“Incidente sul lavoro” sull’Everest. E gli altri?

Everest - cima

La valanga che venerdì sul versante nepalese dell’Everest ha travolto un gruppo di sherpa uccidendone almeno 13 non è semplicemente un evento naturale. E’, come fa notare il famoso alpinista Reinhold Messner, “un incidente sul lavoro”: gli sherpa stavano preparando le piste per gli alpinisti che con la stagione estiva arrivano sempre più numerosi.

Quello degli sherpa è un mestiere molto rischioso ma relativamente ben pagato: come dice l’alpinista e giornalista Alan Arnette, se in Nepal il reddito annuo pro-capite è di 500$ annui, il guadagno annuale di uno sherpa può superare i 5000. Mentre più in basso operano gli uomini delle pianure, meno avvezzi alle alte quote e meno pagati, solo questi uomini riescono a salire oltre i 5000 metri portando in spalla fino a 70 kg di carico, ma con rischi molto maggiori di quelli corsi dagli stessi alpinisti. Per questo secondo Messner – che è salito sull’Everest senza bombole ma non senza sherpa – “dovremmo chiederci se il turismo alpinistico in queste circostanze sia giustificabile”. Un turismo di lusso dove l’onore e la gloria toccano innanzitutto a chi sale per passione, mentre i pericoli vengono corsi da tutti, ma innanzitutto da chi lo fa per lavoro.

I media che oggi danno risalto a questa tragedia raramente pubblicizzano le migliaia di proletari immolati al profitto. Se almeno per gli sherpa il rischio comporta un compenso maggiore di quanto offrono altre professioni locali, per moltissimi lavoratori in catena di montaggio come in miniera, nell’edilizia come nei campi il pericolo va di pari passo con la povertà.

Nel capitalismo la vita umana è sempre stata subordinata al profitto, e la morte sul lavoro – o per il lavoro – è parte della quotidianità: dagli incidenti mortali sul lavoro – che anche in un paese avanzato come l’Italia hanno cadenza giornaliera – alle morti per tumore dovute all’inquinamento, dalle morti per sfinimento nelle catene di montaggio della Cina o dell’Iran alle repressioni sanguinose delle mobilitazioni proletarie, il capitale semina sviluppo ma si nutre di sangue, non solo di sudore.

E’ lo stesso sistema capitalista a fornire i mezzi per far convivere felicemente lo sviluppo umano con la sicurezza e la salute: il “tetto del mondo” è stato espugnato il 29 maggio 1953, il K2 il 31 luglio 1954; più si diffonde l’alpinismo, più si perfezionano la tecnica e le attrezzature, a partire dalle bombole di ossigeno che hanno permesso di raggiungere queste quote. Ci sono gli strumenti per rendere l’alpinismo sempre più sicuro e la montagna sempre più accessibile, e lo stesso vale per qualsiasi altra attività umana: turismo, industria, agricoltura, estrazione mineraria o altro.

Pur fornendo questi mezzi, il capitale non li applica, ma sempre più spesso impone la scelta fra il lavoro da una parte e la sicurezza o la salute dall’altra. E’ un ricatto da respingere: se la borghesia trova più economico avvelenare e lasciar morire, il compito dei comunisti non è impedire la produzione di beni o di servizi ma metterla al servizio dell’umanità, oggi imponendo alla borghesia di “sprecare” parte dei profitti per ridurre i rischi e rispettare la vita umana e l’ambiente, domani rovesciando un sistema basato sullo sfruttamento, il sacrificio delle vite umane e il saccheggio ambientale.