Imperialismo italiano, fazioni libiche e assi internazionali

Libia

Da circa quattro anni le fazioni armate della Libia si scontrano. I servizi segreti italiani ne hanno censiti 200; al di là della connotazione tribale, ideologica o religiosa cuore del conflitto tra tribù e brigate è nell’accaparrarsi il patrimonio miliardario di Gheddafi e il business di petrolio e gas; per finanziarsi cercano di prendere il controllo di un pozzo petrolifero e di vendere più o meno legalmente il petrolio, oppure hanno coltivato come attività economica lo sfruttamento dei profughi, sottoposti ad estorsioni e arresti arbitrari.

In questo contesto l’imperialismo italiano ha espresso un’ambizione, parzialmente rientrata, di intervenire. Rispetto al 2011, la Francia è ancora nettamente favorevole a un intervento, gli Usa auspicano “una soluzione diplomatica”, gli attori regionali presenti nel 2011, Turchia, Sauditi, Emirati, Qatar tendono a confrontarsi sul terreno attraverso i gruppi libici in armi che a loro fanno riferimento. Secondo Bashir al Kubti, un leader dei Fratelli Mussulmani, intervistato dal quotidiano al-Quds al Arabi, per ogni libico, neonati compresi, ci sono 2,5 armi circolanti nel paese, “Non esiste casa in cui non ci sia una pistola o un fucile. In strada si trova qualsiasi tipo di arma”.
La novità è la scesa in campo prepotente dell’Egitto di Al Sisi, il possibile intervento di Tunisia e Algeria e la Russia a fianco dell’Egitto.

Le fazioni libiche
Secondo Bashir al Kubti, un leader dei Fratelli Mussulmani, intervistato dal quotidiano al-Quds al Arabi, per ogni libico, neonati compresi, ci sono 2, 5 armi circolanti nel paese, ”Non esiste casa in cui non ci sia una pistola o un fucile. In strada si trova qualsiasi tipo di arma”.
Dall’agosto dell’anno scorso il premier al Thani (eletto il 25 giugno durante una elezione che ha visto la partecipazione al voto del 18% degli aventi diritto), ha abbandonato Tripoli, che è stata conquistata da “Alba Libica” (Libya Dawn, in arabo Faijr Libia), una diramazione della Fratellanza Mussulmana, proveniente da Misurata. Il nuovo governo “islamico” di Tripoli, guidato da Omar al Hassi è stato riconosciuto solo dalla Turchia, nell’ottobre 2014, in polemica con le monarchie del Golfo, e era copertamente appoggiato dal Qatar. Il recente spostamento diplomatico del Qatar, che si è allineato ad Egitto e Sauditi lascerebbe a fianco di Tripoli solo la Turchia, che ha ripreso i voli per Misurata, per condizionare la frazione di Alba libica ancora forte in quella città.

Il governo di Abdullah al Thani, riconosciuto come legittimo dall’Occidente, si è installato a Tobruk, all’estremo est del paese; questo governo è sotto la tutela del generale Khalifa Haftar, che ha lanciato una “Operazione Dignità” contro gli islamici dell’ovest (Tripoli e Misurata).
In Tripolitania Haftar può contare sul sostegno delle milizie di Zintan, una tribù insediata nel Jabal al-Nafusa, a sud di Tripoli, affine per legami tribali e storici all’emiro Mohammed bin Zayed, monarca degli Emirati Arabi Uniti ( UAE) e da mesi in lotta con Misurata. In questo modo l’appoggio degli emirati si è esteso ad Haftar. Zintan esprime due diverse milizie al-Qaaqaa e al Sawaaq
Haftar in più può contare sull’esplicito sostegno di Egitto, Emirati e Arabia Saudita, ansiosi di vedere cancellate le ultime vestigia della Fratellanza Mussulmana; il supporto logistico egiziano ha significato la fornitura di elicotteri e jet militari.

