Il nuovo picco nella campagna anticorruzione in Cina è sintomo delle difficoltà economiche e sociali

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La campagna anticorruzione scatenata da Xi Jinping in Cina non accenna ad attenuarsi; è più ampia, incisiva e capillare delle analoghe campagne condotte da Jan Zemin e Hu Jintao per rafforzare la propria posizione e riaffermare la preminenza di Pechino sul resto della Cina; secondo WSJ è la più estesa dai tempi di Mao; nel 2013 sono stati condannati 182 mila funzionari a tutti i livelli di governo e in tutte le regioni (erano stati 160 mila nel 2012 e 120 mila nel 2011); ha riguardato ministeri e aziende di stato, alti ufficiali dell’esercito e membri del Politburo: La campagna è iniziata in modo non ufficiale col processo a Bo Xilai (marzo 2012). La fase recente inizia con l’annuncio il 29 luglio di una inchiesta a carico di Zhou Yongkang, 72 anni, ex membro del Politburo, un uomo fra i più potenti, da ultimo a capo del servizio di sicurezza e in precedenza segretario di Partito nel Sichuan, provincia industriale importante e granaio del paese, con accentuate tendenze autonomistiche. Prima ancora era stato a capo della China National Petroleum Corp. Era noto il suo potere ma anche il fatto di essere il maggior ostacolo alle riforme volute da Xi, oltre che il suo maggiore oppositore, assieme a Bo Xilai e alla sua vasta rete di influenza e clientele. Zhou è sotto investigazione per le enormi ricchezze accumulate, per la ricchezza del suo clan familiare che possiede 37 società per un totale di 90 milioni di yuan. I loro interessi vanno dal petrolio all’edilizia, alla gestione di hotel di lusso, clubs privati e ristoranti.

I commenti sulla stampa
Secondo John Minnich, su Stratfor 5 agosto 2014, la campagna di Xi va al di là di un bisogno personale di consolidare il proprio potere, è un tentativo di ristrutturare il Partito in modo che sia in grado di guidare il paese attraverso le crisi e le trasformazioni a cui non può sfuggire.
Secondo il China Morning Post la campagna anticorruzione serve a sgominare gli oppositori, consolidare l’esecutivo, ridurre i costi della burocrazia, ma anche acquisire consenso presso le masse che odiano i profittatori di stato. I giornali in Cina riportano con soddisfazione che nei primi 6 mesi del 2014 le vendite del cognac Cointreau sono calate del 30%, che lo sfarzo di matrimoni e funerali è stato notevolmente moderato. Però in gennaio sono stati arrestati a Pechino gli attivisti di un gruppo anticorruzione che chiedevano la pubblicazione dei redditi dei funzionari statali. Il messaggio è che la correzione degli abusi appartiene solo al Partito. Sono stati repressi anche giornalisti che hanno osato investigare sui parenti di Xi.

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Russell Leigh Moses su FT 4 agosto osserva che in modo del tutto inusuale molti governi locali cinesi hanno aperto siti internet cui è possibile denunciare comportamenti negativi dei funzionari. Molti cinesi hanno scritto che più che punire i funzionari bisogna ridurne il numero, ridurre la presenza dello stato nell’economia, ma anche ridurre il peso di Pechino sul resto del paese.

