imperialiste, però, è stato costituito fin da subito dagli interventi concertati per soffocare sul nascere la sollevazione puntellando le strutture militari e repressive a rischio, o per deviarla su binari morti facendo ricorso, oltre che al terrore, la prima e fondamentale arma della reazione, al fomento delle divisioni confessionali e, anche, a delle limitate e condizionate concessioni sul piano delle libertà democratiche, tenendo ben distinte le libertà che possono interessare ai borghesi da quelle che sono vitali per gli sfruttati – a cominciare dal diritto di sciopero e di organizzazione politica e sindacale, su cui nessuna volontaria concessione era ed è possibile.
Questa controffensiva ha dovuto fare i conti, naturalmente, con le differenti caratteristiche che l’Intifada ha avuto nei diversi paesi. Là dove l’apporto proletario ad essa è stato più forte, ad iniziare da Egitto e Tunisia, Stati Uniti e Unione europea hanno manovrato e manovrano per mantenere il processo delle trasformazioni politiche e sociali entro binari sopportabili per gli interessi imperialisti, secondo il principio della riduzione del danno – lo fanno agendo su propri referenti, ovviamente privilegiando le componenti delle sollevazioni borghesi (ultra-minoritarie) e piccolo borghesi (assai più ampie) e cercando di condizionare a fondo i nuovi governi nati a seguito di esse anche attraverso il cappio del debito estero. Altrove, invece, là dove l’apporto proletario è stato pressoché inesistente (come in Libia) o, sebbene consistente quanto a presenza nelle piazze, è rimasto più fragile sul piano politico (come in Siria), hanno affondato e stanno affondando direttamente o indirettamente i propri colpi nel tentativo di approfittare delle rivolte per regolare i conti tuttora in sospeso con i relativi regimi, crearsi nuove basi di operazioni belliche e di saccheggio, scalzare l’influenza di Russia e Cina, e soprattutto dare un alt a tutta l’Intifada bloccandone la ulteriore estensione, la continuazione e la radicalizzazione in senso anti-imperialista e anti-capitalista.

8) Il fronte controrivoluzionario capeggiato da Stati Uniti e Unione europea non è composto solo dai più fidi alleati dell’Occidente: comprende l’intera borghesia araba e medio-orientale, inclusa quella che si riconosce nei Fratelli musulmani e nel (presunto) laico Assad. Infatti l’asse Egitto-Turchia che sembra ora prender corpo è (moderatamente) revisionista quanto ai rapporti tra Medio Oriente da un lato, Israele/Occidente dall’altro, ma non ha il minimo interesse ad assecondare l’ulteriore sviluppo delle sollevazioni popolari – ne sono prova il ritorno alla metodica azione di contrasto e di repressione degli scioperi in Egitto e Tunisia ad opera dei governi dei FM, e le misure anti-sciopero varate di recente nella Turchia di Erdogan.
Del fronte controrivoluzionario, inoltre, non fanno parte solo gli stati occidentali, bensì anche i loro rivali “orientali”, Cina e Russia in testa: la prima, operante soprattutto nel campo degli investimenti, intensificati d’urgenza, non a caso, in Egitto per aiutare il governo del Cairo a sedare le piazze; la seconda, molto attiva e ferma nel sostegno alla repressione del movimento popolare da parte di Assad&C.
Questo fronte è potente ma diviso al proprio interno da conflitti tra i poteri occidentali (tra loro in competizione) e i capitalismi orientali ascendenti, tra i diversi paesi arabi, tra le diverse ipotesi di alleanze concorrenziali che Egitto, Arabia saudita, Turchia e Iran stanno tessendo, tutti conflitti che non è facile sanare; è anche per questa ragione che la partita globale aperta dall’Intifada araba non si è certo chiusa a Tripoli con la formazione di un governo di affittati (che peraltro non riesce a stare in piedi), o al Cairo e a Tunisi con l’ascesa al potere di partiti borghesi “islamici”, né – tanto meno – si è chiusa la grande crisi capitalistica che l’ha innescata e continuerà ad alimentarla.

9) La controffensiva imperialista ha vinto con relativa facilità in Libia, perché la rivolta libica, per le sue caratteristiche sociali e politiche, è stata l’anello debole dell’intera Intifada.
La Libia è un paese a medio reddito, forte di una rendita petrolifera molto consistente, solcato da irrisolte tensioni territoriali, con un proletariato pressoché interamente di importazione ed emarginato dalla vita sociale e politica anche sotto Gheddafi (e in un paio di occasioni espulso in massa dal suo regime dalla mattina alla sera per rappresaglia contro i governi di Egitto e Tunisia). Questo ha inciso in profondità sulle eterogenee forze che si sono mobilitate contro Gheddafi: la componente giovanile (dei giovani disoccupati senza molte prospettive), le forze localiste e “tribali”, gli jihadisti, gli affittati all’Occidente. Questo tipo di composizione socio-politica e la repentina precipitazione militare dello scontro per effetto della guerra scatenata dalla NATO non hanno lasciato scampo portando a quello che abbiamo definito il disastro libico. La Libia oggi è, infatti, “senza Gheddafi, ma non oltre, più avanti di Gheddafi, e soprattutto del primo Gheddafi pienamente integrato nel primo tempo della rivoluzione araba”.