La comparsa dell’ISIS
Questa contrapposizione Tripoli-Misurata – Tobruk ha messo in ombra la la contraddizione Tripoli/Bengasi ereditata storicamente e riemersa con la rivolta del 2011. Dopo la caduta di Gheddafi, le città dell’est (Benghazi, Jalu, Darnah e Tobruk) hanno continuato a sentirsi sacrificate da Tripoli e a chiedere maggiore federalismo e autonomia; nel settembre 2013 la Cirenaica ha eletto un proprio governo di 20 membri non riconosciuto da Tripoli, con Abdrabbo al-Barassi come premier. Le richieste di questo governo ombra erano di avere anche a Benghazi la sede della National Oil Corporation (NOC), della Libyan Airlines e della Libyan Insurance Company. Ma intanto la Cirenaica è diventata sempre più povera e si sono moltiplicati i gruppi di protesta.
Cavalcando la delusione delle città della Cirenaica, l’ISIS si è insediata nel 2014 a Derna, che negli anni ’90 era il terminal dei mujaheddin reduci dalle guerre in Afghanistan e in Iraq, introducendovi
esercito islamico, tribunale islamico, polizia islamica, tivù islamica, scuole islamiche, amministrazioni islamiche, assorbendo la Brigata Rafallah al Sahati e l’Esercito dei mujahedin.
In seguito si è collegata ad Ansar al Sharia, prima affiliata ad al-Qaeda, che ha sempre avuto il controllo di Bengazi, dove ha guidato nel 2012 l’attacco terroristico in cui rimase ucciso l’ambasciatore Usa Chris Stevens. Anche Ansar al Sharia era nel mirino ddel generale Haftar.
Col recente sbarco a Sirte (13 febbraio), l’ISIS dispone di tre teste di ponte in territorio libico. Ma nel frattempo ha ottenuto l’adesione dei jihadisti del Sinai di Ansar al Bayt Maqdis e corteggia chi defeziona da “Alba della Libia”. Molti combattenti di Tripoli e Misurata sono attirati, più che dal messaggio politico, dai soldi del Califfato e dalle promesse di un buon stipendio (si parla di 7-800 dollari al mese), di poter accedere al bottino di guerra e di una buona sistemazione a fine conflitto.

Molti commentatori politici sottolineano che in Libia l’ISIS può con relativa facilità procurarsi armi, mettere le mani sui pozzi abbandonati o sorvegliati da guardie mal pagate; dalla Libia può lanciare, in primo luogo, l’attacco ai Paesi limitrofi come Tunisia, Algeria e Marocco. A suo vantaggio gioca il caos politico a cui può contrapporre una forma di organizzazione del territorio e di ordine; possono allearsi via via con i piccoli gruppi delle varie città-stato, che si sono indeboliti in lotte fratricide. In Libia l’ISIS non trova a contrastarlo né un esercito efficiente come quello siriano, ma nemmeno un gruppo con un forte senso di appartenenza come i curdi; nelle milizie in armi non c’è senso dello stato o di un’appartenenza nazionale ma solo una appartenenza tribale. In cambio l’Isis può offrire una copertura islamica a un programma di rapina.
I commando dell’Isis per ora sono composti da algerini, siriani, tunisini ed egiziani, ma in tutti gruppi armati combattono mercenari provenienti dal Mali, dall’Iraq, dall’Afghanistan e dalla Siria.
Il calcolo di estendere la sua influenza su Misurata e Tripoli si basa sul relativo isolamento di Alba di Libia che la espone a una più o meno lenta erosione. Nei territori controllati l’Isis sembra in grado di imporre una qualche forma di organizzazione statale e di servizi.
Tutte queste informazioni ovviamente non sono di prima mano. Tanto che vengono messe in discussione dal commentatori anche autorevoli e da fonti libiche. Ad esempio le milizie di Misurata hanno dichiarato di aver ripreso con facilità Sirte il 19 febbraio. Caracciolo (Limes) sostiene che la minaccia ISIS è ingigantita ad arte, che si tratta di quattro scalzacani senza arte né parte.

Petrolio, gas e gli attori regionali
Sempre che si tratti di notizie attendibili, l’ISIS avrebbe subito iniziato gli attacchi agli oleodotti, ad es. a El Bahi, nei pressi del terminal costiero di Ras Lanuf, e a el Dahra, nel Sud Ovest; il 4 febbraio appoggiandosi a Ansar al Sharia, l’Isis avrebbe attaccato un altro pozzo controllato dai francesi della Total, ad al Mabrouk, a circa 170 km a Sud di Sirte facendo almeno 10 morti e prendendo ostaggi. La Total ha smentito.

La partita dei pozzi sottende tutti gli avvenimenti libici che riguardano le fazioni in lotta, ma anche chi li finanzia.