Per Cheng Li e Ryan McElveen della Brookings Institution (17 luglio 14) la differenza sta nel fatto che per la prima volta nella storia cinese le indagini riguardano anche gli alti papaveri dell’esercito, come Xu Caihou, vicepresidente della Commissione Centrale Militare, accusato di aver venduto le promozioni. E’ evidente lo sforzo di restaurare fra i cinesi il rispetto per l’istituzione Partito. Fra i condannati del 2013 ci sono 32 ex ministri e 5 ex membri del Comitato Centrale. Esaminando le osservazioni che circolano sulla stampa cinese, secondo alcuni la campagna ha semplicemente diffuso l’immobilismo fra di i funzionari, che cercano di non prendere decisioni, abbassano la testa intanto che passa la piena. ma nel complesso la campagna ha ricevuto buona accoglienza. Si è notato che i quattro nomi più illustri fra i condannati (Bo Xilai, Liu Zhijun, Xu Caihou and Zhou Yongkang) appartengono tutti alla fazione di Jiang Zemin. Qualcun altro ha sostenuto che colpire la corruzione riduce i consumi e quindi aggrava la crisi: in realtà gli unici a piangere sono i gestori dei ristoranti di lusso e chi vende auto straniere e alcolici di marca. Invece molti cittadini sottolineano che i funzionari hanno migliorato la loro efficienza e l’economia ne trae vantaggio. Gli investitori esteri sperano invece in riforme fondamentali come la registrazione delle proprietà, una legge sul conflitto di interesse, l’indipendenza dei giudici per i reati amministrativi.
Francesco Sisci su Asia Times 5 agosto sottolinea che mentre molti funzionari sono semplicemente corrotti (e cita Chen Xitong segretario del PCC di Pechino, Chen Liangyu segretario del PCC di Shanghai, Bo Xilai segretario del PCC di Chongqing), Zhou Yongkang è accusato di crimini politici, cioè protezione di interessi privati contro l’interesse dello stato e ostacoli posti alle riforme, costituzione di una corrente politica per sostenere questi obiettivi. In ogni caso che Xi abbia potuto sferrare un attacco a un grosso calibro come Zhou Yongkang dimostra che all’interno del PCC gode di un grosso consenso. Questa forza gli ha permesso di siglare un difficile compromesso col Vietnam, di contrattare qualche apertura politica a Hong Kong. Ma da parte di Xi significa anche la fine della politica dei piccoli passi operata dai predecessori per non turbare il bilanciamento di poteri fra correnti dentro il PCC.
Joseph Santolan su WSWS del 30 luglio osserva che Zhou Yongkang e in generale i politici vicino a Jiang Zemin avevano posizioni di potere negli anni ’90 nella China’s State Owned Enterprises (SOE) e protessero le aziende che dirigevano dalla prima ondata di privatizzazioni; cosi fece strenuamente Zhou Yongkang per la Chinese National Petroleum Corporation (CNPC). Per WSWS questa azione è meritoria perché antiliberista e contraria agli interessi della finanza internazionale che vuole mettere le mani sui settori strategici ancora controllati dallo stato cinese, una posizione veterostalinista che ha ancora molti sostenitori anche nella sinistra italiana. Wikileaks ha pubblicato un memo di Hillary Clinton per cui nulla si muoveva nel petrolio se Zhou non voleva (2009),
Xi Jimping ha sicuramente in programma nuove privatizzazione e certamente il processo a Zhou è un deterrente per chi si vuole opporre. Già Sinopec ha aperto l’azionariato delle proprie stazioni di servizio a investitori stranieri; PetroChina quoterà in Borsa le sue pipeline. WSWS vede dietro i processi in Cina la longa manus degli Usa; tuttavia riconosce che Zhou e famiglia erano corrotti dal momento che la loro fortuna è stata valutata 14,5 miliardi di $.

Il significato delle campagne anticorruzione
Come gli scandali da noi, le campagne anticorruzione sono principalmente strumenti delle lotte di frazione all’interno di quel mega contenitore che è il PCC, la cui facciata ufficiale è quella di una gestione collegiale di ledersi che si presentano come tecnocrati abbastanza grigi e riservati. Xi si discosta appena dal modello perché ha una moglie che è una cantante famosa. Spesso le campagne servono a ridimensionare la fitta rete di connessioni familiari, clientelari, politiche e di affari intrecciate dai predecessori. Nel caso di Xi invece pare di poter individuare 4 obiettivi:
a) liberalizzazione del settore petrolifero e delle grandi aziende di stato del settore
b) riforma dell’esercito
c) messa sotto controllo del settore finanziario in particolare di Shanghai
d) riforma dei servizi di sicurezza in particolare nelle aree periferiche come il Xinjiang.
Quindi lo scopo di Xi andrebbe al di là della normale lotta di potere fra leader, né sarebbe una semplice operazione di propaganda, ma avrebbe lo scopo (questa è l’opinione di Stratfor) di modificare il funzionamento del PCC, ma anche le fondamenta della sua legittimazione, passare cioè da una legittimazione “storica” (la lunga marcia ecc.) a una legittimazione più vicina al modello occidentale.

Questa necessità è legata ai pesanti cambiamenti strutturali in corso, che si collocano in una situazione mondiale di crisi, che rende sempre più difficile garantire se non a tutti a un buon numero di cinesi un costante miglioramento economico rispetto al passato. Aumentano in modo visibile le lotte sociali e il malcontento dei cinesi. E la nuova dirigenza ne deve tener conto.

