LA CRISI DEL ’43 E LA CLASSE OPERAIA

Ottanta anni fa, lo sfasciamento dello Stato italiano durante la guerra imperialista apre un periodo di profonda crisi e prelude alla lotta di Resistenza. Che tipo di Resistenza? Diretta da chi? Indirizzata verso cosa?

La Resistenza in Italia è un fenomeno che va inquadrato nel più complessivo volgersi degli eventi legati agli sviluppi della Seconda Guerra Mondiale, iniziata nel settembre del 1939.

Non possiamo neppure sommariamente richiamare ciò che accade nei primi tre anni del conflitto. Ricordiamo solo che con l’inverno 1942-’43 le sorti della guerra sembrano ormai segnate: le potenze dell’Asse (Germania, Italia e Giappone nel Pacifico) perdono vistosamente terreno e si delinea per loro la sconfitta di fronte alla coalizione degli Alleati (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, alle quali si è aggiunta l’URSS dopo l’invasione tedesca del giugno 1941).

Come si sa, l’Italia è entrata in guerra nel giugno del 1940, credendo di condurre, sull’onda degli iniziali successi tedeschi, una “guerra parallela” in grado di strappare il bottino maggiore pagandolo al prezzo minore. In fondo, la storia dell’imperialismo italiano potrebbe (anche oggi) essere condensata proprio in questa proposizione. Ma le cose vanno diversamente. Il Mediterraneo ed i Balcani, invece di essere le roccaforti dell’Asse nel fronte Sud del conflitto, diventano un incubo per il governo fascista. La Germania nazista deve intervenire in Africa Settentrionale e sul fronte greco per impedire che l’alleato venga travolto e che si apra per essa una minaccia sud-orientale.

La “svolta” decisiva, in Europa, è l’arresto dell’offensiva tedesca in Russia ed il contrattacco dell’Armata Rossa, iniziato con la vittoriosa battaglia di Stalingrado (dicembre 1942).

Soffermiamoci un attimo su questo punto, indispensabile per comprendere tutto il resto; e comunque fatto “nodale” del conflitto, su cui è stata costruita una mitologia ancor oggi in voga.

Dal punto di vista militare, la “tenuta” e la controffensiva russa è decisiva per le sorti della guerra. Ciò è indubitabile. Così come è indubitabile l’enorme l’effetto politico e morale di una popolazione investita dall’orda nazista che non solo resiste ma sconfigge un esercito fino allora ritenuto “invincibile”, adottando anche – teniamolo presente – una tenace, coraggiosa, capillare guerra partigiana nelle retrovie occupate.

Dobbiamo però chiederci in che direzione la Russia di Stalin stia indirizzando questo sforzo bellico immane (costato 20 milioni di morti). Verso la rivoluzione socialista mondiale? Purtroppo la risposta è “NO”. Mosca sta combattendo per respingere gli invasori (grazie anche agli ingenti aiuti dell’imperialismo statunitense) dentro un’ottica politica di spartizione delle aree di influenza e, in proiezione, di assoggettamento di mercati indispensabili per la sua ripresa come potenza euro-asiatica.

Lo si era visto già nell’agosto del 1939, pochi giorni prima dello scoppio della guerra, quando – col Patto Ribbentrop-Molotov – sia Berlino che Mosca si erano garantiti reciprocamente dalle “sorprese”, siglando non solo un Patto di “non aggressione” (cosa impropriamente esaltata, da parte degli stalinisti), come “scaltrezza” del Cremlino) ma anche la spartizione della Polonia e dei Paesi Baltici, un cospicuo pacchetto di aiuti militari, alimentari e di materie prime dalla Russia alla Germania , e addirittura lo “scambio” di prigionieri politici…

Fino a che Hitler, vittorioso sul fronte Occidentale (maggio 1940), per prendersi lo “Spazio Vitale” ad Est, non rompe il “Patto” con l’Operazione Barbarossa, per Mosca la guerra è “imperialista” su entrambi i fronti! E l’indicazione che viene data dall’Internazionale Comunista dal ’39 al ‘41 è quella “classica” (leninista) della trasformazione della guerra imperialista in guerra civile!