Fino ad un certo punto la rivalità fra Tripoli e Tobruk è stata ben vista dalle monarchie del Golfo: si trattava della neutralizzazione della Libia, un concorrente nella fornitura di gas e petrolio. Qatar e ed Emirati hanno ingaggiato una guerra per procura in Libia e addirittura in agosto 2014 gli Emirati hanno bombardato col supporto logistico dell’Egitto di al-Sisi Misurata e Tripoli. Lo scopo era di colpire le milizie di Alba Libica ree di aver scalzato le milizie di Zintan dall’aeroporto di Tripoli e poi dalla città e di aver insediato il governo islamico di cui sopra.
Molti commentatori sostengono anche che l’Isis sia eterodiretta e, in particolare ancora ospitata, sostenuta e foraggiata dalla Turchia. Cioè dallo stesso sponsor straniero di “Alba Libica”.
La saldatura fra i due movimenti isolerebbe Tobruk e farebbe dilagare la “minaccia islamica” alle frontiere con Tunisia e Algeria.
Quindi se nella guerra del 2011 gli “attori regionali” sembravano più o meno al rimorchio dell’imperialismo francese e statunitense, oggi agiscono indipendentemente e in prima persona.
E si sono moltiplicati. Tunisia e Egitto furono le vittime dell’esodo biblico dei lavoratori stranieri cacciati dopo la caduta di Gheddafi, centinaia di migliaia di profughi. Oggi l’Egitto bombarda le aree di frontiera con La Libia, oltre a Derna e Sirte, fa l’elenco dei guerriglieri uccisi e parla di diritto alla vendetta. Osserva acidamente un giornalista di Al Jazeera che anche per l’Egitto “l’Isis è una minaccia ma anche una opportunità”, perché legittima l’intervento armato egiziano e gli Egiziani hanno buone probabilità di ottenere un benevolo assenso dalla cosiddetta Comunità internazionale.
L’Algeria ha dispiegato 50 mila effettivi sulla frontiera e con la Libia e con il Niger; inolte il suo Stato maggiore ha firmato un accordo operativo con gli omologhi tunisini per una azione comune di intelligence sulle frontiere e per la caccia al terrorista anche oltre la frontiera, grazie a un corpo speciale composto da 6 mila tunisini e 8 mila algerini).

Secondo Paolo Scaroni ex ad di Eni, assai prima dell’intervento italiano, peraltro da lui giudicato tardivo, o dell’Onu, ritenuto improbabile, ad intervenire saranno Egitto Tunisia e Algeria, interessati ad evitare in ogni modo il “contagio islanìmico”. L’Algeria in particolare ha già subito l’attacco e ha dato i natali a uno dei terroristi plutiricercati del Nord Africa, cioè Mokhtar Belmokhtar, la mente dell’attacco all’impianto di In Amenas in Algeria, che guida il gruppo El-Muwaqiin Bi Dam (Coloro che Firmano con il Sangue).

L’Italia e gli interessi “nazionali” in Libia
I generali italiani interpellati su un possibile intervento hanno subito sostenuto che i 5 mila uomini della Pinotti sono del tutto inadeguati, ne servirebbero almeno 100 mila. Ma soprattutto il problema dell’Italia è intervenire avendo scelto chiaramente un partner locale affidabile.
E non è facile, per i variegati interessi italiani presenti. Ad esempio Benghazi e Misurata, oggi su sponde opposte, erano fino a pochi anni fa centri economici di grande importanza, dove sono presenti strati di borghesia commerciale e finanziaria, che avevano legami profondi con l’imperialismo italiano.
A Tripoli d’altronde ci sono i rimasugli delle strutture del capitalismo di stato libico e a Tobruk l’unica struttura militare che sembra in grado di svolgere un ruolo unificante. Per quanto il parallelo con la Somalia sembri adeguato, la Libia non è la Somalia.
L’Eni ha potuto erogare rifornimenti di petrolio e gas con una certa regolarità almeno fino a ottobre del 2014. Fermi invece tutti gli appalti per opere pubbliche, come quella aggiudicatasi da Salini-Impegilo, nel 2013 (come da accordi del 2009), una maxi commessa dell’autostrada costiera (400 chilometri per una forza lavoro di 2 mila persone e un valore di 963 milioni di euro). Del tutto bloccata l’attività della Sme Task Force, 82 imprese italiane del Nord-Est), consorziatesi nel 2012 per operare nel mercato libico. Ma la Camera italo-libica di Tripoli è rimasta aperta nonostante tutto.
Nell’aprile 2014 si è comunque tenuta la Fiera di Tripoli, a cui hanno partecipato 650 società, molte italiane; 55 imprese italiane hanno partecipato in maggio alla Fiera dell’edilizia sempre a Tripoli.
La Lega, che aveva espresso le maggiori perplessità di fronte al conflitto del 2011, anche se poi Maroni, ministro degli Esteri, aveva scelto la partecipazione come male minore, oggi sui suoi giornali chiede a gran voce una reazione “forte” al caos libico, nell’interesse di queste imprese italiane. E combina nella sua attiva propaganda l’obiettivo di riaprire per l’Italia un mercato nel cortile di casa e l’obiettivo di bloccare gli immigrati e i profughi in Libia.

