INDIA- LE PROTESTE CONTADINE COSTRINGONO MODI A RITIRARE LE LEGGI DI LIBERALIZZAZIONE AGRICOLA

In India, 1,36 miliardi di abitanti, quarto paese nel mondo per prodotto agricolo e secondo maggior allevatore di bestiame, c’è circa un terzo dei poveri del mondo. L’estrema frammentazione sociale – per classi, caste, etnie, religioni, lingue e geografia – non facilita nella stragrande maggioranza degli oppressi e sfruttati del paese una chiara visione degli interessi unitari di classe mentre, per converso, rappresenta il terreno ideale per il mantenimento del predominio della piccola minoranza borghese.

Tuttavia, lo scorso anno, anno di scoppio della pandemia Covid, ha visto due ampi movimenti di protesta, quello dei lavoratori dell’industria,[1] e quello dei braccianti e dei piccoli contadini, che si sono sostenuti a vicenda.

Il 26 novembre dello scorso anno migliaia di contadini si sono messi in marcia verso Delhi da diversi stati dell’India, in particolare da Uttar Pradesh, Rajastan e Punjab, per protestare contro le nuove leggi agricole.

Hanno dovuto affrontare la feroce repressione della polizia, che con barricate con filo spinato voleva impedire l’ingresso nella capitale, ricorrendo anche a gas lacrimogeni, idranti, e manganelli, come pure a forze paramilitari.

I contadini, armati di semplici bastoni e roncole, numerosi sono riusciti a superare gli sbarramenti e ad entrare, mentre i restanti hanno bloccato i quattro principali punti di ingresso alla città, e si sono insediati in accampamenti alla periferia dove sono rimasti per mesi, sfidando il freddo e la pioggia invernali.

Erano in circa 50.000 secondo un loro leader a presidiare Delhi, organizzando presenze a rotazione per assicurare la stabilità delle proteste. Coloro che si stancavano o si ammalavano, venivano sostituiti da altri del loro villaggio.

Oltre alla repressione poliziesca il governo del BJP di Modi ha cercato di indebolire ed isolare le loro proteste e rivendicazioni accusandoli di terrorismo e anti-nazionalismo.

I lavoratori delle campagne non si sono fatti intimidire, hanno continuato la lotta, ricevendo il sostegno dei sindacati operai, per la lotta dei quali hanno a loro volta espresso solidarietà.

Ma hanno pagato un alto costo, ben 750 di loro hanno perso la vita in questa guerra delle classi oppresse contro lo stato e i grandi proprietari terrieri. Una lotta organizzata da Sanyukt Kisan Morcha (Fronte unito dei contadini), un coordinamento di oltre quaranta organizzazioni sindacali di lavoratori agricoli creata nel novembre 2020. E ora, la lotta dei piccoli contadini durata un intero anno, raccoglie i suoi frutti contro l’arroganza del governo reazionario della “più grande democrazia del mondo”. Costretto dalla loro determinazione e salda resistenza alla revoca di una parte delle riforme agricole varate nel settembre 2020,[2] il governo indiano ha accettato di rinunciare alle cause penali contro gli agricoltori, ha promesso l’istituzione di un comitato per fissare il prezzo minimo di sostegno per i prodotti agricoli, con chiari parametri di riferimento, e la compensazione per gli agricoltori morti durante la lotta. Per ora lo sciopero è stato sospeso, ma non è stato revocato, finché il governo non avrà mantenuto tutte le sue promesse.

Tuttavia, il governo non ha ancora accettato due punti rilevanti delle rivendicazioni contadine. Non ha dato la garanzia del mantenimento dei prezzi minimi di sostegno, cioè le tariffe prestabilite (MPS) alle quali il governo federale acquista i prodotti dagli agricoltori, indipendentemente dalle quotazioni di mercato, e neppure ha cancellato il progetto di riforma per l’elettricità che, eliminando le varie sovvenzioni in vigore per le zone rurali, moltiplicherebbe per cinque i costi di irrigazione.

Al di là delle questioni economiche, un attivista del sindacato All India Kisan Mazdoor Sabha, che ha avuto un ruolo importante per la lotta nell’Uttar Pradesh centrale e orientale, sottolinea i risultati politici: «Il movimento, unendo e radunando i contadini e le loro organizzazioni in tutta l’India, ha creato condizioni migliori per una lotta nazionale su diversi problemi dei contadini indiani. Ha rafforzato il terreno di lotta al posto delle alternative elettorali quale unico rimedio.»