Di chi la responsabilità?
Della “maledetta primavera” araba, violentemente esecrata dallo stesso Gheddafi per avere spazzato via campioni del genere di Mubarak e Ben Ali? La prima responsabilità del fallimento della rivoluzione nazionale araba, quindi anche di quella libica, ricade per noi sulla nullità del proletariato delle metropoli in quanto classe rivoluzionaria. Purtroppo nulla si è mosso nei paesi occidentali contro l’aggressione alla Libia, che a nostro avviso è stata un’aggressione a tutto il popolo libico (non solo a quello rimasto fedele a Gheddafi) e a tutta l’Intifada. E gravissima al riguardo è la colpa di quanti da sinistra, e perfino dall’estrema sinistra, hanno sostenuto questa aggressione in nome delle aspirazioni alla libertà dei rivoltosi, con argomenti a volte schiettamente colonialisti, a volte “umanitari” (il risultato non cambia) – contribuendo così a spianare la strada all’offensiva imperialista.
Una seconda responsabilità va in capo alle direzioni nazionaliste arabe tutte (compresa quella gheddafiana), che hanno estromesso completamente dalla vita politica dei propri paesi le classi lavoratrici (fossero autoctone o d’importazione), a cominciare dalla classe operaia, ridotte per decenni alla passività, all’inattività politica e spesso anche sindacale, a una condizione di quasi-fantasmi. È stata proprio questa sistematica demolizione di ogni minimo embrione di organizzazione proletaria che ha paralizzato e azzerato politicamente (ciò vale in modo tutto particolare per la Siria) la sola ed unica forza sociale oggettivamente interessata a portare avanti, fino alle sue estreme conseguenze, il moto rivoluzionario anti-imperialista arabo, la sola ed unica forza sociale che può scagliarlo contro i gangster occidentali e le classi sfruttatrici arabe e collegarlo alla lotta del proletariato metropolitano. Il carattere così terribilmente faticoso dell’organizzazione politica autonoma della classe proletaria in tutti i paesi arabi si deve molto a questa sistematica, spietata attività reazionaria di tutte le direzioni nazionaliste arabe – nessuna esclusa. Chi si illude che regimi con un trascorso in qualche misura “anti-imperialista”, o semplicemente in attrito con Washington o Roma, possano farci da utile sponda o addirittura “lavorare per noi”, ha già dimenticato la funesta lezione del ruolo storico dei regimi del “socialismo reale”. Anch’essi, a stare al parere di molti, dovevano “lavorare per noi”, con il tenere in piedi, come che sia, un qualche riferimento al socialismo e un qualche elemento di resistenza all’avanzata verso Est dell’imperialismo a stelle e strisce: si è visto come è andata a finire, e quale spaventoso passivo essi abbiano accollato al movimento proletario di tutto il mondo.
E proprio alla completa estromissione delle classi lavoratrici arabe dalla vita politica dei propri paesi è dovuto anche il fatto che, salvo sparute eccezioni, la sollevazione araba nel suo insieme non ha saputo comprendere il reale significato dell’aggressione alla Libia, e non ha saputo reagire di conseguenza. Questo segnala un suo evidente limite, la sua arretratezza rispetto ai compiti imposti dallo scontro con i grandi poteri imperialisti: al di là di tutta la possibile disistima per Gheddafi (in specie quello dell’ultimo ventennio), al di là dell’estraneità dei proletari e dei diseredati arabi al progetto dei suoi eredi di trasformare la Libia nell’Abu Dhabi del Mediterraneo (un piccolo particolare su cui pudicamente certi “anti-imperialisti” tacciono). Nonostante ciò, come prova l’uccisione del console yankee a Bengasi e la distruzione dell’importante sede della CIA al termine di una dimostrazione di massa (nella stessa città della rivolta anti-Calderoli…), anche in Libia gli imperialisti non dormiranno sonni tranquilli. Anche in Libia la partita non è definitivamente chiusa.

10)Molti compagni assimilano Libia e Siria. E’ un’assimilazione abusiva.
