La caduta del prezzo del petrolio nella guerra di spartizione della rendita

La caduta del prezzo del petrolio, con un dimezzamento da oltre 110 a meno di 60 $ al barile mentre scriviamo, inverte un ciclo di alti prezzi iniziato con il nuovo secolo, che faceva seguito a un ciclo discendente iniziato con il controshock petrolifero del 1979 seguito al primo shock del quadruplicamento del 1973-74.

Prezzi-barile
Nella figura: prezzi a dollari costanti del 2010 per barile

Le cause di fondo risiedono nelle diverse dinamiche di offerta e domanda di petrolio (e gas), e nei loro riflessi sulla concorrenza tra paesi produttori.

Ma il capitalismo è anarchia del mercato + intervento degli Stati espressione di sezioni ‘nazionali’ del capitale internazionale. Economia e politica si intrecciano producendo esiti che nessuno è in grado di prevedere. La lotta è tra produttori di petrolio con interessi diversi, e tra produttori di petrolio e i gruppi economici basati su altri settori consumatori di energia.

La posta in gioco è la rendita petrolifera, ossia una quota del plusvalore mondiale, frutto dello sfruttamento del lavoro di un miliardo e mezzo di lavoratori salariati, che dalle mani dei loro sfruttatori viene ceduta ai venditori del petrolio al momento dell’acquisto dei suoi derivati (benzina, gasolio, prodotti chimici, plastica).

Il risultato immediato è una drastica riduzione della rendita petrolifera mondiale stimabile in 1,3 trilioni di dollari l’anno, pari a oltre metà del PIL italiano.

I paesi più colpiti da questo “secondo controshok”, tra cui Russia, Venezuela e Iran, ma anche Nigeria e Angola e diversi altri, rischiano una drastica caduta dei redditi e quindi recessione e crisi finanziarie (come mostra in tempo reale la Russia) e forti tensioni sociali.

L’impatto sull’economia mondiale dovrebbe invece essere neutro o moderatamente espansivo, causa la riduzione dei costi e l’aumento dei profitti e del potere d’acquisto dei possessori di veicoli a motore.

Le dinamiche dell’offerta sono state fortemente influenzate dalle nuove tecnologie del ‘fracking’ (frantumazione delle rocce con iniezioni d’acqua ad alta pressione) utilizzate negli Stati Uniti per l’estrazione di petrolio da scisti bituminose, in giacimenti già esauriti oppure non redditizi con le vecchie tecniche. Con l’utilizzo di questa tecnica, che ha un notevole impatto ambientale, gli USA hanno quasi raddoppiato in 6 anni, la produzione di greggio, passata da 4,7 milioni di barili al giorno (mbg) nel 2008 agli attuali 8,9 mbg.

Produzione-USA-petrolio
Di converso le importazioni di greggio negli USA sono quasi dimezzate, da circa 6mbg a meno di 3 mbg. Le raffinerie USA hanno acquistato il petrolio da Texas e North Dakota anziché da Nigeria, Angola, Algeria, Colombia, Brasile ecc. i quali paesi hanno allora cercato sbocchi in mercati alternativi offrendo petrolio a prezzi scontati soprattutto in Asia dove i consumi sono ancora in espansione.

New oil equation

I mercati europei, stagnanti, riprendevano inoltre ad assorbire (soprattutto l’Italia) petrolio dai terminali libici di Es Sider e Ras Lanouf, riaperti dai “ribelli”, accrescendo la pressione dell’offerta. La Nigeria ha iniziato a mandare le sue petroliere in Cina. Sul lato del Pacifico anche la Colombia ha seguito la stessa rotta. L’Arabia Saudita, per impedire che paesi come Nigeria e Colombia conquistino stabilmente quote del mercato cinese dove il boom automobilistico assorbe quantità crescenti di petrolio e derivati, ha cominciato a offrire sconti alla Cina.

Slowing-the-flow

A quel punto si è aperto lo scontro nell’OPEC, l’associazione di alcuni dei maggiori paesi esportatori di petrolio il cui scopo è quello di tenere alti i prezzi riducendo l’estrazione.

I paesi OPEC con più alti costi di estrazione e/o finanziariamente deboli, quali Venezuela, Iran, Algeria volevano che il cartello esercitasse la sua missione di regolatore dei prezzi, riducendo la produzione, ma non erano disponibili a sobbarcarsi una quota significativa dei tagli. I paesi del Golfo, guidati dal ministro saudita del petrolio, Ali al-Naimi hanno prevalso sostenendo che occorreva fare la guerra allo “shale oil” americano, decidendo di lasciare la produzione immutata a 30 mbg anche a costo di far cadere ulteriormente i prezzi. È bastata la decisione in tal senso a Vienna a fine novembre per far cadere il prezzo del petrolio di 7 dollari al barile in un giorno, seguito da altre flessioni.

Il calcolo dei sauditi va visto nel medio periodo: una caduta dei prezzi mette fuori mercato i giacimenti marginali, quelli cioè con i più alti costi di estrazione, convenienti solo con prezzi alti del petrolio. La caduta dei prezzi farà crollare soprattutto gli investimenti nel fracking.

Il crollo del prezzo del petrolio è quindi un’arma strategica usata dai sauditi nella guerra non dichiarata contro i fracker americani, molti dei quali ora passano da lauti profitti alla perdita. Per molti di questi protagonisti del nuovo boom americano, che da soli hanno effettuato un quarto degli investimenti complessivi, si prospetta il fallimento, mentre i loro titoli stanno crollando. L’Economist sintetizza così la guerra tra i nipoti dei beduini e dei cowboy: “L’Arabia Saudita … ha chiarito che sopporterà prezzi più bassi allo scopo di fare alle finanze delle compagnie dello shale oil (le compagnie petrolifere che hanno investito nel fracking) quello che il fracking fa alle rocce”.

