Il primo problema del presidente Abu Mazen è il suo premier Abu Ala-E.Ottolenghi

ABU MAZEN cerca la tregua coi gruppi terroristi palestinesi, ma non il loro disarmo. Una strada che può non fermare il terrorismo e minare il futuro stato palestinese.
Le cancellerie occidentali accolgono con ottimismo la vittoria di ABU MAZEN alle elezioni presidenziali dell’ANP.
Ora i suoi problemi sono coi rapporti coi gruppi terroristici palestinesi: la sua strategia (cooptarli nell’ANP senza disarmarli), se riuscisse, gli permetterebbe di evitare uno scontro interno ai palestinesi, ma manterrebbe gruppi armati che potrebbero usare la violenza non solo contro ISRAELE, ma anche per scontri tra palestinesi.
ABU MAZEN è favorevole al dialogo perché pensa che solo la guerra impedisca a ISRAELE di collassate sotto i contrasti interni: egli non riconosce a ISRAELE il diritto all’esistenza, ma cerca la strada migliore per la sua distruzione.
Washington. La vittoria elettorale di Mahmoud Abbas, detto Abu Mazen – eletto domenica alla guida dell’Autorità nazionale palestinese con il 62 per cento dei voti su una percentuale di elettori peraltro inferiore alle aspettative – è stata accolta con ottimismo, se non entusiasmo, dalle cancellerie europee e dall’opinione pubblica occidentale. Il presidente americano George W. Bush ha già espresso il desiderio di ospitare Abbas alla Casa Bianca. E anche se la posizione israeliana è di cauta attesa, in generale regna l’ottimismo: Mahmoud Abbas è visto come un leader moderato, perché sin dall’inizio dell’Intifada è stato contrario alla violenza, e pragmatico, perché ritenuto in grado di negoziare un accordo realistico con Israele. Da lui ci si aspettano riforme interne e un radicale cambio di direzione nei rapporti bilaterali con Israele, a partire da un drastico calo del terrorismo, un rinnovamento della cooperazione di sicurezza, e con tutta probabilità un coordinamento con il nuovo governo Sharon-Peres sul piano di disimpegno israeliano da Gaza.
Per Abbas, la prima sfida sarà consolidare il suo potere all’interno della società palestinese. La sua vittoria, abbastanza pulita, almeno per gli standard del mondo arabo, lo rafforza, grazie a una robusta partecipazione al voto e a un risultato non oltre le aspettative dello sfidante più serio, Mustafa Barghouti, il più probabile beneficiario dei voti di Hamas. Tuttavia, esistono altri contendenti importanti al potere nello scenario post Arafat con cui Abbas dovrà fare i conti, primo tra tutti il primo ministro Abu Ala. A urne appena chiuse si parla già di contrasti tra i due sulla scelta del responsabile per la sicurezza nel futuro governo.
Lo scontro che già si era avuto tra Abu Mazen e Arafat ora potrebbe ripetersi sul ruolo da assegnare a Nasser Yussef e Mohammed Dahlan nella compagine governativa. Rimane anche un possibile contrasto istituzionale tra i due leader, dato che Abu Ala occupa oggi la posizione di primo ministro che fu creata dal Consiglio legislativo palestinese nella primavera di due anni fa per limitare i poteri del presidente dell’Anp. La figura di premier, nata per arginare lo strapotere di Arafat, adesso potrebbe essere utilizzata per contrastare Abu Mazen e ostacolarne l’ascesa al potere. I due hanno finora collaborato, ma Abu Mazen sa come la corruzione generale ed estesa della dissestata struttura pubblica palestinese debba essere riformata per offrire un governo più trasparente e meno corrotto, mentre Abu Ala di quel sistema è forse il rappresentante più noto.
La fine dell’Intifada e il ritorno al dialogo con Israele rimangono comunque i due test cruciali per il neoeletto rais. Ci sono ragioni per un cauto ottimismo su entrambi i fronti: durante la campagna elettorale, Abbas, pur ricorrendo spesso a una retorica militante e intransigente, ha anche esortato i gruppi palestinesi ad abbandonare la lotta armata e a ritornare al processo politico. Ha sostenuto la necessità di trattare con Israele, pur non cedendo su nessuno dei nodi centrali del negoziato, in particolar modo sulla questione dei rifugiati. Abu Mazen si oppone all’uso della violenza. La sua elezione offre ora la possibilità di una svolta.