A differenza della Libia, la Siria è un paese ancor più povero dell’Egitto, con un reddito medio pro-capite pari a meno della metà di quello libico. A differenza della Libia il cui proletariato è quasi tutto di importazione, la Siria ha un proletariato del tutto autoctono, in larga parte di riserva, essendo assai debole l’industria e particolarmente estese le attività “informali” e la disoccupazione. Data l’estesa povertà che la affligge, inoltre, la Siria esporta proletari in Libano e nel Golfo. Mentre in Libia è inesistente una tradizione politica riconducibile al proletariato, la Siria è stata uno dei primi paesi, nel mondo arabo, ad avere dei propri nuclei comunisti e un primo embrione di partito comunista già negli anni ’20 del Novecento, e dopo di allora mai vi è scomparso del tutto il riferimento organizzato al comunismo e al marxismo. Infine, in Siria il sentimento anti-imperialista e anti-sionista è decisamente più forte e radicato che in Libia. Altrettanto forte è la differenza tra Libia e Siria per quello che concerne le recenti rivolte: in Libia l’elemento proletario è stato pressoché assente nella sollevazione al contrario di quello che è accaduto in Siria, ed è una differenza per noi fondamentale.
La situazione siriana presenta una sua speciale complessità per la presenza di molteplici confessioni religiose e “gruppi etnici”, ma il fattore confessionale e quello “etnico” non sono, a nostro avviso, i fattori primari per comprendere gli avvenimenti. Fondamentali sono anzitutto la divisione in classi della società e gli antagonismi di classe, come dimostra il fatto che la rivolta ha avuto dall’inizio fino a pochi mesi fa un tratto unitario, né confessionale né “etnico”. Per questo, davanti ad essa ci si doveva chiedere primariamente, e ci siamo chiesti: quali classi e quali strati sociali si sono mossi, per quali cause e per quali obiettivi?
La risposta a cui siamo arrivati studiando gli avvenimenti e l’evoluzione economico-sociale siriana degli ultimi decenni (la data-chiave è l’ormai lontano 1986, anno della prima apertura alle politiche di smantellamento del “socialismo” baathista) è la seguente: “quella siriana è stata una rivolta spontanea, popolare e proletaria, nata sulla scia della più generale sollevazione araba, per iniziativa degli strati più poveri e schiacciati delle classi lavoratrici, dei proletari di riserva anzitutto, delle campagne e delle aree periferiche delle grandi città, con una forte partecipazione di giovani, un contributo significativo (non preponderante) degli intellettuali, nell’estraneità pressoché totale della borghesia di tutti i settori e le confessioni religiose, stretta finora in modo plebiscitario intorno al potere”.
Quali gli obiettivi della rivolta? Obiettivi politici “tipicamente democratico-borghesi” (nessuna mistificazione, perciò), ma anche obiettivi materiali che rispecchiano il suo carattere di rivolta “contro l’impoverimento” composta in maggioranza da masse proletarizzate ed emarginate, indotta, se non addirittura comandata da un decennio di radicali misure neo-liberiste e da anni di siccità. La sollevazione delle masse siriane non è quindi riconducibile esclusivamente alla rivendicazione di libertà formali, ma ha anche una sua precisa natura sociale, perché a parteciparvi sono state masse di sfruttati e di oppressi. Per sostenere che si tratta, invece, di una ‘rivolta per procura’, bisogna presentare fatti che smentiscano questa composizione sociale, e mostrino che l’iniziativa del moto anti-Assad è stata presa dalla borghesia siriana, o da quella sua parte desiderosa di imporre ulteriori passi avanti delle liberalizzazioni e nell’apertura del paese ai capitali globali. In assenza di una contro-analisi e di una contro-documentazione del genere – di cui nessuno ha fornito una seria traccia – non resta nient’altro che la versione di marca assadiana di una insorgenza fatta di piccoli gruppi di terroristi afghani, o comunque stranieri, di prezzolati infiltrati del tutto estranei alla società siriana – ma se davvero così fosse, come spiegarsi allora una sequenza di talora imponenti dimostrazioni di massa, che dal marzo 2011 è durata fino al giugno-luglio scorso? come spiegarsi che di esse non ci sia neppure un fotogramma, uno di numero, che ci mostri dimostranti o rivoltosi con le bandiere americane o europee? come spiegarsi che per cercare di domare la rivolta, Assad&C. debbano fare sempre più ricorso all’aviazione, che è il mezzo militare di ultima istanza, diffidando ormai dall’impiegare non solo l’esercito ma perfino la polizia?