Data la breve durata della produzione dei loro pozzi, con una forte riduzione dei nuovi investimenti la produzione USA cesserà di aumentare e si ridurrà, ma probabilmente ciò non basterà a riportare i prezzi di mercato su valori elevati per parecchi mesi o anni, a meno di una forte ripresa dei consumi petroliferi a seguito del crollo dei prezzi.
I sauditi mirano a schiacciare quella che Marx chiama la rendita assoluta (risultato del fatto che l’estrazione può essere tenuta sotto il livello della domanda, facendo quindi salire il prezzo per tutti i produttori, anche quelli marginali), e lasciare per un certo periodo solo la rendita differenziale, di cui godono i produttori con i costi di estrazione più bassi. I sauditi con costi di estrazione intorno ai 5-6$ per barile vedono la loro rendita dimezzata da oltre 100 a 50 $ al barile, mentre produttori marginali con costi sui 45 dollari riescono sì e no a realizzare i profitti per ‘remunerare’ il capitale investito, e vedono azzerata una rendita che prima superava i 50$ per barile; infine chi avesse costi superiori a 50$ va fuori mercato, e le banche o i fondi che hanno fornito loro i capitali rischiano grosse perdite. I sauditi, con 900 miliardi di dollari di riserve accumulate, possono resistere ad anni di bassi prezzi del petrolio, per rialzarli quando i maggiori concorrenti saranno stati ridimensionati.

Per i lavoratori dopo un breve sollievo dato dal calo del prezzo di benzina e gasolio (che incide meno in Europa, dove il 70% è costituito da imposte, rispetto agli USA, dove non è tassata), c’è da aspettare che gli Stati recupereranno presto lo sgravio con nuove tasse, e i padroni con la ‘reflazione’ senza aumento dei salari. Non ci sono regali dagli sceicchi per i proletari, solo con la lotta possiamo difendere le nostre condizioni.

Se osserviamo invece il lato della domanda, ossia il consumo di petrolio e derivati, dall’inizio dell’ultima crisi nel 2008, essa ha riflesso la divaricazione tra la crescita dei paesi emergenti e in sviluppo, la più lenta ripresa USA e la stagnazione europea.

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Il grafico sopra mostra le variazioni percentuali dei consumi petroliferi 2008-2013, quello in basso le variazioni assolute in mbg, che riflettono i diversi “pesi” delle varie aree. L’Asia-Pacifico copre quasi tutto l’incremento mondiale di 5,2 mbg, ma anche il Medio Oriente e l’America Latina hanno espanso significativamente i consumi, mentre l’Europa li ha notevolmente ridotti.

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Nel 2014 la IEA, l’organizzazione internazionale per l’energia, ha rivisto tre volte al ribasso le previsioni di consumo, da +1,4 mbg a 0,7 mbg, a seguito del rallentamento dell’economia rispetto alle previsioni, e anche a una contrazione dei consumi nel Sud-Est asiatico in seguito alla svalutazione delle monete che aveva provocato un aumento del prezzo della benzina. Questo dimezzamento della crescita dei consumi, mentre la produzione continuava ad aumentare ha favorito il crollo del prezzo, di fronte alla indisponibilità dell’OPEC di farsi carico di contenere la produzione mentre altri paesi, USA in testa, l’aumentavano.

I prossimi anni a partire dal 2015 saranno quindi probabilmente anni di petrolio ‘a buon mercato’ (anche se sempre superiore al suo valore di produzione), in attesa che la contrazione degli investimenti porti di nuovo la produzione al di sotto dei consumi e permetta un nuovo ‘shock’ petrolifero. L’industria automobilistica ne sarà avvantaggiata, insieme a quella chimica e a quella manifatturiera e ai servizi in generale, mentre subiranno pesanti contraccolpi non solo i produttori di mezzi di produzione per l’industria petrolifera, ma anche i fornitori di impianti, macchinari e beni di consumo ai paesi petroliferi.

L’Europa e il Giappone dovrebbero avvertire una lieve spinta espansiva, mentre Russia, Venezuela, Iran e Nigeria tra gli altri vedranno fortemente compromesse le loro condizioni finanziarie, e potrebbero entrare in recessione – per la Russia anche a causa delle sanzioni occidentali.

Il capitalismo si conferma un sistema anarchico, nel quale sia i rapporti uomo-uomo che i rapporti uomo-natura sono determinati dagli interessi dei centri finanziari-industriali in lotta tra loro, rendendo impossibile ogni pianificazione del presente e del futuro.

Se da un lato risultano smentite per l’ennesima volta le teorie mathusiane sull’imminente esaurimento delle risorse del pianeta (le riserve conosciute del petrolio come degli altri minerali continuano ad aumentare), è certo che le riserve di idrocarburi vanno verso l’esaurimento decennio dopo decennio, mentre il ritmo del loro sfruttamento viene dettato non da un piano sociale mondiale, ma da prezzi di mercato che si muovono come schegge impazzite e sono usati come armi nella guerra tra colossi finanziari e tra Stati. Una guerra economica che divampa sempre più spesso in guerra militare, dall’Iraq alla Libia alla Siria ecc.

Per il rovesciamento di questo sistema predatorio, parassitario e distruttivo, per un mondo in cui a rapporti solidali tra gli uomini corrisponda un rapporto armonioso tra la nostra specie e la natura, risolleviamo la bandiera del comunismo internazionalista: proletari di tutti i paesi, unitevi!