Ineguaglianza e internazionalismo

È universalmente riconosciuto che negli ultimi 30 anni è cresciuta in tutto il mondo l’ineguaglianza sociale. In parole semplici: i ricchi sono diventati più ricchi, i poveri più poveri.
In questo articolo, oltre a dare una descrizione del fenomeno con dati tratti da diverse fonti, vogliamo fornirne una chiave interpretativa per trarne delle indicazioni politiche.
Gran parte degli studi e dei pronunciamenti politici rilevano l’aumento dell’ineguaglianza dei redditi e dei patrimoni come un fenomeno più o meno spiacevole, e fanno ipotesi e proposte su come i governi dovrebbero operare per attenuarlo (secondo alcuni tuttavia l’ineguaglianza economica è funzionale all’economia capitalistica).
In questa visione borghese che utilizza il concetto del “reddito” si tratta di differenze solo quantitative: c’è chi ha più entrate, e chi ne ha meno; chi ha più ricchezza, e chi ne ha meno. Il rapporto sociale tra i primi e i secondi non viene indagato. Si tratta semmai solo di diminuire le distanze.

Ineguaglianza di classe

Dal nostro punto di vista comunista il fenomeno ineguaglianza non manifesta solo differenze quantitative (livello dei redditi), ma qualitative (rapporti di classe). In altri termini: rapporti di sfruttamento. Chi produce riceve una parte sempre minore di quanto produce, chi possiede i mezzi di produzione si appropria di una parte crescente del prodotto sociale, che i lavoratori hanno prodotto. Quindi aumenta l’ineguaglianza perché aumenta lo sfruttamento. Il rapporto che ci interessa scoperchiare al di sotto di quello tra ricchi e poveri è la divisione della società nelle sue due classi fondamentali, borghesi e proletari.
Questa è una realtà che noi non vogliamo attenuare per renderla meno insopportabile, ma che vogliamo sopprimere, per realizzare una società – la società senza classi – dove l’eguaglianza delle condizioni sia il principio generale.
In uno special report intitolato “Vero Progressismo – La nuova politica di capitalismo e ineguaglianza”, Zanny Monton Beddoes sull’Economist scrive che “la democratizzazione dei tenori di vita ha mascherato una drammatica concentrazione dei redditi nel corso degli ultimi 30 anni, in una misura che eguaglia, o persino supera, la prima Gilded Age.1 Includendo i guadagni sul capitale, la quota del reddito nazionale che va all’1% più ricco degli americani è raddoppiata dal 1980, dal 10% al 20% del totale, risalendo più o meno al livello di un secolo fa … la quota spettante allo 0,01% più ricco (circa 16 mila famiglie con un reddito medio di 24 milioni di dollari) è quadruplicata, da poco più dell’1% a quasi il 5%. Questa è una fetta della torta nazionale più grande di quella che lo 0,01% più ricco riceveva un secolo fa”.
Lo stesso fenomeno è avvenuto in molti paesi, tra cui la Gran Bretagna, il Canada, la Cina, l’India e perfino la Svezia. Secondo Forbes gli Stati Uniti hanno 421 miliardari (in dollari), la Russia 96, la Cina 95 e l’India 48.
Secondo uno studio del Center for American Progress tra il 1979 e il 2007 il reddito medio del 50% inferiore delle famiglie americane è aumentato solo del 6%, mentre quello dell’1% più ricco è aumentato del 229%, ossia è più che triplicato. Se dai redditi passiamo alla ricchezza, l’aumento dell’ineguaglianza è ancora più stridente: secondo uno studio del Congressional Office Bureau del 2007 la ricchezza dell’1% più ricco tra gli americani era pari a $16,8 mila miliardi, 2 mila miliardi più della ricchezza detenuta dal 90% meno ricco, mentre a livello mondiale l’1% più ricco nel 2000 deteneva il 40% di tutta la ricchezza.