Una parola d’ordine unificante per il fronte dei lavoratori salariati indiani è quella lanciata dal sindacato New Trade Union Initiative (NTUI) al Fronte unito dei contadini, un salario minimo equo per tutti i lavoratori salariati, compresi i braccianti agricoli. Ricordando il 2020 come anno di pandemia e miseria economica, ma anche anno di solidarietà senza precedenti, che ha unito organizzazioni, movimenti e persone, NTUI invita a «impegnarsi nuovamente per un vigoroso fronte unito di forze progressiste contro la politica dell’odio, della divisione, della disuguaglianza e dell’ingiustizia.»

Un obiettivo strategico fondamentale, che tuttavia si scontra con la complessa struttura sociale dell’India, complessità dovuta sia all’arretratezza del processo di proletarizzazione – con almeno la metà della popolazione indiana che ancora vive nelle campagne ed è occupata nel settore primario[3] – sia alla ancora imperante divisione in caste, nonostante la Costituzione indiana già dal 1950 proibisca questa discriminazione.

Così in India coesistono ancora oggi, nel terzo millennio, rapporti sociali prettamente capitalisti, accanto e mischiati a rapporti precapitalistici.

Per quanto riguarda il settore agricolo, da una parte una manciata di grandi e medi proprietari terrieri che impiegano forza lavoro salariata, dall’altra i piccoli contadini e i contadini cosiddetti “marginali” che costituiscono quasi l’85% di tutte le aziende agricole dell’India.

Questa grande maggioranza di piccoli agricoltori sfrutta i piccoli appezzamenti che possiede per lo più con il lavoro personale e dei famigliari, senza ricorrere a lavoro salariato, traendone mezzi di sussistenza minimi, che spesso non garantiscono loro neppure la sopravvivenza.[4] Sono perciò spesso costretti a disfarsene, o a chiedere prestiti. Prestiti che si trasformano facilmente in un debito che non riescono a restituire, se non ipotecando per anni la propria forza lavoro, trasformandosi cioè da piccoli proprietari a salariati, spesso braccianti a giornata con un rapporto di lavoro altamente precario. Oppure sono costretti a sottomettersi, mettendo la propria vita e quella della propria famiglia alla completa mercè del creditore. Un vincolo che in alcuni casi viene trasferito da una generazione all’altra, e che viene trasformato in un rapporto sociale “ereditario”.

E spesso scoprono che anche la condizione del bracciante non garantisce loro la sopravvivenza. Tra il 1995 ed il 2015, circa 300 mila contadini indiani si sono tolti la vita per evitare che le loro famiglie venissero soffocate e strozzate dal debito. Il 2020 è stato un anno registrato come redditizio per l’agricoltura indiana, ma di questa redditività non hanno tratto beneficio i braccianti agricoli, anzi. Un tragico dato lo dimostra: nel 2020 sono morti per suicidio 5.098 braccianti agricoli, + 18% rispetto ai 4.324 del 2019.[5]

Sussistono poi in India rapporti sociali particolari, ibridi, che potremmo definire schiavistico-capitalistici, in cui la borghesia terriera indiana sfrutta un considerevole contingente di forza lavoro schiavizzata, il cosiddetto “bonded labour”, per gran parte non retribuita in denaro (le donne braccianti soprattutto), che tra i fuoricasta Dalit rappresentano una quota rilevante.[6]

Per loro non esistono festività o giorni liberi. Se si ammalano devono farsi sostituire da un famigliare… e se non ottemperano le botte sono una normale sanzione.

Una forza lavoro altamente profittevole, mantenuta in condizioni miserevoli anche grazie all’oppressione consentita dal sistema delle caste, vietato dalla legge, ma imperante di fatto. Una forza lavoro a bassa o nulla scolarizzazione, che viene acquistata, senza alcuna possibilità di contrattazione del proprio prezzo, come una qualsiasi altra merce o strumento di produzione da altri precedenti padroni. L’aspirazione dei bonded labourers, dei lavoratori vincolati Dalit, è divenire piccoli contadini, piccoli proprietari, possedere un pezzo di terra da coltivare liberamente. Un’aspirazione ad una vita libera che molto probabilmente si realizzerà, non divenendo piccoli agricoltori proprietari, ma “libera” forza lavoro salariata, proletari, in agricoltura o in altri settori economici, associandosi al percorso dei milioni di piccoli contadini indiani.

Un processo di proletarizzazione spesso doloroso, disgregante dal punto di vista sociale, per i profondi e bruschi cambiamenti nel modo di vivere, nella cultura, nei rapporti famigliari, imposto dal processo di concentrazione del capitale – che si tratti di capitale fondiario, industriale, commerciale – e storicamente vissuto in tutti i paesi in cui il modo di produzione capitalistico è divenuto dominante. … Un processo il cui esito sociale è una più netta polarizzazione delle classi, e con questo una più chiara demarcazione politica della contrapposizione degli interessi tra la classe dominante e la classe sfruttata. Da questa più chiara definizione può derivare una presa di coscienza e un’organizzazione di classe.