Anzi: volendo cercare un “colpevole” esso viene identificato proprio nell’imperialismo anglo-francese…Come ci si può immaginare, tutto ciò crea scompiglio all’interno dei singoli Partiti staliniani; e tra essi ed i partiti socialisti, freschi di quel “Fronte Popolare” contro il pericolo nazi-fascista approntato prima in Francia (1934) e subito dopo in Spagna (1936).

Solo a seguito dell’invasione tedesca la guerra, per Stalin, cambia natura.

Essa diventa “guerra patriottica”, e gli alleati imperialisti occidentali diventano dei grandi “democratici”; con i quali combattere contro i nazi-fascisti in vista di un mondo “migliore”. Nel quadro presentato da Stalin Spariscono così di colpo dalla scena potenze non di meno imperialiste, coloniali, schiavistiche e sfruttatrici come gli USA, la Gran Bretagna e la Francia. Non è un caso che nel maggio 1943 Stalin scioglie il Comintern: è abbandonato, anche formalmente, l’obiettivo della rivoluzione nei paesi imperialisti alleati.

L’URSS è dunque ben dentro una realtà spartitoria altrettanto imperialista come quella dell’Asse Roma-Berlino-Tokyo; cosa che sarà sancita alla conferenza di Yalta fra i tre “grandi” vincitori (Roosevelt, Churchill, Stalin) nel 1945.

Comunque, tornando al teatro di guerra che interessa direttamente l’Italia, ai rovesci in Russia fanno seguito altri avvenimenti, tutti di segno negativo per l’imperialismo italiano. Il fronte russo impantana l’imperialismo tedesco, mentre nel fronte sud si hanno: la caduta della Libia e l’occupazione Alleata di Tripoli (gennaio ’43); la resa delle truppe dell’Asse in Tunisia (13 maggio ’43); la conquista Alleata di Pantelleria (metà giugno) ed infine lo sbarco anglo-americano in Sicilia (10 luglio). Il tutto inframmezzato da pesanti bombardamenti alleati sulle principali città italiane, allo scopo di “staccare” l’Italia dalla Germania. Sono bombardamenti a sfondo terroristico, indirizzati contro la popolazione civile, per seminare panico e destabilizzare il sistema politico. Sintomatico è il bombardamento del popolare quartiere S. Lorenzo a Roma (19 luglio ’43: 719 morti, 1.649 feriti). A visitare il luogo del disastro si reca il papa, non il governo fascista.

Ma solo quattro mesi prima, il proletariato industriale aveva per conto suo assestato un duro colpo al regime fascista, mettendo in campo scioperi di massa nel pieno di una guerra imperialista.

Questo fatto clamoroso (teniamo presente che il fascismo aveva abolito sindacati indipendenti e scioperi, e che nel corso di una guerra lo sciopero è considerato sabotaggio e tradimento), che storici di ogni tendenza considerano “unico” per estensione e tenuta in tutta l’Europa occupata dai nazisti, è reso possibile non tanto dalla influenza e dal peso del PCI nelle fabbriche, quanto dalla insostenibilità delle condizioni materiali da parte di una classe operaia vessata da razionamenti, cottimi, orari di lavoro, penuria di beni di prima necessità, terrorizzata dai bombardamenti, costretta in alcune sue parti a sfollare dalla città.

Il movimento di protesta è in gran parte spontaneo, si diffonde sull’esempio dei pochi che “rompono” l’involucro della paura, sul passa-parola interno alle comunità operaie, sull’emulazione, dopo aver constatato che il fascismo non è poi così forte come mostra di essere…

Tutto comincia a Torino, alla Fiat Mirafiori, il 5 marzo 1943. E in un primo momento l’agitazione coinvolge solo altre due fabbriche: la Rasetti e la Microtecnica. L’arresto di 15 operai, invece di bloccare lo sciopero, lo estende. Nel breve volgere di qualche giorno entrano a loro volta in sciopero altri otto stabilimenti torinesi, poi aziende della provincia, poi ancora l’astigiano, l’alessandrino, il cuneese, la Val d’ Aosta. Dal 17 marzo, quando le agitazioni calano in Piemonte, investono appieno l’area milanese (Falck, Pirelli, Breda), scendendo in Emilia, risalendo nel Veneto (Porto Marghera) e ritornando infine nel vercellese e nel biellese (industria tessile), con le operaie alla testa, le quali chiuderanno il ciclo di agitazioni l’8 aprile.