Il sogno della middle class

Questa realtà ha messo a tacere tutte le ideologie cresciute nel dopoguerra sulla “middle class”, per convincere i lavoratori salariati che non fanno parte della classe operaia e del proletariato, ma sarebbero entrati nella “classe media”. Queste ideologie, tipiche del “sogno americano” sostenevano che la “società dei consumi” con la diffusione di un relativo benessere smentiva le tesi marxiste della polarizzazione della società tra proletariato e borghesia, contrapponendovi la tesi di una convergenza della società verso gli strati intermedi. Il capitalismo sarebbe quindi stato in grado di dare benessere a tutti, confermandosi come il “migliore dei mondi possibili”.
L’aumento dei white collar, gli strati impiegatizi e dei “quadri”, spesso con stipendi superiori ai salari operai, è stato presentato anche dai sociologi nostrani come espansione della piccola borghesia, confondendo il livello dei redditi con i rapporti sociali. Un commerciante o un libero professionista è proprietario e ha il controllo dei propri mezzi di produzione, vende sul mercato dei prodotti o dei servizi in concorrenza con altri commercianti o professionisti; per questo fa parte della piccola borghesia – e della sottocategoria ibrida dei “lavoratori autonomi” nel caso non abbia dipendenti – perché a rigor di logica il piccolo borghese oltre a metterci il proprio lavoro sfrutta anche il lavoro di qualche salariato. Un impiegato o un quadro aziendale invece, non essendo proprietario di mezzi di produzione, allo stesso modo dell’operaio vende la propria forza lavoro al capitale, che la utilizza (sfrutta) per ottenerne un prodotto da vendere sul mercato ricavandone un profitto. Nel primo caso la forza lavorativa e i mezzi di produzione fanno capo alla stessa figura sociale, che ha il possesso del prodotto; nel secondo caso chi lavora e chi possiede i mezzi di produzione sono due soggetti diversi che hanno interessi contrapposti, e chi lavora non ha il possesso del prodotto del proprio lavoro.
Questa contrapposizione lavoro salariato/capitale costituisce il DNA della società capitalistica. La suddivisione della società in classi sociali, proletariato e borghesia, sulla base di quelli che Marx chiama “rapporti di produzione” prescinde dal livello degli stipendi, anche se certamente chi percepisce 5 mila euro al mese facilmente ritiene di appartenere a un ceto diverso da chi ne percepisce mille, e avrà diversi stili di vita.

Un discorso a parte va fatto per l’alta dirigenza delle società per azioni, dove i proprietari del capitale (azionisti) delegano a dei funzionari la gestione aziendale. Questi svolgono la funzione del capitalista anche se formalmente lavorano per uno stipendio – ma uno stipendio che può essere pari a quello di un migliaio di operai – che consiste in realtà in una parte del plusvalore estratto agli operai stessi. La remunerazione degli alti dirigenti è enormemente aumentata negli ultimi decenni: nel 1960 il capo (CEO) di una grande impresa americana guadagnava 12 volte l’operaio medio; nel 1980 42 volte; nel 2011 ben 380 volte! È chiaro che si tratta di profitti nella forma di stipendio.
Lo sviluppo reale della società capitalistica ha smentito le ideologie borghesi che volevano che il grosso della società divenisse middle class.
Da un lato abbiamo dimostrato come la polarizzazione sociale tra proletariato e borghesia sia proseguita negli ultimi decenni anche negli USA (PM n. 4, luglio 2004), con un ulteriore aumento dei lavoratori salariati e una riduzione dei lavoratori indipendenti; dall’altro i dati che qui citiamo indicano come anche sul piano di redditi, consumi e ricchezza, la società sia sempre più ineguale. Ossia, che la ricchezza si accumula a un polo della società, mentre la massa della popolazione vede peggiorare la propria posizione relativa e spesso anche assoluta.