La Cina sta passando da un modello di crescita tutta basata sul basso costo del lavoro, export a basso valore aggiunto, investimenti centralizzati dallo stato a un modello in cui prevalgono industrie ad alto valore aggiunto, servizi e incremento del consumo interno. E’ un percorso che tutti i paesi sviluppati hanno affrontato a un certo punto della loro storia, ma nessuno aveva le dimensioni della Cina, per tutti il processo è durato 40-50 anni, la Cina ne ha a disposizione al massimo 20, subisce forze centrifughe pesantissime a causa dei fortissimi squilibri regionali, economici, sociali
È frenata da una struttura politica rigida e fortemente centralizzata.
La crisi del 2007-08 ha chiuso prematuramente il ciclo di boom tutto basato sull’export; negli ultimi sei anni l’economia cinese è stata sostenuta da una politica di ampio credito e di stimolo, con investimento diretto da parte dello Stato, che ha affidato la funzione di traino a trasporti ed edilizia, provocando un livello di indebitamento del tutto eccezionale (251% del PIL nel 2013; era il 147% nel 2008), l’indebitamento degli enti locali raggiunge i 3 mila miliardi di $. Questa esposizione assai rischiosa ha da un lato permesso centinaia di casi di malversazione ma ha svolto un ruolo essenziale nel impedire il crollo economico.
Adesso tuttavia la Cina deve confrontarsi con il crollo nella domanda di credito da parte delle industrie private, nonostante l’abbondanza di credito.
In parte ciò è l’effetto dei maggiori controlli introdotti sui crediti; una scelta inevitabile perché

Le banche sono oberate da crediti inesigibili; di solito sono crediti a imprese di stato e a costruzioni faraoniche in particolare nel settore dell’energia e delle infrastrutture. I manager di stato hanno sempre preferito, per creare consenso, gli investimenti che producevano posti di lavoro. La Cina è afflitta da megaimpianti, che poi restano costantemente sottoutilizzati, in parte perché non tutti hanno una adeguata fornitura di elettricità, in parte perché sovradimensionati rispetto alle possibilità di sbocco dei prodotti. Anche gli amministratori locali protestano perché si trovano oberati da debiti per decenni, a causa di investimenti decisi dall’alto. Il campione di questo tipo di investimenti è stato proprio Jang Zemin e il suo entourage, i cui membri non a caso ora sono colpiti dalla campagna anticorruzione.

Si intravede anche la fine della bolla speculativa nelle costruzioni, con il crollo delle vendite delle case (-18% in luglio 2014 sul luglio 2013). Quindi né i megaimpianti né l’edilizia potranno più essere il volano dello sviluppo cinese. Ci sono anche segni di difficoltà per l’export.

Molti dirigenti nazionali ritengono che si debba passare a una politica di ampliamento dei consumi delle famiglie e del mercato interno.
Per ora il consumo delle famiglie è molto basso: pari nel 2013 al 34% del PIL contro il 69% degli Usa, il 61% del Giappone, il 57% della Germania e il 52% del Sud Corea. E’ possibile, dato il peso dell’economia in nero, che i consumi delle famiglie siano sottostimati, ma comunque non sono alti abbastanza per controbilanciare il calo dell’export. Un aspetto fondamentale è legato al relativamente basso tasso di urbanizzazione a confronto con i paesi a capitalismo maturo.
Anche questo tasso forse è sottostimato a causa dell’immigrazione illegale dalle campagne.
Comunque sia fra le preoccupazioni del governo c’è anche la possibilità che leader come gli sconfitti Bo Xilai e Zhou Yongkang, favorevoli all’industria di stato possano mobilitare fasce di lavoratori a cui comunque queste imprese garantiscono un livello di welfare (scuola per i figli, assistenza sanitaria, case ad affitto bloccato) che gli operai delle fabbriche private si sognano.
Se Xi vuole procedere a nuove privatizzazioni deve spezzare a monte queste resistenze che caratterizzavano il cosiddetto “Modello Chongqing” (la provincia di Bo Xilai) che enfatizzava i timori del cinese medio davanti alla scomparsa di garanzie e servizi oggi scomparsi.
Le privatizzazioni dovrebbero consentire il rientro di una parte del debito.
La campagna anticorruzione deve creare consenso intorno alla sua politica. E non è semplice.
Le inchieste di molti centri studi, primo fra tutti lo statunitense Pew Research Center, rivelano che il cinese medio è in modo crescente turbato dalla ineguaglianza e dalla corruzione e lega alla rapida crescita economica il crescente gap fra ricchi e poveri, l’aumento dei prezzi, l’inquinamento e la perdita dei valori tradizionali cinesi. Il 50% dei cinesi intervistati ritiene la corruzione il principale problema della società cinese; l’81% ritiene che i ricchi diventeranno più ricchi e i poveri sempre più poveri. Il 57% dichiara che il loro livello di vita è peggiorato, mentre il 71% desidera proteggere lo stile di vita dall’influenza straniera. E’ aumentato per tutti l’ansia e lo stress legato alla vita moderna, lo spaesamento rispetto a cambiamenti considerati troppo repentini.