In totale 200.000 scioperanti, 200 aziende coinvolte, in un mix di scioperi lunghi, scioperi bianchi, fermate di 10’, di 30’, di un’ora…Trenta operai arrestati e 12 deferiti al tribunale Speciale. Alla fine, si arriverà complessivamente all’arresto di almeno 2.000 operai tra i mesi di marzo e maggio.

Più di un mese di lotte operaie con la guerra in casa!

Le richieste sono: una indennità di sfollamento di 192 ore (rivendicata in prima battuta solo per gli sfollati, poi per tutti i lavoratori); indennità di carovita, aumenti salariali e delle razioni giornaliere. Sono rivendicazioni “economiche”, “immediate”, ma che hanno direttamente un forte impatto politico, contro la guerra ed il clima di guerra. Per evidenti motivi. Non ultimo proprio la lotta stessa, il metodo di lotta (sciopero prolungato e diffuso), che mina irreparabilmente quel clima di “sottomissione” delle masse che è sempre indispensabile ai briganti imperialisti, soprattutto in periodo di guerra, per giungere ai loro scopi.

Non a caso Mussolini stigmatizzerà aspramente l’accaduto, rovesciandone la responsabilità sulle “incertezze” e le “titubanze” del PNF in merito alla prevenzione ed alla repressione dell’evento. Il governo fascista farà solo parziali concessioni ed il lavoro riprenderà quasi regolarmente.

Ma: il dado è tratto! Del proletariato italiano non ci si può fidare. Questa è la conclusione che traggono non solo i fascisti, ma tutta la borghesia italiana, gli apparati dello Stato, la Corona ed il relativo codazzo delle autorità poliziesche e militari.

Dagli scioperi del marzo ’43 il PCI (l’unico partito minimamente presente in forma organizzata nelle fabbriche) potrà costruire una rete di fiduciari decisamente più larga e radicata rispetto a quella di partenza.

Seppur vada smitizzato il racconto – tramandato dalla sua vulgata “resistenzialista”- in base al quale il partito, già da allora, sarebbe l’espressione delle punte più “avanzate” del proletariato, esprimendone appieno le più profonde aspirazioni.      

Romolo Gobbi (dal quale pur vanno prese le distanze per alcune tesi che, a loro volta, minimizzano troppo il ruolo del PCI), lavorando su dati di prima mano rinvenuti nell’archivio della Direzione del PCI torinese, già nel 1972 arriva alla conclusione che in realtà, in occasione di questi scioperi, non vi fu alcun “sincronismo” (frutto di un’abile regia del PCI) tra le fabbriche torinesi. Non vi sarebbe negli archivi traccia nemmeno di un volantino, ad esempio, che indichi l’agitazione per il 5 marzo.

Non solo: tra il 20 febbraio (data del rientro del dirigente del PCI Umberto Massola nel capoluogo piemontese) ed il 5 marzo, continua il Gobbi “è inverosimile che la parola d’ordine dell’agitazione sia stata fatta circolare dagli 80 comunisti della Mirafiori a tutti i 20.000 operai dello stabilimento.” Tra l’altro, va ricordato, in condizioni di assoluta clandestinità. (Vedi: R. Gobbi: “Una revisione della Resistenza”, Bompiani-1999)

Tutto questo discorso per dire che non corrisponde al vero il racconto di una classe operaia italiana la quale, già quattro mesi prima del crollo del fascismo, sia già stata conquistata dal PCI. Neppure limitatamente alle sue “punte” di lotta. Essa è ancora, politicamente, un terreno tutto da occupare.

Quanto e come questo terreno avrebbe potuto essere occupato da forze rivoluzionarie e internazionaliste “operanti” è ancora oggetto di discussione, e non abbiamo qui di certo soluzioni “à la carte”.

Teniamo però ben presente questo dato, che peserà tantissimo poche settimane dopo. Quando – nel giro di quarantacinque giorni – crolleranno prima il ventennale regime fascista e successivamente l’impalcatura centrale dello Stato italiano.