Le lotte operaie hanno ridotto l’ineguaglianza

Perché nei primi tre decenni del dopoguerra l’ineguaglianza dei redditi si è ridotta, mentre dagli anni ’80 è tornata ad aumentare in tutte le metropoli? La ragione principale sono le lotte operaie generalizzate nella seconda metà degli anni ’60 – prima metà degli anni ’70 del secolo scorso, che hanno portato a consistenti aumenti salariali e del salario indiretto (pensioni, prestazioni sanitarie ecc.) riducendo la quota che andava a profitti, interessi e rendite. Il venir meno di quelle lotte, per ragioni oggettive e soggettive, ha fatto rifluire il pendolo della ripartizione dei redditi a vantaggio della borghesia.
Anche le ineguaglianze all’interno del proletariato tra manovali, operai, tecnici, impiegati, quadri, funzionari ecc., e tra lavoratori di diversi settori e tra quelli di imprese grandi e piccole, lavoro regolare e lavoro nero, restano forti e contribuiscono a tenere diviso il fronte del lavoro salariato. È il problema di quella che è stata definita “aristocrazia operaia”, base materiale dell’influenza politica della borghesia nel proletariato, che va approfondito per portare avanti un lavoro di unificazione politica della classe.
In Germania ad esempio negli ultimi 15 anni il 30% inferiore della popolazione ha visto peggiorare in assoluto la propria condizione ed è così cresciuto il divario con gli strati superiori dei salariati.
Anche nella crisi attuale, che ancora investe l’Italia, non va dimenticato che a fronte di un arretramento di redditi e consumi di una maggioranza dei proletari vi sono ampi margini di plusvalore e di riserve accumulate nelle mani della borghesia, che solo forti lotte potrebbero spostare a favore dei lavoratori, occupati e disoccupati.
L’1% della popolazione, la grande e media borghesia, detiene tra il 10 e il 20% dei redditi, senza considerare le quote accaparrate tramite imprese e banche e non distribuite; ancora maggiore è la concentrazione dei patrimoni (vedi riquadro a lato).
Anche nella crisi recente, nonostante la caduta delle Borse e una contrazione dei mercati, gran parte della borghesia non ha perso le proprie posizioni: 1) perché l’aumento della disoccupazione (dell’“esercito industriale di riserva”) porta la disponibilità di forza lavoro a buon mercato, anche al di sotto dei minimi contrattuali, e quindi un aumento dei margini di profitto (anche nella forma del lavoro nero, degli straordinari non pagati ecc.); 2) perché i capitalisti possono spostare i capitali verso le aree in espansione dove realizzano più elevati profitti (tra il 1980 e il 2008 lo stock degli investimenti esteri diretti dei paesi OCSE è cresciuto da meno del 5% a oltre il 50% del PIL: una quota crescente dei profitti viene dallo sfruttamento dei lavoratori di altri paesi).
Nella prima fase della ripresa in corso negli USA il 90% degli aumenti di reddito sono andati all’1% più ricco.

