Il risultato non voluto della crisi irachena

Iraq - esecuzione ISIS

Per l’ennesima volta si combatte in Iraq e le cancellerie occidentali sono in tensione, non per i morti o i profughi, ma perché il conflitto è pericolosamente vicino alle raffinerie di Irbil e Baiji e rischia di mettere in discussione i rifornimenti, le concessioni di sfruttamento, gli accordi siglati. Anche se l’Iraq ha minore importanza rispetto al passato come produttore e anche se i pozzi più importanti si trovano a sud, c’è già stato un primo effetto di rialzo dei prezzi, sia pure modesto (Stratfor 17 giugno).

L’ISIS, il nuovo gruppo islamico sunnita, che sta cercando di creare una zona di controllo a cavallo del confine Siria/Iraq (l’ipotetico stato di “Syraq” citato da Al Jazeera 17 giugno), il 10 giugno ha marciato su Mossul, seconda città dell’Iraq, e disarmato l’esercito iracheno. L’11 giugno i combattenti dell’ISIS hanno attaccato Baiji, circondando la più importante raffineria irachena, e conquistato Tikrit, patria dell’ex presidente Saddam Hussein. Non sono riusciti, invece, a prendere Samara, difesa da milizie sciite per la presenza di luoghi sacri allo sciismo. Ma a Sud l’ISIS controlla parzialmente anche Ramadi e Falluja, che si trova a ovest di Bagdad

Almeno 500 mila civili sono stati costretti ad abbandonare le loro case, i morti accertati sono 1700.

Prendendo spunto dall’avanzata dell’ISIS i Peshmerga curdi della regione autonoma dell’Iraq del nord, 150 mila uomini ben addestrati, disciplinati e ben equipaggiati, hanno occupato preventivamente Kirkuk per difenderne i pozzi di petrolio: l’avanzata dell’ISIS ha fornito loro su un piatto d’argento la giustificazione per realizzare un’aspirazione decennale (Figaro 13 giugno). E’ dubbio che i Curdi intendano restituire il controllo della città ad al-Maliki, tanto più che da tempo l’esercito regolare iracheno non ha più un ruolo a nord e l’ordine è garantito dalla forza di polizia curda e turkmena. I Peshmerga si sono dislocati anche a nord est di Mossul e nella provincia di Diyala a nord est di Bagdad. Ma certo l’allargamento dell’area retta dal Kurdistan Regional Government non può che impensierire oltre che Bagdad anche la Turchia che pure, in barba a Bagdad, ha firmato accordi commerciali col KRG per l’acquisto di milioni di barili di petrolio. La Turchia potrebbe rafforzare la sua presenza militare nell’area del KRG (forte ora di 2000 uomini) col pretesto di difenderla dai jihaidisti, tanto più che molti turchi fra cui il console generale sono stati catturati a Mossul, (M K Bhadrakumar su Asia Times 16 giugno).
Anche l’Iran ha rafforzato la sua presenza militare nella provincia irachena di Diyala, integrando la presenza curda (Le Figarò 12 giugno).

All’impotenza del governo al Maliki, il cui esercito, addestrato e armato dagli Usa (con una spesa di 14 miliardi di $ nell’ultimo decennio), non ha opposto alcuna resistenza a un nemico numericamente inferiore, ha corrisposto un appello alle armi da parte del gran Ayatollah al Sistani (da Serbala) e di Ammar al-Hakim, leader del Islamic Supreme Council of Iraq, entrambi in nome della difesa della patria contro il terrorismo. Sono nate una serie di milizie sciite pronte alla ripresa della guerra settaria. Anche le principali sigle sindacali, tutte filo governative, hanno chiamato alla guerra santa.
Moqtada al-Sadr, che nel febbraio 2014 si era ritirato ufficialmente l’attività politica, era andato a vivere in Iran e aveva sciolto l’Armata del Mahdi, potrebbe prendere in considerazione il ritorno alla politica attiva.