Ma è legittimo chiedersi: esiste il cinese “medio”?

Negli ultimi dieci anni la Cina è passata da paese relativamente ugualitario a paese del mondo che ha più miliardari, fatta eccezione per gli Usa. A fronte di 1,4 milioni di “milionari” ci sono 150 milioni di poveri con meno di un $ al giorno di reddito.

Secondo una inchiesta un po’ datata della Banca centrale cinese il coefficiente di Gini in Cina è passato da 0,412 nel 2000 a 0,61 nel 2010 (= un indice 0 sarebbe l’eguaglianza perfetta, un indice 1 il massimo di disuguaglianza); probabilmente l’indice in questi quattro anni è ulteriormente peggiorato. Per fare un confronto il Giappone ha attualmente un coefficiente Gini di 0,2, la Francia 0,289. Il rischio di tensioni sociali significative è in agguato se non ci sarà una migliore redistribuzione del PIL nazionale a favore dei salariati urbani ma anche rurali. Le statistiche ufficiali (sempre sottoposte a censura) ammettono che negli ultimi 4 anni ci sono stati almeno 360 mila casi di proteste di massa o veri e propri tumulti. Gli scioperi di massa in particolare sono in crescita.

La massa della classe operaia cinese è costituita secondo stime della BM da circa 400 milioni di individui (stima per difetto visto che i 100 milioni di cinesi immigrati clandestinamente nelle città di solito non vanno a viverci da nababbi). Benché le statistiche sugli scioperi ufficiali non siano attendibili comunque l’Istituto statistico cinese ha conteggiato almeno i conflitti di lavoro che si sono risolti in un accordo: e questi sarebbero passati da 50 mila nel 1997 a 700 mila nel 2008. La tendenza esponenziale è evidente al di là dell’attendibilità delle cifre. Ancora più interessante il fatto che gli scioperi fra il 2008-12 sono quasi sempre organizzati dagli operai stessi, durano di più, scoppiano indifferentemente nelle industrie di stato e nelle imprese private, sia che si tratti di operai regolarmente residenti o immigrati clandestini, tutti uniformemente chiedono migliori condizioni di lavoro, migliori salari e rispetto per la loro dignità sul posto di lavoro (The Changing Nature of Labor Unrest in China – Cornell University 2012). Infine il China Digital Times del 18 agosto 14 ci informa che cresce il numero degli scioperi che chiedono di superare il minimo salariale.
Mentre rimane inalterata la pressione sul mercato del lavoro a causa delle ondate di giovani che ogni anno aumentano la forza lavoro (anche se il ciclo del baby boom va ad esaurirsi), i salari tendono a crescere in forza delle lotte operaie. Quindi il governo cinese non può più contare con certezza sulla compressione dei salari come ricetta di successo e può aspettarsi una certa resistenza ai licenziamenti.

Secondo Stratfor altri problemi sono in agguato, come il pesantissimo problema dell’inquinamento; la Cina per la prima volta dalla nascita della repubblica popolare deve fare i conti con strati di giovani analfabeti o con troppo basso livello di istruzione, perché lo stato non garantisce più la scuola per tutti. Tra gli incubi potenziali c’è anche una eventuale improvvisa crescita nel prezzo del petrolio (ad es. in conseguenza della crisi in Ucraina o in Iraq); oppure problemi politici o di sicurezza sugli stretti come Malacca, vitali per commercio cinese.

Se il governo mostrasse l’incapacità a rispondere su uno o più di questi problemi, l’ambivalente atteggiamento del cittadino medio verso il governo virerebbe al negativo e forse la campagna anticorruzione dovrebbe avere una nuova impennata.

Angela Marinoni