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Proponiamo di seguito la traduzione di un interessante articolo sui bonded labourers dalit, comparso su Foreign Policy, 6.12.2021. L’articolista, uno dei pochi giornalisti fuoricasta dalit dell’India, ne denuncia la condizione di vita e di lavoro. Rileva che questa condizione non verrà migliorata dalle rivendicazioni poste e conquistate con un anno di dura lotta dal movimento contadino contro le tre leggi di riforma agraria.

Dopo questa giusta denuncia, lancia l’invito ad affrontare la questione dei braccianti, dei lavoratori salariati della terra. Come sopra rilevato, è la questione che solleva anche il sindacato NTUI che propone un salario minimo per i braccianti. Potrebbe essere questo un primo passo verso la costruzione di una strategia di lotta unificante per tutti gli sfruttati del subcontinente indiano, una proposta di un fronte unico tra gli strati salariati urbani, i milioni di lavoratori stagionali migranti e quelli nelle campagne, come i dalit o i braccianti senza terra.

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La revoca delle leggi agricole di Modi non serve ai Dalit

I lavoratori forzati, molti dei quali appartengono alla comunità Dalit, sono di proprietà dei loro padroni e lavorano per poco o nessun salario.

Suprakash Majumdar, (uno dei pochi giornalisti dalit dell’India)


Le proteste di appartenenti alla comunità Dalit, la più discriminata dell’India

A seguito di ampie proteste durate più di un anno,[7] lo scorso novembre il primo ministro indiano, Narendra Modi, ha revocato le tre leggi di riforma agricola, approvate nel settembre 2020.

Molte organizzazioni di agricoltori hanno combattuto queste leggi anti-contadini, perché portavano alla soppressione di un sistema di mercato locale, lasciando i piccoli agricoltori alla mercè delle grandi aziende, e hanno chiesto una legislazione di sostegno ai prezzi minimi per non permettere alle grandi aziende un eccessivo controllo.

Ma l’abrogazione di queste leggi non avrà alcun impatto sulla maggior parte della forza lavoro agricola dell’India, di cui il 90% possiede solo piccole estensioni di terra o non ne possiede.

Una parte di questi lavoratori agricoli sono lavoratori forzati/vincolati, sono cioè di proprietà dei proprietari terrieri. Sulla carta, i lavoratori vincolati sono pagati con un salario di sussistenza, che però raramente viene erogato. Secondo i dati del governo indiano, esistono 300.000 lavoratori vincolati, ma il numero reale è diverse volte superiore, secondo studi degli ultimi decenni. Questi lavoratori sono spesso costretti alla schiavitù – anche intergenerazionale – per pagare dei piccoli prestiti. Senza avere alcun controllo sul loro debito, sono costretti a lavorare per poco o nessun salario per quasi tutta la vita.

Fakir (non ha un cognome) è un lavoratore vincolato di 25 anni del Punjab. Il suo padrone è un proprietario terriero che è andato a Delhi a protestare nell’ultimo anno. Fakir è stato venduto come bracciante a 5 anni, perché i suoi genitori non sono riusciti a restituire il prestito di 10 dollari che avevano contratto prima della sua nascita. È stato venduto e rivenduto a diversi proprietari per quasi due decenni.

“Non ho terra, né casa, né denaro”, ha detto Fakir. “Ho solo il mio padrone. Non credo che queste leggi e le proteste cambieranno la mia vita”.

Fakir appartiene alla comunità Dalit, un gruppo di 200 milioni di persone relegate al di sotto del sistema di caste indiano che vige da 3.000 anni. I membri delle caste superiori – bramini, kshatriya e vaishya – hanno il controllo di cultura e scienza, delle risorse e del potere pur costituendo solo il 30% della popolazione.

Coloro che sono nati nella comunità Dalit sono considerati dei reietti, impuri e impresentabili nella società. I loro lavori, raccolta di escrementi umani, lavandai, la cremazione e la lavorazione del cuoio, sono considerati umili dalle cosiddette caste superiori. Le loro case sono in zone segregate alle periferie dei villaggi. I Dalit sono vittime di violente reazioni per semplici atti come toccare fonti d’acqua pubbliche, farsi crescere i baffi o montare un cavallo.