Una strategia molto pericolosa
Ci sono però importanti zone d’ombra che inducono alla cautela. Abbas ha chiarito come non sia sua intenzione smantellare le organizzazioni terroristiche, a Gaza così come in Cisgiordania. Nessuno mette in dubbio la sua limitata capacità d’azione nel breve periodo, ma la linea politica da lui annunciata sembra non limitarsi al periodo d’inevitabile consolidamento del potere che lo attende. Abu Mazen vuole convincere, attraverso i buoni uffici egiziani, tutte le fazioni palestinesi a raggiungere una tregua, lasciandone però intatto il potenziale militare e quindi il potere politico. La tregua otterrebbe certamente l’effetto immediato di una fine degli attacchi contro obiettivi israeliani e permetterebbe al neoeletto rais di promuovere le altre due cruciali parti della road map che gli competono: riforme democratiche e trasparenti del settore pubblico e ristrutturazione dei servizi di sicurezza. Una volta ottenuta la tregua e avviate le riforme, Abbas può sperare nel sostegno occidentale per operare pressioni su Israele affinché faccia a sua volta concessioni e gesti distensivi, oltre ad adempiere agli impegni che derivano dalla road map. Questa strategia offre due vantaggi. Prima di tutto evita una potenziale guerra civile palestinese, poi sposta l’attenzione e la pressione diplomatica su Israele. Pur essendo necessario che Israele attui una serie di gesti distensivi nei confronti del neoeletto leader palestinese, in modo da rafforzarne la legittimità agli occhi del suo pubblico, la tregua palestinese non può in alcun modo sostituire l’impegno di smantellare la struttura terroristica. Chi sostiene la necessità di cooptare i gruppi armati palestinesi, Hamas in testa, nel processo politico, come alternativa allo smantellamento della loro struttura militare, sottovaluta il rischio che una forza del genere, autonoma, dipendente da un partito politico e non soggetta all’autorità dello Stato può comportare per la sopravvivenza della democrazia e dello Stato stesso. Yasser Arafat, nell’autunno del 2000, decise di utilizzare i gruppi terroristici come arma di pressione su Israele. Oggi Abbas si confronta con le conseguenze di quella decisione. La sua disponibilità ad aprire politicamente a tutti i gruppi armati, in cambio di una tregua che non sia accompagnata dal loro disarmo, mette il futuro Stato palestinese e la sua leadership democraticamente eletta alla loro mercè. Anche se questi venissero immessi nel processo politico, la loro indipendenza e autonomia, garantite dalla forza militare, potranno in qualsiasi momento dettare condizioni, imporre limiti e sfidare l’autorità di Abu Mazen. La possibilità di poter ricorrere alla violenza per influenzare il processo di pace rende imperativo lo smantellamento della struttura terroristica senza indugi, ma Abbas farà di tutto per evitarlo, per non rischiare una lotta intestina. Tuttavia sarebbe nel suo interesse: la violenza, per ora usata principalmente contro Israele, potrebbe essere utilizzata, come fu il caso del Libano, per garantire potere alle fazioni interne.
L’opposizione di Abu Mazen alla violenza lo rende moderato agli occhi di molti e il suo ruolo politico come principale negoziatore degli accordi di Oslo ne rafforza l’immagine di politico dedito alla ricerca della pace negoziata con Israele. La macchia più grossa sul suo curriculum è indubbiamente il suo dottorato, in cui Abu Mazen sostiene che l’Olocausto nazista sia stato grossolanamente esagerato (secondo Abbas gli ebrei morti sarebbero “soltanto” un milione), e che esso fosse comunque un complo
tto sionista-nazista orchestrato a danno degli arabi. Abu Mazen non ne ha mai sconfessato i contenuti, riconfermandoli anzi dopo la firma di Oslo nel 1993. Ciò che colpisce è che l’Abu Mazen-pensiero sia oggi ignorato e omesso in nome di riforme e moderazione.
Il suo dialogo con le forze progressiste e pacifiste della sinistra israeliana sin dagli anni Ottanta ha infuso in lui una visione che ben si riconcilia con la strategia a fasi dell’Olp, adottata sin dal 1974: la liberazione di una parte della Palestina, anche per via diplomatica, non rappresenta la fine della rivoluzione palestinese, ma la prima fase. La sua preferenza per la trattativa diplomatica non deriva da un sincero riconoscimento del diritto dello Stato ebraico a esistere in pace nella regione, bensì dalla sua convinzione che la società israeliana sia caratterizzata da profonde divisioni, che soltanto la minaccia esistenziale del conflitto arabo-israeliano hanno reso gestibili. La guerra, secondo Abu Mazen, lungi dall’indebolire Israele, lo ha rafforzato. Ma la pace, se raggiunta, non farebbe altro che aprire il vaso di Pandora delle divisioni interne che, prive del collante del conflitto, porterebbero gradualmente alla disintegrazione d’Israele. Gli arabi hanno dunque sbagliato a cercare di distruggere Israele: lasciati a se stessi – ha scritto e dichiarato più volte Abu Mazen – gli israeliani si autodistruggeranno. La fiducia dell’inevitabilità storica del collasso interno del sionismo – un’originale applicazione delle teorie marxiste al fenomeno Israele – ha reso Abbas più pragmatico di altri e gli ha permesso di favorire la diplomazia e di giocare un ruolo centrale nel processo di Oslo. Sulla sostanza di un possibile accordo, Abu Mazen ha un limite: l’ombra di Arafat. Risulta difficile che un leader la cui posizione di potere è ancora fragile e poco consolidata possa fare concessioni maggiori dell’accordo che l’ex rais aveva comunque deciso di rifiutare. In particolare sul tema dei rifugiati, sembra impossibile che Abu Mazen ceda laddove Arafat rimase intransigente.
L’elezione di domenica dunque offre qualche apertura all’ottimismo, ma richiede anche cautela nel giudicare i prossimi passi senza troppe illusioni o speranze: sembra più realistico aspettarsi in futuro una serie di intese parziali piuttosto che un accordo completo di pace che metta fine al conflitto.

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