Ci è stato obiettato: ammettiamo pure che a ribellarsi contro Assad ci siano anche settori di classe di nostro riferimento; come la mettete con la direzione della rivolta? La convinzione che molti compagni si sono fatti “ad occhio”, senza un minimo di indagine seria sugli avvenimenti, è che la direzione sia stata fin dall’inizio interamente affittata all’imperialismo. Non siamo d’accordo. Se si parla del CNS, la sua recente liquidazione a opera dei suoi stessi padrini è la prova regina del fatto che esso non ha mai rappresentato la rivolta popolare, non ne è mai stato realmente la direzione. A guidare la rivolta, almeno fin quando essa ha avuto come aspetto unico o largamente prevalente la mobilitazione di massa, sono stati i comitati locali e il loro coordinamento. Il dramma di questa sollevazione, però, che può diventare e sta diventando la sua tragedia, è che nonostante gli sforzi compiuti in questo senso, questi organismi locali non sono riusciti finora a darsi una direzione realmente unica, centralizzata, in grado di esprimere in modo coerente le sue aspirazioni iniziali contenute, sia pur in forma elementare, nella piattaforma dei giovani di Deraa. Le componenti proletarie della rivolta, inoltre, non sono finora riuscite ad avere nella direzione politica un peso corrispondente a quello avuto nelle mobilitazioni di strada. Per contro si sono via via rafforzate le spinte localistiche e confessionali, le spinte verso la precipitazione allo scontro armato, che è stata sollecitata, se non proprio imposta, dalla repressione statale; spinte sulle quali stanno giocando le loro carte, specie nell’area ai confini con la Turchia e ad Homs, le potenze imperialiste e i satrapi sauditi e qatariani.
Sull’uno e sull’altro aspetto è in atto da mesi nel fronte anti-Assad un duro scontro nel quale le forze che si battono coraggiosamente contro le ingerenze straniere, contro il confessionalismo, contro l’anarchia e le brutalità di quelli tra i gruppi armati più infeudati agli “amici della Siria” (che sono i massimi nemici dei lavoratori siriani) appaiono in crescenti difficoltà, se non già sconfitte. La nascita a Doha di un nuovo organismo che intende coordinare tutta l’opposizione ad Assad segna l’emarginazione, se non la debacle, degli elementi più affittati all’Occidente, ma – per quanto respinga, almeno a parole, ogni subordinazione a questa o quella potenza e si pronunci contro l’intervento bellico della NATO – non dà certo serie garanzie a riguardo.
La rivolta siriana, abbiamo scritto mesi fa, è stretta tra la repressione anti-popolare e anti-proletaria del regime di Assad (è permesso definirla così, dopo migliaia e migliaia di morti fatti nei quartieri popolari delle città e nei borghi poveri? e si può forse dar torto a un al-Zawahiri quando afferma che Assad è stato autorizzato dall’Occidente a schiacciare la rivolta?) e i piani di intromissione e disgregazione del paese dei gangster della NATO, che in oggettiva combutta tra loro la stanno per un verso azzannando alla gola e per l’altro smobilitando, disperdendo e spingendo ad imbarbarirsi. Contro di essa è all’opera una vera e propria alleanza reazionaria mondiale: è la stessa alleanza cementatasi contro l’Intifada araba nel suo insieme, e comprende tutti i grandi poteri del capitalismo globale – da Washington, dove è il comando in capo, fino a Mosca e Pechino, e la totalità dei regimi arabi vecchi e nuovi. E i lavoratori occidentali dove si collocano in questo scontro? e i comunisti? Se rimarremo a guardare, come sta avvenendo, sia per quel che concerne i piani occidentali che per l’operato di Assad, saremo complici di questa santa alleanza reazionaria.
La fragilità della direzione politica della rivolta e la determinazione dei suoi molteplici nemici rendono assai probabile la sua sconfitta, politica prima ancora che militare, senza però che il regime di Assad possa guadagnare altro che una vittoria di Pirro. Ma c’è sconfitta e sconfitta. Può esserci una sconfitta piena di dignità e sarà tale se la rivolta popolare siriana riuscirà a battersi, abbiamo scritto, anche contro le manovre degli imperialisti e delle satrapie arabe: “sia per disinnescare l’“anti-imperialismo” di facciata [di Assad], sia – soprattutto – per bloccare la penetrazione nemica [dell’Occidente] nel movimento, è indispensabile che la rivolta e i suoi organismi rafforzino al massimo la denuncia della coalizione degli ‘amici della Siria’ e rispondano colpo su colpo alle sue mosse. Non si può ‘rinviare’ questa azione di denuncia e di lotta al ‘dopo Assad’ per la semplice ragione che il modo in cui il regime cadrà, se cadrà, è determinante anche per ciò che seguirà alla sua caduta. L’opposizione frontale ed incondizionata alla manomissione della Siria, della sua ‘libertà’ e ‘dignità’, e alla manomissione della rivolta da parte degli ‘amici della Siria’ è fondamentale”.
La sempre maggiore probabilità di questa sconfitta non ci induce, però, a fare ai rivoltosi la seguente ramanzina da super-strateghi (da salotto): “Cosa vi siete sollevati a fare se sapevate di non poter reggere lo scontro ai livelli a cui sarebbe arrivato?”, perché equivarrebbe ad intimare a loro e a chi è nella loro insopportabile condizione di starsene buoni a cuccia finché la classe lavoratrice europea e occidentale non si sarà destata dal suo torpore, oppure finché non avranno la garanzia a priori di poter vincere. Come si chiamerebbe una simile intimazione se il loro bersaglio fossero i lavoratori italiani e occidentali, anziché quelli siriani e arabi?