Il 71% dei Dalit lavora nell’agricoltura, ma possiedono solo il 9% della terra agricola totale. Quasi tutti i Dalit che lavorano in agricoltura sono braccianti. Molti di loro sono vincolati.

Esiste un contesto storico che spiega perché i Dalit sono senza terra. Oltre alla secolare tradizione basata su casta e intoccabilità, i regolamenti ufficiali in alcune aree del paese, come il Punjab Land Alienation Act del 1900, hanno limitato e impedito ai Dalit di possedere la terra.

La misera paga ha reso quasi impossibile per loro liberarsi da questo sistema. Quando i lavoratori si ammalano, le spese mediche vengono aggiunte ai loro debiti. (Alcuni lavoratori vengono addirittura rasati come segno della loro schiavitù e per identificarli se cercano di scappare). Le donne Dalit che sono lavoratrici vincolate non sono nemmeno pagate in denaro, guadagnano poco più di 10 libbre di grano per 6 mesi di lavoro, mentre gli uomini sono pagati da 1 a 2 dollari al giorno, secondo Gagandeep Kaur, segretario generale di Volunteers for Social Justice (Volontari per la Giustizia Sociale), un’organizzazione che combatte il lavoro vincolato e il lavoro minorile dal punto di vista delle caste, organizzando operazioni di assistenza e di promozione politica.

In ottobre, i Volontari per la Giustizia Sociale (VGS)hanno riscattato Fakir dai lavori forzati; ora abita nell’ufficio di Kaur. Kaur aveva avuto una segnalazione da fonti locali che una famiglia di quattro persone era tenuta come schiava in un certo terreno agricolo. Il gruppo ha portato via Fakir e la sua famiglia da una piccola capanna di paglia sul terreno agricolo dove la famiglia viveva.

Da quando è nato nel 1985, il gruppo dei VGS ha individuato e riscattato più di 30.000 schiavi come Fakir, inclusi bambini, in Punjab e in altri stati dell’India settentrionale. Il gruppo ha intentato causa contro il proprietario di Fakir ed è in attesa del procedimento legale. Il padrone è uno dei manifestanti dell’agitazione dei contadini.

Dato che la maggior parte dei Dalit non possiede la terra – e il principale obiettivo della loro lotta è di ottenerla – sono stati lasciati fuori dalle proteste.

Gli attivisti VGS dicono che gli agricoltori che guidano le proteste sono a volte le stesse persone che tengono i Dalit in schiavitù. “La protesta contro queste tre leggi agricole è fortemente condizionata dai Jat”, dice Mukesh Malaudh, presidente del Zameen Prapti Sangharsh Committee, un’organizzazione che si batte per ottenere la terra per le comunità emarginate. (Jat è un gruppo di casta dominante che è noto per le sue grandi proprietà terriere). “Molti Jat possiedono lavoratori vincolati e sono oppressori diretti dei Dalit, in particolare in Punjab e Haryana, quindi è naturale non vedere molte organizzazioni agricole Dalit partecipare alle proteste”.

Questo non ha impedito ai proprietari terrieri di cercare di forzare il sostegno dei Dalit. Arjun, ex lavoratore schiavo e attivista Dalit per i diritti alla terra in Punjab, che ha chiesto di usare uno pseudonimo, ha raccontato che le caste alte hanno preteso che ogni famiglia della sua comunità mandasse un membro ad unirsi alle proteste, altrimenti avrebbe dovuto affrontare multe e isolamento sociale ed economico.

“Per i Dalit, sia il [Bharatiya Janata Party] che i proprietari terrieri delle caste superiori sono oppressori”, ha detto Arjun. “Ci hanno tenuti come schiavi nelle loro fattorie e ora ci chiedono di sostenerli”.

I proprietari terrieri possono comprare braccianti agricoli al Nimani Ekadashi, un festival che si tiene in Punjab ogni giugno. Il festival serve ufficialmente a vendere i prodotti agricoli, ma vi si commerciano anche i lavoratori forzati. Secondo Kaur, un lavoratore può essere acquistato per una cifra compresa tra 400 e 1.500 dollari per un anno. “Mi hanno venduto come un oggetto a diversi proprietari ad ogni Nimani Ekadashi”, ha detto Arjun.

Le condizioni dentro Nimani Ekadashi sono terribili. “Ho visto i braccianti tenuti in catene quando la nostra squadra è andata a liberarli”, ha detto Kaur, che ha paragonato il sistema alla schiavitù. “In molti casi, i lavoratori sono tenuti in gabbia”.