Ineguaglianza globale

A fianco dell’ineguaglianza all’interno delle nazioni esiste una forte ineguaglianza di redditi e ricchezza tra nazioni. Ce lo ricordano le centinaia di migliaia di laureate ucraine che curano come badanti i nostri anziani, i laureati romeni ed extracomunitari che lavorano come manovali, facchini, operai nei nostri cantieri e nelle fabbriche, e tutta l’immigrazione in generale.
Nello studio Global Inequality, condotto per la Banca Mondiale, Branco Milanovic tenta un calcolo dell’ineguaglianza su scala globale. Egli stima tre misure dell’ineguaglianza, utilizzando il coefficiente di Gini2:
ineguaglianza tra paesi come singole unità: essa è continuata ad aumentare dal 1950 fino al 2000, per poi iniziare a diminuire;
ineguaglianza tra paesi, ponderata per la loro popolazione: essa è diminuita lentamente fino al 1990 circa, per poi diminuire fortemente negli ultimi due decenni;
ineguaglianza tra individui a livello globale (ripartendoli per classi di reddito indipendentemente dal paese di residenza).
La differenza tra la prima e la seconda misura (per entrambe sono stati utilizzati i redditi mediani stimati3) è data dal fatto che i più grandi paesi un tempo del “Terzo Mondo”, e in particolare la Cina dal 1980, e l’India nell’ultimo decennio, hanno realizzato una crescita economica molto più forte della media mondiale, e quindi i redditi delle loro popolazioni sono saliti nella scala mondiale verso le posizioni intermedie. Per la misura 3), che richiede indagini sulla distribuzione dei redditi in ciascun paese, sono disponibili dati significativi solo dalla metà degli anni ’80. Come statisticamente scontato, l’ineguaglianza tra individui è maggiore rispetto a quella tra paesi, e se un trend è individuabile è alla crescita fino al 2000 e un leggero calo nell’ultimo decennio.
Se si dispone la popolazione mondiale in ordine di reddito e si considerano i vari percentili, nel ventennio 1988-2008 si sono avuti questi fenomeni:
l’1% più ricco del mondo ha visto i propri redditi aumentare del 60%
la fascia mediana che va dal 20° al 65% percentile della popolazione mondiale ha visto crescere il proprio reddito di una misura tra il 60% e l’80% nei venti anni; tra il 50° e il 60° percentile si collocano ormai 200 milioni di cinesi, 90 milioni di indiani, 30 milioni di indonesiani, brasiliani, egiziani.
Anche la popolazione tra il 5° e il 20° percentile ha visto crescere il proprio reddito tra il 40% e il 60%. Si tratta di contadini poveri e strati inferiori del proletariato dei paesi a basso reddito, che in qualche modo hanno avuto qualche miglioramento dalla crescita dell’economia nei loro paesi – ma su livelli ancora di povertà assoluta, ossia meno di 1,25 dollari al giorno a parità di potere d’acquisto. Restano cioè in miseria, ma con un po’ meno di fame.
Chi non ha avuto alcun miglioramento nella parte bassa della distribuzione mondiale è invece il 5% più povero in assoluto, soprattutto in Africa. Peccato che nel 1988 fossero circa 260 milioni di persone, che ora sono divenuti 340 milioni dato l’aumento della popolazione mondiale. Essi in gran parte restano esclusi dagli stessi meccanismi di sfruttamento capitalistico e sono al livello di mera sopravvivenza (contadini senza terra, sottoproletariato nelle bidonville).
Ma ci sono altri strati sociali, molto più in alto nella classifica mondiale, che in questi 20 anni non hanno visto migliorare la propria condizione: coloro che si trovano tra il 75° e il 90° percentile, circa un miliardo di persone, tra cui gli strati inferiori dei salariati d’Europa e Stati Uniti, che hanno visto peggiorare (soprattutto nell’Est Europa-ex URSS dopo il crollo dei regimi a capitalismo di Stato) o migliorare per meno del 10% il proprio reddito nei 20 anni (il reddito medio procapite in Italia è tornato nel 2012 al livello del 1986).

Classe e nazione

Branko Milanovic utilizza questi dati per sostenere che quello in cui viviamo è un “mondo non marxista”, e attaccare le idee fondamentali del marxismo, quali l’internazionalismo proletario. Esso avrebbe avuto senso nel 1870, quando i 2/3 delle ineguaglianze nel mondo erano riconducibili all’appartenenza di classe degli individui, mentre non avrebbe più motivazioni materiali oggi, dato che le differenze di reddito nel mondo sono determinate per due terzi dalla posizione geografica degli individui e per meno di un terzo dalla classe di appartenenza. Potremmo mettere in discussione questa tesi, ad es. osservando che se nelle sue statistiche avesse incluso i “super-ricchi” (che sono esclusi) egli troverebbe che la grande borghesia è già un’unica classe internazionale, unificata anche nei livelli di redditi e di ricchezza (non è un caso che l’uomo più ricco del mondo sia un messicano). E d’altra parte non stupisce che la Banca Mondiale, espressione delle maggiori potenze finanziarie, cerchi di esorcizzare il “fantasma” del comunismo, che non s’aggira più per la sola Europa, ma volteggia sul mondo intero, incarnandosi in potenza in oltre un miliardo di proletari.
Milanovic pone tuttavia un problema che non possiamo eludere proprio nel momento in cui intendiamo portare avanti una politica internazionalista, nel senso dell’internazionalismo proletario: il proletariato è oggi una classe fortemente disomogenea, che vive condizioni molto diverse, sia all’interno di un singolo paese (forti differenze tra lavoratori a bassa e ad alta qualificazione), che tra paesi, con differenze nei salari tra lavoratori che svolgono le stesse mansioni, che possono arrivare anche a rapporti di 1:20 (in gran parte dell’Africa e degli altri “paesi poveri” il salario di un operaio non qualificato è tra i 50 e i 100 euro al mese).
Unica “merce” il cui prezzo sia così diverso tra mercati, la forza lavoro tende inevitabilmente a muoversi verso le aree ad alto salario, incontrando barriere armate per respingere i migranti. Il primo atto di una politica internazionalista è quindi quello di opporsi ad ogni forma di protezionismo anti-immigrati, quale il sistema dei permessi di soggiorno che tiene una parte degli immigrati nell’illegalità, e la richiesta di uguali diritti per gli immigrati.
Se l’attuale enorme divario nelle condizioni del proletariato fossero destinate a durare, l’unificazione del proletariato mondiale in un unico movimento sarebbe tuttavia un’impresa disperata.
Ma le stesse tendenze rilevate da Milanovic indicano che la situazione attuale è transitoria. Le attuali enormi differenze sono il prodotto di uno-due secoli di accumulazione capitalistica nelle metropoli, che ha completamente assorbito la forza lavoro prima dedita all’autoconsumo in agricoltura, trasformandola in merce da impiegare nella produzione di plusvalore nell’industria, nei servizi, nel settore primario. Attraverso lotte anche aspre il proletariato delle metropoli ha conquistato riduzioni di orario e aumenti salariali, che il capitalismo ha “inglobato” in quanto hanno permesso di espandere il mercato dei prodotti di consumo di massa, facilitando un instabile equilibrio tra investimento e consumo, tra la sezione I che produce mezzi e servizi di produzione e la sezione II che produce mezzi o servizi per il consumo (il Giappone e il blocco ex-URSS, che avevano spinto al massimo la sezione I, sono entrati prima delle altre metropoli nella crisi).