Noi a volte discutiamo molto sulle “condizioni economiche” che devono (dovrebbero) condurre lo Stato borghese ad una profonda crisi. Magari irreversibile. Qualcuno azzarda addirittura ad usare la parola “crollo”. Ma il meccanismo è ben più complesso.

Nel 1943, a guerra in corso, ed a causa principalmente di essa, una tale profondissima crisi politica avviene proprio in Italia. Essa porterà la borghesia nostrana ad un passo dall’abisso. Cosa che non avverrà proprio perché viene a mancare l’intervento “soggettivo” della classe rivoluzionaria. Il tutto, c’è da dire, in una situazione internazionale che da circa un ventennio spinge in senso contrario all’affermazione del socialismo.  

Col giugno-luglio ‘43 vengono ad intensificarsi i bombardamenti Alleati sulle principali città italiane, allo scopo di accelerare lo “sganciamento” dell’Italia dall’alleato tedesco.

E’ inoltre avvenuto lo sbarco alleato in Sicilia senza incontrare una significativa resistenza. Le truppe anglo-franco-statunitensi risalgono (lentamente) la penisola. L’Italia non è considerata (soprattutto dagli americani) un fronte di primaria importanza. Ciò non toglie che le zone “liberate” del Mezzogiorno vengano sottoposte alle leggi di guerra ed al governo militare.

La situazione devastante che investe le campagne ed i centri abitati della Sicilia porta a delle rivolte delle popolazioni, con assalti agli ammassi ed ai magazzini di generi alimentari, a caccia di qualsiasi genere da contrabbandare con cibo (vedi Siracusa e Canicattì il 12/14 luglio. Venti morti tra i civili ed un numero imprecisato di feriti).  

La linea degli Alti Comandi Alleati è così espressa dal generale Alexander, comandante in capo: “Ogni violenza contro gli occupanti è punita con la morte”. Nessuno deve “osare” intralciare il “normale” corso del massacro che sta perpetrandosi tra i proletari dei singoli paesi per soddisfare le mire egemoniche delle rispettive borghesie imperialiste.

Sarà la stessa legge del taglione, su scala ovviamente più allargata e con un tasso di violenza moltiplicato, che i Comandi nazisti imporranno poco dopo nelle parti d’Italia da essi occupate.

La situazione sfugge completamente di mano al governo fascista. Già dalla fine del ’42 le camarille di Corte, parte degli industriali, militari, diplomatici ed alti esponenti del fascismo (Grandi, Bottai, Ciano) vanno cercando approcci tra gli Alleati per “salvare il salvabile”. Per mantenere cioè in piedi la borghesia italiana ed il suo dominio di classe. Per far sì che la catastrofe politico-militare non sfoci in rivoluzioni, o anche solo in rivolte popolari, dall’esito imprevedibile. La borghesia di ogni paese ha fatto tesoro degli insegnamenti del primo dopoguerra…Il prezzo che la borghesia italiana è disposta a pagare è la caduta del fascismo. Per Grandi si dovrebbe “trasformare la guerra fascista in guerra nazionale”, defenestrando il duce e ricorrendo ai fascisti “anglofili”. E’ ciò che avverrà, ma senza il fascismo.

Nella notte tra il 24 ed il 25 luglio, il Gran Consiglio del fascismo, organo supremo di governo, “sfiducia” Benito Mussolini e rimette nelle mani del re Vittorio Emanuele III° le sorti del paese. Dopo l’arresto dello stesso Mussolini, viene subitamente designato nuovo capo del governo il generale Pietro Badoglio. Vicerè in Etiopia, massacratore della resistenza libica attraverso l’uso dei gas, alto papavero del regime appena deposto…un uomo “per tutte le stagioni”.

E’ un colpo di Stato. Caduto il suo capo, afflosciatasi su se stessa l’impalcatura del regime, datisi alla latitanza i gerarchi e la milizia fascista, il paese è attraversato da numerose manifestazioni di giubilo, nell’illusione che la caduta del fascismo significhi la fine della guerra. Ma così non è. Il proclama di Badoglio smorza gli entusiasmi: “La guerra continua a fianco dell’alleato tedesco!”