Tripoli è strategica anche per ENI, che fino a pochi giorni fa ha gestito il complesso di Mellitah, stretto fra le katibe (milizie) di Zintan e quelle berbere di Zuara, dove confluisce sia il gas prodotto nel pozzo desertico di Wafa, 520 chilometri più a sud al confine tra Tunisia, Libia ed Algeria, sia il gas, estratto dal pozzo off shore di Bahr Essalam situato davanti alle coste di Tripoli. Quel gas soddisfa per oltre il 12 per cento il nostro fabbisogno energetico, riscalda le nostre case e rappresenta, per l’Italia, un interesse strategico. Non a caso l’Eni ha investito nel 2004 oltre 7 miliardi di euro in Greenstream, il serpentone di tubi sottomarini che parte da qui e approda, 520 chilometri dopo, a Gela in Sicilia. L’impianto di Wafa è stato chiuso il 5 febbraio, come anche Bahr Essalam. Il personale tecnico italiani è stato rimpatriato, mentre il personale libico viene lasciato al suo destino. Bloccando Mellitah mezza Libia resterà al buio.
A seguito del danneggiamento dell’impianto di liquefazione di Marsa- al-Brega, il gasdotto Greenstream che collega Mellitah a Gela è rimasto l’unico canale di fornitura in funzione, sebbene a intermittenza, rendendo l’Italia il solo destinatario del gas libico
La maggior parte delle installazioni e dei giacimenti in cui opera l’Eni, insieme alla Noc, si trova in Tripolitania, ma una parte anche a est di Sirte, in tutto sei aree, di cui 2 offshore. Oltre a Wafa va ricordato anche, sempre al confine con l’Algeria, il grande giacimento di petrolio Elephant che ha una capacità di 100mila barili al giorno. Elefant si trova nel Fezzan che nel settembre 2013 ha dichiarato la sua indipendenza. Questo giacimento è una delle cause dell’intervento militare Usa: obama era inferocito per la cessione del 50% dei diritti di sfruttamento posseduti da Eni a Gazprom (accordo del 5 febbraio 2011 – cfr Wikileaks). Gli oleodotti che collocavano Elephant (in arabo El Feel) ai terminali di Zawiya e di Mellitah sono stati bloccati dalle milizie di Zintan nell’agosto 2013
Ras Lanuf (gestito da Winteeshall e Gazprom), Zueitina (gestito da Occidentale e OMV) e gli altri impianti di smistamento della Cirenaica, dove confluisce il greggio prodotto nel sud est del Paese, sono bloccati da mesi. Il giacimento petrolifero di Abu Attifel (Eni), a sud di Benghazi, è invece chiuso da un anno e mezzo. Con la presa di Sirte e della raffineria di El Bahi, l’ISIS ha tentato di mettere le mani sulle riserve di idrocarburi della Cirenaica