11) Il disastro libico e l’insistente ingerenza imperialista in Siria hanno dato fiato a una visione complottista degli eventi arabi degli ultimi due anni, che finisce per identificare come unico (o principale) attore di essi l’imperialismo; una visione disfattista e puerile che rischia di dilagare pure in ambienti dell’estrema sinistra, se non altro come sfondo, detto e non detto.
A stare ad essa, l’Occidente, pur essendo indebolito dalla profonda crisi economico-politica del suo centro-guida, avrebbe conservato però la sovrumana capacità di muovere come burattini di legno le masse sfruttate di tutto il mondo, in specie quelle arabe ed “islamiche”, facendole incolonnare senza difficoltà dietro i suoi manutengoli di turno. A smentire una tale allucinata rappresentazione dei fatti basterebbero, se soltanto i suoi portatori avessero orecchie per intendere, il caso-Iraq – 3.000 miliardi di dollari spesi per avere oggi, dieci anni dopo una guerra devastante, un Iraq tutt’altro che sotto controllo yankee –, o il caso-Afghanistan, dove è sempre più palese la sconfitta militare e politica delle armate occidentali. In realtà, a partire dall’insurrezione iraniana del ’79, sono state proprio le masse sfruttate arabe e “islamiche” a dare più filo da torcere ai padroni del mondo. Come si fa a dimenticarlo di botto, anche da parte di quanti si abbandonarono al lirismo davanti all’attentato alle Torri Gemelle? Chi sa, misteri dell’umana fragilità…
Certi del carattere spontaneo dell’Intifada, alieni da questa pestifera arabo e islamofobia, noi abbiamo scritto invece, e lo ribadiamo, che “dagli insorti arabi abbiamo molto da imparare anche noi, proletari e comunisti d’Europa, che in due decenni non siamo stati in grado di buttar giù dalle piazze né Berlusconi, né Sarkozy, né Blair, e neppure di sfidarli in campo aperto, in battaglie minimamente paragonabili a quelle avvenute sull’altra riva del Mediterraneo”. E siamo convinti che gli eventi in corso e quelli a venire confermeranno questa nostra chiave di lettura.

12) Molti compagni ritengono che le sollevazioni arabe siano state opera delle forze islamiste o che abbiano finito per favorire le forze islamiste, creando così una situazione più arretrata di prima dell’Intifada araba: a nostro avviso, si sbagliano.
Anzitutto: l’Intifada araba del 2011-2012 non è nata per impulso delle formazioni islamiste, né si è espansa sotto il loro segno. A iniziare dall’Egitto esse sono state trascinate nella lotta, hanno inseguito il movimento di massa, senza mai rappresentarne la punta di lancia, bensì quasi sempre la componente più pronta a scendere a compromesso con i regimi militari e autocratici bersaglio della lotta e, ora, con il FMI, gli Stati Uniti e l’UE. Del resto l’islamismo politico in tutte le sue tendenze non prevede l’iniziativa delle masse sfruttate come il fattore decisivo delle trasformazioni sociali e politiche, e tanto meno prevede e impulsa rivoluzioni sociali. Uno dei pilastri della concezione dei rapporti sociali propria dell’islam e dell’islamismo politico contemporaneo (in genere) è che i rapporti sociali capitalistici oggi esistenti non debbano essere cambiati in profondità, tanto meno sovvertiti, ma debbano solo essere mitigati nei loro effetti più aspri. E debbano e possano esserlo attraverso riforme dall’alto, attuate da governi orientati secondo la sharia, da sapienti ferrati nelle tradizioni, da benestanti ben disposti verso i nullatenenti, da piccoli nuclei guerriglieri pronti al martirio per servire la “umma”, secondo le varie sfaccettature di un modello di azione politica improntato di regola all’elitismo. Per l’islamismo politico è assurdo pensare che i “poveri” o gli “ignoranti” possano prendere in mano il proprio destino e addirittura governare la società: la auto-attivizzazione delle masse lavoratrici per la propria emancipazione è un pensiero, una prospettiva che gli è estranea. Le componenti legittimiste più integraliste nei confronti dei poteri costituiti, ad esempio i salafiti, arrivano fin a sostenere che sono “meglio cento anni di tirannia che un giorno di anarchia”. Tutto, insomma, ma non le piazze piene di masse ribollenti. Et pour cause!, dal momento che più le piazze arabe si riempiono di sfruttati devoti all’islam tesi a conquistare da sé e per sé una diversa condizione di esistenza, più la potenza di Allah, dialetticamente, deperisce, e con essa quella dei suoi interpreti e rappresentanti.