I gruppi dirigenti dell’imperialismo italiano hanno messo da parte il vecchio e screditato arnese fascista per non essere travolti dai colossi imperialisti che si stanno scontrando sul loro territorio. Cercano di uscire “integri” dalla guerra da loro stessi provocata, allo scopo di poter continuare ad esercitare il ruolo di sfruttatori e di predoni.

Certo, non è facile. Sia per gli Alleati che per i nazisti l’Italia è ormai un campo di battaglia, zona operativa militare, terra di occupazione, e nessuno è disposto a concedere “sconti”.

Il governo Badoglio temporeggia, tratta con entrambi i contendenti. Nel mentre diffonde attestati di “assoluta fedeltà” verso l’alleato germanico (di cui teme, come in effetti avverrà, la dura reazione), non vuole d’altro canto bruciarsi l’opportunità di essere rimorchiato in extremis sul carro dell’ormai certo vincitore anglo-americano.

Nel frattempo: assoluto ordine interno! Che nessuno osi turbare l’operato del nuovo governo, sobillare le masse, fare opera di “sovversione”.  Una circolare del generale Roatta (altro criminale di guerra, Capo di S.M. dell’Esercito) elenca in undici punti le direttive date ai militari italiani. Sono misure draconiane, spietatamente e scientemente antioperaie. Tra di esse: 1) ogni perturbamento dell’ordine pubblico va considerato tradimento. La pietà verso i perturbatori è delitto; 2) ogni movimento di tal genere dev’essere stroncato inesorabilmente in origine; 3) nella repressione dei rivoltosi non è ammesso il tiro in aria. Vanno affrontati come il nemico. Colpire, anche con mortai ecc., come in combattimento; 4) il militare che simpatizza coi rivoltosi, non ubbidisce, vilipendia le autorità, sia immediatamente fucilato.

E’ la stessa logica adottata dai nazisti nello stragismo di massa che riempirà di martiri piazze e vie, campi e montagne d’Italia. Eppure con questi caporioni criminali e guerrafondai, operanti per “il bene della Patria”, qualcuno (il PCI ad esempio) costruirà di lì a poco addirittura dei “governi di unità nazionale”!!!

Detto fatto. In una settimana, dal 26 al 1°luglio, si contano circa un centinaio di morti ammazzati nelle piazze dall’Esercito italiano, più di 300 feriti ed oltre 1.500 arresti.

Il governo Badoglio, pieno di ex fascisti e di militari, rappresenta la continuità dello Stato borghese, nonostante il (traumatico) cambio di regime.

E che il cambio sia “traumatico”, pieno di contraddizioni, di bruschi mutamenti, e non un “pianificato” trapasso da una forma di dominio all’altra, lo dimostra la nuova ondata di lotte operaie che – continuando la guerra coi suoi lutti e le sue rovine – nell’agosto del ’43 investono ancora il Nord industrializzato.

La borghesia italiana pensa a salvare sé stessa, incurante dei disastri che il suo tentennare procura alla popolazione, in primo luogo alle classi subalterne. Anzi: per certi versi essa favorisce tale disastro, che ha l’effetto di demolire, fiaccare, deviare quel potenziale “eversivo” insito nelle condizioni di vita e di lavoro degli sfruttati. 

Ora, tra le rivendicazioni “immediate” degli operai, spunta con maggior evidenza la parola d’ordine: “basta con la guerra! Pace immediata!”  

Il punto è che tale obbiettivo, prodromo del DISFATTISMO RIVOLUZIONARIO, non è fatto proprio da nessun partito. Se si fa eccezione di qualche esigua minoranza rivoluzionaria (bordighista, trotskysta o “stalinista di sinistra”) la quale, per vari motivi su cui non possiamo qui soffermarci, non ha però forza, radicamento e lungimiranza politica da poter incidere sugli avvenimenti.

Il PCI dei quarantacinque giorni, non ancora completamente “togliattizzato”, parla sì di “pace e libertà”; ma indirizzando tali obbiettivi esclusivamente contro la Germania nemica dell’URSS. Ed in funzione “nazionale”. Quando la “nazione”, cioè la borghesia imperialista italiana, come abbiamo visto, non era e non poteva essere fattore di “pace”!