Il lavoro vincolato è ufficialmente bandito dal Bonded Labor System (Abolition) Act del 1976, che ha messo fine alla pratica. In realtà, questa legge non viene applicata se non quando interviene un’organizzazione sociale. La maggior parte dei lavoratori vincolati non sono istruiti e non sono consapevoli dell’illegalità del sistema di lavoro vincolato. Solo con l’intervento delle organizzazioni sociali del lavoro i braccianti forzati di solito agiscono. Arjun era uno di questi lavoratori vincolati, e ancora oggi riceve minacce di morte dal suo precedente proprietario per costringerlo a rinunciare al procedimento.

Anche i tentativi del governo di ridistribuire la terra in modo più equo sono falliti. Per promuovere una più equa distribuzione della terra tra le diverse caste, nel 1961 Nuova Delhi istituì il Punjab Village Common Lands (Regulation) Act, che riservava il 33% delle terre comuni dei villaggi agricoli ai Dalit. Ma a causa della carente applicazione di questa legge, sono ancora le caste superiori a mantenere un controllo incontrastato sui terreni agricoli e ad aggiudicarsi all’asta gli affitti annuali.

“Queste terre agricole riservate sono ancora coltivate dalle caste superiori”, ha detto Malaudh, l’attivista della terra. “Si limitano a pagare i candidati appartenenti alle comunità con diritto di riserva[8] e privano i Dalit dei loro diritti”.

A pochi giorni dall’annuncio di Modi di voler abolire le leggi controverse, il Sanyukt Kisan Morcha, un consiglio unificato dei sindacati degli agricoltori che ha guidato le proteste, ha scritto a Modi una lista di richieste, compresa una garanzia legale che il governo acquisterà i raccolti a un prezzo minimo anche se i prezzi di mercato oscillano.

Ci sono anche altre richieste, ma nessuna tocca le questioni dei braccianti agricoli, la distribuzione della terra o l’abolizione del sistema di lavoro vincolato. Finché non lo si farà, più di 200.000 Dalit dovranno continuare ad aspettare di essere liberati da questa vita. Molti vivono e muoiono ripagando debiti che non hanno contratto direttamente, mentre lavorano su terre che non potranno mai appartenere loro.



  1. Cfr.: https://www.combat-coc.org/decine-di-migliaia-di-lavoratori-in-tutta-lindia-sfidano-il-divieto-di-partecipare-allo-sciopero-indetto-dalle-organizzazioni-sindacali-non-vi-aderisce-il-bms/
  2. Per il contenuto delle riforme agrarie introdotte dal governo indiano e le rivendicazioni dei piccoli contadini cfr. sul nostro sito https://www.combat-coc.org/a-migliaia-in-marcia-contro-il-reazionario-governo-modi/
  3. Per un riferimento, in Italia gli occupati nel primario rappresentano circa il 3,6% del totale.
  4. I piccoli contadini indiani posseggono mediamente 1,21 ettari di terreno, quelli marginali una media di 0,40 ettari. Cosa significa in termini di economici? Il riso è il nutrimento base, e quasi esclusivo, delle famiglie rurali dell’India. Una famiglia contadina di 5 membri consuma circa 760 kg di riso lavorato l’anno; un acro (0,40 ettari) ne produce 670kg l’anno di riso …  Inoltre nelle zone rurali, a parte l’utilizzo alimentare, il riso serve a pagare in natura il fabbro, il barbiere, ecc. Perciò gli agricoltori marginali non riescono a coltivarne a sufficienza nemmeno per i propri fabbisogni. cfr. https://en.gaonconnection.com/farmers-protests-why-are-small-and-marginal-farmers-protesting-against-the-farm-acts/
  5. Dati National Crime Records Bureau (NCRB).
  6. Un esempio è la situazione del Punjab, che, secondo il censimento 2010-11, ha la più alta percentuale di popolazione Dalit dell’India. Qui i Dalit sono il 32% della popolazione complessiva, ma posseggono solo il 6,02% delle terre, e rappresentano il 61,4% delle famiglie che vivono sotto la soglia di povertà.
  7. Cfr.: https://timesofindia.indiatimes.com/india/factsheet-farmers-protest-in-numbers/articleshow/87805415.cms
  8. Comprano cioè le quote di terre, posti pubblici, iscrizioni universitarie, ecc. assicurate per legge alle caste svantaggiate. In India La “riserva” è un sistema previsto dalla Costituzione che fornisce ai gruppi storicamente svantaggiati una rappresentanza nell’istruzione, nel lavoro e nella politica. Il governo centrale o gli stati o i territori stabiliscono quote riservate o posti, con minori qualifiche richieste per gli esami, assunzioni, ecc. per “cittadini socialmente ed educativamente arretrati”. [da Wikipedia]

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