Giova ricordare che nel febbraio 2011 la Libia produceva 1, 6 milioni di barili al giorno; dopo il crollo di produzione nel 2011 e 2012 (400 mila barili al giorno), nel 2013 c’è stata una parziale ripresa dell’export (875 mila barili al giorno); ancora di più nel 2014 per la riapertura dei terminali di Zueitina e marsa al Hariga: nell’ottobre 2014 la produzione era di più di 900 mila barili al giorno, ma nel gennaio 2015 è crollata a 300 mila e col bombardamento di El Sider (sfruttato dalla Conoco Phillips, Marathon e Hess) e l’attacco all’oleodotto di Hariga (12 febbraio 2015) la produzione è precipitata a 180 mila barili. Seconde le statistiche dell’Unione petrolifera, da gennaio a novembre 2014 l’Italia ha importato mediamente 3, 3 milioni di tonnellate di petrolio libico, pari al 6, 7 per cento del suo consumo totale totale. Per quanto riguarda il gas naturale, nel 2014 le importazioni italiane dalla Libia sono state di 6, 4 miliardi di metri cubi, pari all’12 per cento del totale

Tutto questo ci fa comprendere che in Tripolitania l’Eni dovrebbe tener buoni rapporti con il governo di Tripoli, ma nel Fezzan con Zintan, alleato a Tobruk; per riaprire Abu Attifel dovrebbe contrattare con Isis o con Tobruk. Le PMI italiane sono invece interessate a Tripoli, Misurata e Benghazi
Evidente la difficoltà di scegliersi un alleato, a parte il fatto che la situazione di Tripoli e Misurata è estremamente fluida. A livello internazionale Finmeccanica preme perché si dia ascolto all’asse Egitto – Emirati- Arabia Saudita (e ora sembra anche Qatar). Se si esaminano le licenze di esportazione autorizzate di armi nel 2013, l’Arabia saudita è al 1° posto col il 13, 8% del totale, pari a 296, 4 milioni di €. l’Algeria al 3° con il 10, 9% pari a 234, 6 milioni, gli Emirati al 7° posto, con il 4, 4% pari a 94, 6 milioni. In percentuale in valore l’export di armi di questi 3 paesi equivale all’export italiano di armi verso Germania, Francia e Usa. Il recente acquisto di 24 Rafale dalla Francia da parte dell’Egitto ha evidentemente messo in agitazione Finmeccanica.

L’Italia e i suoi concorrenti
Tra la major energetiche che operano nell’ex Jamahiriya islamica quella con la maggior presenza è l’Eni; ci sono tra le altre le americane Marathon e Conoco Phillips, la francese Total, la russa Gazprom, la spagnola Repsol; ma a parte il governo Hollande nessun altro governo sembra intenzionato a intervenire a difesa dei propri interessi nazionali. Si scopre l’acqua calda dicendo che «tra i principali motivi dell’intervento internazionale in Libia, al quale l’Italia si accodò, c’era l’interesse di Total, Bp e Shell di sottrarre all’Eni le royalties sul petrolio. “ Ma la Shell ha ben presto gettato al spugna nel 2012, la BP lo stesso e fra l’altro è oggi al centro di un tentativo di spartizione da parte di Shell ed Exxon. La Total, in compartecipazione con Noc nell’impianto di al- Mabrouk, posto a sud di Sirte, attaccato di recente da Ansar al Sharia, aveva ritirato i suoi dipendenti francesi alla fine del 2013 e gli effettivi arabi nel luglio 2014. La Francia comunque non ha rinunciato a giocare un ruolo di primo piano in Libia e punta a un asse privilegiato con l’Egitto, orfano dei finanziamenti Usa all’esercito. Il contratto per i Rafales è stato firmato “per la Francia” dal ministro della difesa (quindi non un banale contratto ma una sorta di alleanza più larga). L’acquisto “permetterà all’Egitto di giocare appieno il suo ruolo al servizio della stabilità regionale”.

L’Egitto comunque non sembra volersi far condizionare da un asse privilegiato con la Francia. Per quanto importante sia il contratto con la Francia, non si deve dimenticare l’accordo per acquisto di armi con la Russia del marzo 2014: Mosca si è impegnata a fornire elicotteri d’attacco Mi-35 e gli elicotteri multiruolo Mi-17 russi, i caccia MiG-29M/M2, i sistemi SAM anti aerei, i missili antinave, oltre ad armi leggere e munizioni. Di fatto al Sisi sta integrando l’arsenale egiziano finora rifornito solo di armi americane.
In questo modo il disegno di rientro nel Mediterraneo da parte di Putin parte dal Cairo e comprende la Grecia (il cui ministro degli esteri Kotzias ha incontrato Lavrov in Russia l’11 febbraio). Il giorno prima Putin in visita al Cairo a garantito la costruzione di una centrale nucleare per dare energia elettrica alla capitale ( cfr Ayah Aman su Al Monitor 19 febbraio). Al Cairo Putin ha incontrato anche gli alti papaveri di Tobruk e garantito rifornimenti anche a loro. Del resto appena prima della rivoluzione del febbraio 2011, abboccamenti in questo senso c’erano già stati fra Putin e Gheddafi, ha rivelato il colonnello Ahmed al Mismari (portavoce degli ufficiali libici a Tobruk).
Quindi i russi cacciati nel 2011 rientrano grazie all’embargo decretato con la risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (17 marzo 2011) e fanno una scelta di parte logica e coerente (se la Turchia appoggia Tripoli, la Russia appoggia Tobruk). Quanto all’Egitto lo marcamento con gli Usa (non informati prima delle azioni di bombardamento su Derna e Sirte) non potrebbe essere maggiore. Ma soprattutto abbastanza trasparente il desiderio di mettere le mani sulla Cirenaica.