Tutto questo potrebbe accelerare la disintegrazione dell’Iraq come stato unitario; quando nel 1991 Bush padre rinunciò ad abbattere Saddam Hussein aveva ben chiaro che la conseguenza di una invasione sarebbe stata la spaccatura del paese su base etnico-religiose e la conseguente destabilizzazione dell’intero Medio Oriente (Wall Street Journal 12 marzo 1991). La scelta di invadere l’Iraq da parte di Bush figlio non ha solo prodotto il milione di morti iracheni (e un numero imprecisato di profughi e invalidi), ma ha anche portato alla situazione attuale. Nel 2012 in Iraq sono morte 3200 persone per attentati e scontri fra bande, nel 2013 8.800, nei primi 5 mesi del 2014, prima dell’offensiva dell’ISIS, altre 3 mila persone; un paese, l’Iraq, secondo l’autoesiliatosi Moqtada al Sadr, “messo in ginocchio dalla corruzione, …governato da lupi assetati di sangue, strumenti nelle mani di Usa e Iran. … Gente che vuole dividere questo paese su linee settarie o religiose”. Benché sciita Moqtada al Sadr è sempre stato un nazionalista coerente, sostenitore dell’unità del paese.

Tuttavia è ancora presto, secondo Ibrahim Al-Marashi su Al Jazeera 16 giugno, per dichiarare defunto lo stato iracheno, anche se storicamente è esistita una omogenea comunità sunnita, nota come Al-Jazira, che andava da Aleppo (oggi in Siria) e Mossul (oggi in Iraq) spezzata dalle potenze occidentali alla fine della prima guerra mondiale con l’accordo Sykes-Picot. L’affinità etnica o religiosa non garantisce tuttavia la sussistenza di uno stato come l’ipotetico Syraq. I Curdi autonomi del nord esistono perché protetti dalla no-fly zone americana.
Un rischio non ipotetico è invece il riaccendersi a Bagdad di scontri fra quartieri data la presenza di un 30% di sunniti, come durante la guerra civile del 2006-2007 (Figaro 17 giugno).

Al di là della sua per ora non valutabile forza militare l’ISIS può contare sulla simpatia della comunità sunnita irachena, marginalizzata dal governo al Maliki, che non solo si è rivelato autoritario e corrotto, ma ha condotto una sistematica opera di demolizione delle politiche di conciliazione con le minoranze. Le file dell’ISIS si sono ingrossate grazie agli sbandati dell’ex esercito di Saddam, molti dei quali hanno partecipato al Movimento del Risveglio Sunnita del 2005 e hanno comunque addestramento e tradizione militare (Rachel Shabi su Al Jazeera 15 giugno). Secondo molti al Maliki ha volutamente esacerbato i contrasti coi sunniti prima delle politiche di aprile 2014 per presentarsi come l’uomo forte necessario e ottenere così un terzo mandato, ma evidentemente ha mal calcolato gli effetti a lunga scadenza. Ufficialmente l’ISIS si finanzia coi proventi del contrabbando di petrolio, con la svendita dei manufatti archeologici su cui mette le mani, con i rapimenti di ricchi sciiti e con il pizzo imposto ai commercianti. La recente presa di Mossul ha fruttato ai ribelli 425 milioni di dollari sottratti alla filiale della banca centrale e una montagna di armi abbandonate dall’esercito e a suo tempo fornite dagli Usa (“soldi buttati al vento” commenta impietosamente il NYT del 12 giugno, sottolineando che i ribelli si sono presi anche un elicottero di ultima generazione).
E’ per ora difficile definire con certezza gli sponsor internazionali. Vijay Prashad su Asia Times (17 giugno) parla di donazioni private di sceicchi del Golfo. Si sa che l’ex vicepresidente iracheno Tariq al-Hashimi, sunnita, ora in esilio in Turchia ha definito l’ISIS “una nuova primavera araba”, ma la Turchia ha respinto con sdegno “l’insinuazione” di essere lo sponsor dell’ISIS. Vali NasVali Nasr, che scrive per molti think thank statunitensi punta il dito su Arabia Saudita e Qatar, o in alternativa su singoli gruppi di interesse dei due paesi (famiglie legate alle due case reali), ma forse “per conto degli Usa” o “di gruppi politici Usa” (vedi anche Repubblica 7 giugno), mentre le accuse di al Maliki al governo saudita sono state esplicite e dirette (International Business Times 18 giugno). Le Figaro accusa ecumenicamente “Sauditi, Qatar, Usa e la Francia di Hollande” di aver finanziato l’ISIS (EIIL in francese) “a fondo perduto illudendosi di poterli manovrare per i loro fini”. Stratfor infine si limita a citare un misterioso incontro del 3 giugno a Sochi fra Putin, Lavrov e il saudita Ministro degli esteri Saud al Faisal sulla Siria, sull’Iraq e sul prezzo del petrolio. In contemporanea, secondo Le Figaro a Vienna si sarebbe svolto un incontro segreto Iran-Usa (nelle persone di Mohammad Javad Zarif e William Burns) su Iraq e Siria.