Proletariato globalizzato

L’industrializzazione del resto del mondo è un fatto dell’ultimo cinquantennio. È un processo colossale, che mobilita enormi capitali e muove miliardi di uomini. Al suo confronto, lo sviluppo del capitalismo in Europa e in Nordamerica nell’800 e nei primi del ‘900 è stato un processo lento e circoscritto a limitate aree del pianeta. Il passaggio dalle campagne alle città, da lavori agricoli a bassissima produttività al lavoro artigianale, manifatturiero o dei servizi, dall’analfabetismo all’istruzione tecnica comporta di per sé un forte aumento di produttività e di prodotto pro capite, e spiega gran parte dell’espansione delle economie dei “paesi emergenti”. Buona parte di questo incremento del prodotto viene accaparrata dalla borghesia, ma mano a mano che i lavoratori si organizzano e lottano, e che si esauriscono le riserve di forza lavoro agricola anche i salari aumentano rispetto ai livelli iniziali infimi, come è stato il caso della Corea del Sud e di paesi del Sud Est asiatico e dell’America Latina, e ora anche della Cina, con conseguente espansione dei mercati locali dei beni di consumo.
Nelle metropoli è in corso un processo opposto: da un lato arrivano i migranti dai paesi a bassi salari, che svolgono una funzione di “riserva” analoga a quella della forza lavoro agricola nella prima fase dell’industrializzazione; dall’altro soprattutto nel settore industriale arrivano i prodotti a buon mercato dei paesi a bassi salari, che spiazzano gli analoghi prodotti dell’industria locale e spingono a tagliare i costi e a trasferire produzioni all’estero. In assenza di forti lotte di difesa salariale, i salari nelle metropoli ristagnano da circa quarant’anni negli USA, da un ventennio in Italia, e negli ultimi dieci anni anche nelle altre metropoli. Le disparità nei salari tra metropoli e paesi “arretrati” nella prima parte del ‘900, “in via di sviluppo” nella seconda parte e ora “emergenti” ha iniziato a ridursi ed è destinata a diminuire ulteriormente nei prossimi decenni.
Con l’estensione dello sviluppo capitalistico a tutti i paesi del mondo la “classe” ritorna ad essere l’elemento determinante fondamentale delle condizioni di vita e lavoro di una persona, e la comunanza di interessi tra i proletari di tutti i paesi tornerà a far aleggiare in tutto il mondo lo “spettro”, o meglio i raggi di sole del comunismo. Per questo siamo convinti che “Proletari di tutti i paesi, unitevi!” non è una parola d’ordine del passato, ma del presente e del futuro.

Roberto Luzzi

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