La Francia nel frattempo ha sollecitato l’Onu che avrebbe organizzato, tramite il suo inviato speciale Bernardino Leon, in Marocco, a Rabat un incontro fra Tripoli e Tobruk di riappacificazione.
Il ministro degli esteri Gentiloni, avrebbe invitato a questo summit anche Algeria ed Egitto. L’Algeria ha da anni cattivi rapporti diplomatici col Marocco, se accettasse sarebbe una svolta storica.
Renzi ha preso le distanze dall’azione di bombardamento egiziana, dicendo di comprendere lo sdegno per l’uccisione dei 21 copti, ma dichiarando di voler praticare la via diplomatica.

La guerra o un intervento italiano non sono dunque imminenti. Ma questo non ci deve far abbassare la guardia. I recenti avvenimenti ci confermano che nell’imminenza di un conflitto, l’azione di falsificazione dei fatti sui media (oggi non più solo giornali e telegiornali, ma ogni sorta di blog e sito) raggiunge elementi parossistici. L’informazione si confonde con la propaganda. Lo scopo è di rafforzare un “fronte interno” favorevole alle scelte dell’esecutivo. E’ nostro compito riportare sempre e comunque le azioni dei governi agli interessi delle borghesie in lotta.

Nota:
La crisi libica sta infiammando anche la stampa, che mai come in questo momento è al servizio dell’uno o dell’altro interesse imperialistico.
Un esempio che riguarda gli Usa è l’attacco alla gestione democratica della crisi libica del 2011 (in funzione di impedire un eventuale intervento oggi). A fine gennaio 2015 lo Washington Post ha rivelato che Gheddafi prima della caduta si era dichiarato disposto ad abdicare in cambio di un salvacondotto per lui e per la sua famiglia; la decisione di intervenire militarmente in Libia sarebbe stata presa da Hillary Clinton che appoggiava i gruppi islamici che si ispiravano ai Fratelli Mussulmani, una guerra che molti membri del Pentagono ritenevano non necessaria. Nella confusione dei primi mesi di guerra gli americani hanno finito per armare anche gruppi alqaedisti, hanno denunciato ufficiali della CIA alla Commissione che indaga sull’assassinio a Benghazi dell’ambasciatore americano. L’amministrazione Obama ha cercato in tutti i modi di nascondere le sue responsabilità; Hillary Clinton sarebbe stata influenzata dal responsabile del suo staff, Huma Abedin, i cui genitori in Arabia Saudita gestivano la Muslim World League, una organizzazione con sede alla Mecca, che funzionava , grazie ai pellegrinaggi, come anello di congiunzione fra le varie branche dei Fratelli Mussulmani. Il padrino della famiglia Abedin era Abdullah Omar Nasseef, fondatore del Rabita Trust, la fondazione che aveva finanziato i terroristi dell’11 settembre. Non ci interessa tanto verificare l’attendibilità di questa spiegazione, piuttosto semplicistica e complottistica della guerra in Libia, quanto leggervi il fatto che il primo imperialismo del mondo è normalmente influenzato da lobbies legate ad altri paesi considerati normalmente “minori”, come Israele e l’Arabia saudita; conferma anche che la guerra di Libia è stata una guerra imperialista ( per responsabilità principalmente di Francia, Gran Bretagna e Usa), ma anche una guerra inter-araba per procura (Qatar, Emirati e Sauditi contro Libya, pericolosa concorrente in campo energetico).