Il paradosso storico vuole, però, che da decenni – poiché sono i conflitti sociali a dominare le religioni e ad esprimersi attraverso di esse, non viceversa – l’islamismo politico sia stato investito dalle attese di grandi masse di oppressi e sfruttati e abbia dovuto porsi il compito della loro organizzazione. Questo paradosso si spiega con il collasso del nazionalismo arabo e della prospettiva pan-araba, con la catastrofe delle formazioni del movimento operaio di matrice stalinista, con gli effetti socialmente dirompenti della ri-colonizzazione e delle politiche neo-liberiste, con l’inesauribile offensiva militare e diplomatica scatenata negli ultimi trenta anni da Washington e dalle capitali europee associate contro i paesi che, in una maniera o nell’altra, hanno opposto resistenza alla dominazione imperialista. E’ un paradosso che resiste anche alle prove, non certo brillantissime finora, dei partiti e dei governi islamisti, che non possono comunque sottrarsi alla verifica pratica della loro capacità di avere nell’islam la “soluzione” dei problemi lasciati irrisolti dal nazionalismo arabo. Se per i lavoratori è davvero l’esperienza diretta la scuola decisiva, se la crisi capitalistica che ha innescato le sollevazioni non cesserà di mordere le loro carni, allora le prove del fuoco si avvicinano anche per le formazioni islamiste, che non hanno certo cambiato la loro ideologia e la loro natura sociale borghese per il fatto di essere state trascinate di forza nell’agone politico.
Prendiamo il centrale caso egiziano. Lì abbiamo la dimostrazione lampante che gli sfruttati (di fede islamica), per affermare le proprie necessità, hanno dovuto prescindere totalmente dagli input ricevuti dalle componenti islamiste di maggior peso nella società, i Fratelli musulmani e i salafiti. Il potere che questi raggruppamenti hanno conseguito, al momento, nella società egiziana si deve non alla loro azione politica o al loro programma politico, ma alla rendita di posizione conseguita grazie al combinato disposto della loro azione assistenziale, della loro influenza culturale e della repressione di cui sono stati oggetto sotto Mubarak. Se leggiamo con attenzione gli stessi risultati elettorali e, soprattutto, se osserviamo le dinamiche socio-politiche in atto, risulta evidente che essi non hanno ricevuto una delega incondizionata: il loro operato è, infatti, costantemente monitorato e tenuto sotto controllo dalla mobilitazione popolare e dagli scioperi operai che continuano in tutti i settori. Nei pochi mesi del governo Morsy ci sono state più di 900 azioni di lotta dei lavoratori, dalle fabbriche tessili di Mahalla al-Kubra, Tanta, El-Nasr, Kafr el Dawar fino ai cementifici, dai lavoratori delle città industriali del canale di Suez fino a quelli della metro del Cairo, dagli elettrici agli edili ai lavoratori della Ceramics Cleopatra, e così via. Appena insediato, il presidente espresso dai FM ricevette dagli operai di Mahalla il seguente messaggio: “Gli operai hanno sofferto per molti decenni la marginalità, la povertà, l’umiliazione. Per cui gli operai debbono essere ora la prima preoccupazione del presidente, perché ciò che importa ai lavoratori è raggiungere gli obiettivi della rivoluzione: libertà e giustizia sociale. Vogliamo ricordare al presidente che sono stati gli operai a buttar giù il regime dell’oppressione”. E passati i primi 100 giorni della presidenza Morsy, i sindacati indipendenti gli hanno contestato di avere tradito gli impegni presi con “la rivoluzione”; la stessa cosa hanno fatto i giovani dimostranti scesi in campo per ricordare l’eccidio della Mohamed Mahmoud Street del novembre 2011 e l’impunità dei carnefici, mentre piazza Tahrir e le piazze sorelle di Alessandria, Mansura, Assuan, Tanta, Mahalla, Port Said, Suez, Assiut, Qena, Luxor, tornavano a riempirsi di centinaia di migliaia di manifestanti contro la concentrazione di poteri nelle mani del “nuovo faraone”.