A due anni e mezzo dal loro ritiro dall’inferno iracheno, la minaccia dell’ISIS ha colto di sorpresa il governo Usa; l’ipotesi di un nuovo intervento militare Usa è stata in precedenza esclusa da Obama, che si è limitato all’invio di 275 uomini a difesa delle ambasciata a Bagdad e una portaerei nel Golfo il 15 giugno. Ma è bagarre nelle alte sfere: i repubblicani, chiedono bombardamenti a tappeto nelle aree occupate, in Gran Bretagna questa è invece la richiesta di Tony Blair e seguaci (Al Jazeera 15 giugno). Il NYT del 12 giugno attacca in modo feroce la “strategia dei Cheney and Rumsfelt” che moltiplicando errori su errori hanno incoraggiato il settarismo di Al Maliki e lo smantellamento dell’esercito bhaatista rendendo per sempre instabile l’Iraq e l’intera area; il caos è oggi in aumento per la guerra civile in Siria. Il consiglio del NYT è di portare avanti una politica di conciliazione in entrambi i paesi.

L’Iran ha offerto, nel quadro dei colloqui di riappacificazione, collaborazione agli Usa per sconfiggere l’ISIS; il Pentagono ha subito escluso una collaborazione militare (Ramzy Baroud su Asia Times 18 giugno), ma potrebbe esserci una convergenza di interessi politici per salvaguardare l’esistenza dell’Iraq e dei suoi confini; tutti gli attori in campo peraltro si rendono conto che questo implicherebbe una riconsiderazione dei ruoli nel conflitto siriano, la necessità di avviare un governo di pacificazione, non solo riassorbendo nel quadro politico i sunniti, ma anche ponendo fine al contrasto fra Curdi e Al Maliki sulla gestione delle risorse petrolifere di Mossul e Kirkuk. E in ogni caso dare un maggior ruolo all’Iran sicuramente non è nei progetti delle monarchie del Golfo e neanche della Turchia.

Come nel caso della Libia, anche in Iraq, un paese che siede sopra una ricchezza energetica incalcolabile, a causa da un lato delle scelte di rapaci imperialismi, dall’altro a causa di una borghesia locale altrettanto rapace e settaria, la popolazione è condannata a vivere nella miseria e nella violenza. Nato per un accordo fra ladroni franco-inglesi nel 1916, con confini che sfidavano qualsiasi logica “nazionale”, è stato mandato inglese, poi monarchia fino al 1958, guidato per lo più da leader militari saliti al potere con colpi di stato. Dal 1968 è stato tenuto insieme dalla violenta dittatura di Saddam Hussein che lo ha trascinato, su spinta degli Usa, fra il 1980 e il 1988 in un sanguinoso conflitto con l’Iran. Nel ’90 l’invasione incauta del Kuwait ha provocato l’attacco della coalizione internazionale e poi l’embargo e l’isolamento che ne hanno strangolato l’economia. L’invasione di Usa e alleati nel 2003 ha completato il disastro.
Nel capitalismo avere delle risorse come il petrolio può condannare alla povertà e alla miseria. Gli astuti strateghi dell’imperialismo d’altronde a conclusione di una guerra giustificata con pretesti assolutamente falsi, dopo aver seminato morte e distruzione, si trovano minacciati nei loro profitti dai conflitti che hanno provocato.