Non ci rappresentiamo, con ciò, una facile liquidazione della presa delle formazioni islamiste sulle classi lavoratrici perché sappiamo bene che nel mondo arabo l’influenza dell’islam è ancora forte nell’organizzazione della vita delle famiglie, nei rapporti tra i sessi, nella vita sociale, e questa influenza può essere giocata, è giocata, in senso schiettamente reazionario. Nonostante tutto, le formazioni politiche islamiste sono le meglio organizzate e le più radicate, mentre è assai debole, per contro, l’influenza di una prospettiva coerentemente rivoluzionaria e l’organizzazione delle forze del proletariato è in uno stadio soltanto iniziale. Sappiamo anche come, dopo il fallimento del nazionalismo laico e del socialismo di matrice stalinista, l’islam appaia tuttora a masse di oppressi arabi l’unica “soluzione” che sia per davvero alternativa all’Occidente imperante e ai suoi disprezzati valori. Rileviamo solo come i nuovi governanti islamisti, appena insediati, sono già stretti tra le pressioni dei poteri imperialisti che li hanno accettati come il male minore (e pretenderebbero di farne dei nuovi Mubarak e Ben Ali) e quelle degli sfruttati che a tutto sembrano disposti fuorché a sopportare una riedizione dei vecchi regimi. Non sarà agevole, per loro, far quadrare il cerchio. No, l’egemonia islamista sui lavoratori arabi non è scritta nel destino una volta e per sempre, se il loro moto continuerà, e se i lavoratori dei paesi occidentali entreranno in moto e non si lasceranno avvelenare dalla propaganda di stato che raffigura i loro fratelli di classe arabi come inguaribilmente ammalati di fanatismo religioso e retrogradi.
Per quello che ci riguarda, contro i primi passi della “guerra infinita” ai popoli di Iraq e Afghanistan sostenemmo la necessità di dare un sostegno incondizionato alla resistenza di questi popoli in guerra con l’imperialismo quand’anche si muovessero sotto le insegne islamiste (che non sono certo le nostre). In piena coerenza sosteniamo oggi la necessità di dare una solidarietà altrettanto incondizionata agli sfruttati arabi che stanno battendosi contro i propri governi e contro l’imperialismo a cui, dal più al meno, questi governi sono tutti subordinati, e riteniamo che solo attraverso questo sostegno militante potremo dare un piccolo contributo alla organizzazione e all’autonomia politica del proletariato e a quelle tendenze che nel mondo arabo, all’interno dei movimenti di lotta, si muovono in questa direzione. E’ il caso di tenere a mente che se la classe dei salariati vuole aprirsi la strada a quella nuova formazione sociale che dal 1848 si è posta come suo traguardo, di polvere e di merda da scrollarsi di dosso ne ha parecchia a tutte le latitudini e le longitudini, e non certo solo o principalmente nel mondo arabo.

13)Quali sono, dunque, le prospettive dell’Intifada araba?
Per chi, cieco, la considera già morta, essa, la “maledetta primavera” va solo sepolta tra gli scongiuri e i malinconici sospiri per il bel tempo che fu. Per noi, invece, è un processo vivo e in evoluzione, che – benché isolato al momento – continua, con enormi sforzi, a cercare di andare avanti, anzitutto nel suo epicentro egiziano-tunisino, mentre apre nuovi fronti sia in Palestina che in Giordania, con la vera e propria rinascita del movimento dei lavoratori e accese proteste di piazza ad Amman contro il monarca. Non passano giorni tranquilli neppure i regnanti del Bahrein e del Kuweit, scosso quest’ultimo dalle più grandi dimostrazioni di massa della sua storia (sia pur per la mera rivendicazione di una monarchia costituzionale).
Per il mondo arabo, e in particolare per i lavoratori arabi, gli avvenimenti del 2011-2012 segnano, abbiamo scritto, la fine dell’era dell’umiliazione e un nuovo inizio. Le borghesie arabe, che non ne sono state certo le protagoniste, tentano di capitalizzarli per sé inaugurando una fase di più attiva contrattazione al rialzo con le potenze occidentali e Israele, pensando di poter utilizzare i loro nuovi margini di manovra (ancora tutti da consolidare) anche per tacitare con poche briciole le proprie classi lavoratrici. Ma queste non si sono sollevate per avere un’elemosina e continuare ad essere bastonate a sangue. Sono altre le loro aspettative. E questo conflitto di fondo rende possibili e necessari ulteriori sviluppi ancora più profondamente destabilizzanti per gli assetti del capitalismo globale alle prese da anni con una crisi che va acuendosi nel centro del sistema capitalistico e ha fatto ritornare in Europa, dopo decenni di “compromesso sociale” più o meno conflittuale, una aperta guerra di classe.
Il cammino per il completo riscatto e la completa liberazione dei lavoratori arabi riaperto dalla Intifada sarà inevitabilmente lungo e quanto mai arduo, poiché dovrà affrontare in campo aperto non solo i propri regimi, ma l’intero capitale globale. Siamo convinti, però, e l’abbiamo scritto, che il processo avviato dall’Intifada contenga in sé grandi potenzialità rivoluzionarie e potrà esprimerle attraverso la scomposizione del movimento popolare così come si è dato finora e la costituzione di un fronte unico degli sfruttati e degli oppressi del tutto autonomo da ogni influenza borghese. Potrà esprimerle se le classi lavoratrici, a cominciare dal proletariato, non si faranno “prendere al laccio delle democrazie di facciata in costruzione o in programmazione sotto sorveglianza degli eserciti e delle potenze imperialiste”; se i lavoratori e i diseredati arabi non si lasceranno dividere e contrapporre per linee confessionali; se sapranno dare espressione “al bisogno di una vera democrazia per i lavoratori, di una democrazia sovietica quale può esserlo solo una effettiva democrazia dei consigli dei lavoratori in armi”; se il proletariato arabo “saprà dotarsi di un proprio partito di classe e di propri organismi sindacali”, e saprà battersi per una “comune organizzazione politica della lotta su scala regionale”; se abbandonerà “ogni forma di indifferenza nei confronti dell’infame sorte riservata nei paesi del Golfo, nella Libia del dopo-Gheddafi, in Giordania e altrove, ai lavoratori immigrati dall’Asia e dall’Africa, per sostenere le loro rivolte e le loro ribellioni”; se saprà rispondere in modo adeguato alla controffensiva imperialista in atto appellandosi all’aiuto e alla solidarietà, che per ora disgraziatamente stanno a zero, dei proletari delle metropoli. Senza dubbio questo cammino “richiederà uno sforzo titanico, visto lo stato del movimento proletario alla scala mondiale, ma è ineludibile”.
L’alternativa cui ci troviamo di fronte oggi è tra l’ulteriore sviluppo e la radicalizzazione in senso più nettamente proletario e rivoluzionario del movimento popolare alla scala dell’intera regione e il ritorno in forze della controrivoluzione. Se all’oggi l’Intifada ha conseguito i suoi primi successi, anche la controffensiva imperialista può vantare i suoi e minaccia di estendere alla Siria la sua guerra permanente ai popoli e ai lavoratori arabi nell’indifferenza quasi totale dei lavoratori occidentali. Lo scontro è aperto ed è evidente, per noi, che l’avanzamento della lotta nei paesi arabi dipenderà sia dagli sviluppi interni alla regione sia dalla capacità dei lavoratori nei paesi imperialisti di opporsi ai crescenti attacchi alle proprie condizioni di lavoro e di vita, ma anche alla politica estera dei propri governi. Il miglior contributo che si possa dare “da qui” alla prosecuzione della Intifada araba è la riaccensione del conflitto di classe nel cuore dell’Europa, così come le sollevazioni arabe sono state e sono il miglior contributo possibile alla riaccensione del conflitto di classe “qui”.
E del resto la forza e la voce dei proletari arabi, udita nelle piazze animate di Grecia e Spagna capaci di ascoltare piazza Tahrir, è arrivata perfino in questa sonnolenta Italia con le rivolte degli emigranti tunisini nei campi di Lampedusa e Mesagne, e con le lotte degli operai egiziani e maghrebini a Basiano e Piacenza (senza, naturalmente, che certi super-internazionalisti se ne accorgessero). Ma il riferimento alle piazze egiziane non può rimanere solo come esempio. È fondamentale che alla lotta contro gli effetti della crisi si unisca una denuncia a 360 gradi del capitale e dei governi occidentali. La controffensiva imperialistica va denunciata attivamente da cima a fondo, avendo come primo bersaglio il nemico che è in “casa nostra”, l’imperialismo italiano, il governo Monti e la sua politica estera. Un tema “stranamente” cancellato anche dalla recente iniziativa del 27 ottobre del Comitato No Debito (evidentemente i suoi promotori hanno in mente un governo che non potrebbe fare politiche gran che diverse da quelle di Monti&C….). Proprio per andare in questa direzione i redattori de Il cuneo rosso hanno dato vita ad alcune tra le pochissime iniziative pubbliche di denuncia delle aggressioni imperialiste ai popoli della Libia, della Siria e dell’Iran tenutesi in Italia, e sono pronti a cooperare a nuove iniziative che vadano in questo stesso senso.
La sollevazione delle masse del mondo arabo, e la risposta di parte capitalistica a essa, ci dicono che il destino dei lavoratori del Nord e del Sud del mondo non è legato solo dalla spirale di competizione al ribasso in cui ci ha spinto il capitalismo mondializzato; è legato anche e soprattutto dall’enorme potenzialità di lotta, di antagonismo, di una classe lavoratrice sempre più mondializzata. L’Intifada araba non è stata altro che “il canto del gallo” di una nuova era di “acutissimi contrasti di classe alla scala mondiale che ripropongono, con ancora più urgenza, l’alternativa tra socialismo e barbarie”. L’entusiasmo con cui l’abbiamo salutata nel nostro opuscolo e la fiducia con cui guardiamo ai suoi sviluppi futuri nasce dalla certezza che stiamo entrando in una nuova era di sconvolgimenti rivoluzionari alla scala mondiale. La nostra rivista, la nostra attività si inquadrano per intero dentro questa prospettiva.

Marghera, 29 novembre 2012

La redazione de “Il cuneo rosso”

com.internazionalista@gmail.com

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