Proprio in agosto gli Alleati intensificano i bombardamenti sulla popolazione civile per accelerare la fuoriuscita dell’Italia dalla guerra (sono 64.354 i morti causati da tali bombardamenti). Milano conta 193 vittime in 10 giorni. Torino ha il 37% degli edifici resi inabitabili.

L’ 8 settembre, sotto pressione alleata, il governo Badoglio proclama l’Armistizio. 

“Vista l’impari lotta e per evitare ulteriori sofferenze alla nazione”, l’Italia “esce” dalla guerra contro gli anglo-americani. Cessa ogni “atto di ostilità” verso questi ultimi da parte delle forze italiane… “Esse però reagiranno a eventuali attacchi di qualsiasi altra provenienza.”

Queste frasi, estratte dal comunicato che Badoglio legge alla popolazione via radio la sera dell’8 settembre 1943, sono un capolavoro di cinismo, doppiogiochismo, sciacallaggio e camaleontismo. Il discorso potrebbe essere definito la sintesi autobiografica della borghesia italiana.

Non si nomina la Germania, ma si fa capire che l’alleato appena piantato in asso “potrebbe” diventare il nuovo nemico! (La guerra alla Germania da parte del nuovo Regno del Sud sarà dichiarata solo il 13 ottobre).

Se ne dovrebbe anche dedurre – perlomeno – che re e governo approntino una difesa militare contro il nuovo nemico… Niente affatto. Se ne scappano tutti a Brindisi, sotto tutela alleata, lasciando nel caos più totale (senza ordini operativi) un milione e mezzo di militari in patria ed altri 900 mila dislocati in Francia e nei Balcani. In balìa della dura reazione tedesca, che mieterà decine di migliaia di vittime.

Ma per il governo Badoglio il primo nemico rimane quello interno: il proletariato. A fianco del proclama appena richiamato, viene varato un decreto (“Memoria 44 O.P.) in cui si ordina agli ufficiali di sparare sui civili qualora questi intendessero impadronirsi delle armi abbandonate dall’Esercito in dissoluzione.

Non vi saranno purtroppo “assalti alle caserme” per procurarsi armi (casomai ai magazzini di generi alimentari), ma “l’armamento del popolo” viene decisamente osteggiato dalle gerarchie militari. Al punto che alcuni generali preferiranno consegnarsi ai tedeschi (vedi Adami Rossi a Torino) pur di non rischiare di alimentare una rivolta armata popolare.  

Conviene notare che in quel momento i nazisti, pur subodorando da tempo la giravolta italiana, e pur presidiando con alcune Divisioni parti del territorio italiano, sono in un rapporto numerico decisamente inferiore. Vuoi per le impellenze del fronte russo, vuoi per il fatto che Berlino ormai vede il fronte italiano come retroterra. Teatro di una ritirata di lungo corso, su cui attestarsi, far pagare cara agli Alleati l’avanzata, e razziare tutto quanto possibile.

Chiaramente, passato qualche giorno dall’Armistizio, e scoperte infine le carte, i tedeschi occupano in poco tempo tutta l’Italia del Centro-Nord, mentre da sud risalgono la penisola  attestandosi sulla cosiddetta “linea Gustav” (che attraversa latitudinalmente l’Italia dalla Campania all’Abruzzo).

Nel fare ciò, accerchiano e disarmano interi reparti dell’Esercito italiano avviandoli al lavoro o alla deportazione (chi non si arrende viene ucciso) e dando la caccia a quelli che riescono a sfuggire alla cattura. Il paese è attraversato da milioni di militari sbandati (la maggioranza senza armi, ma qualcuno se le è portate appresso) che cercano nelle campagne o nei boschi rifugi più o meno d’occasione, abiti civili, cibo, solidarietà variamente espressa.

Ai molti impossibilitati ai ricongiungimenti familiari (per un soldato meridionale è assai arduo traversare il fronte e tornare a casa) si aggiungono prigionieri di guerra fuggiti dai campi di raccolta, disertori di nazionalità aggregate all’esercito tedesco, giovani e giovanissimi che non ci stanno, che intendono reagire. Insieme a qualche militante “politico” che comincia ad aggregarli ed a fornire le prime indicazioni, queste componenti vanno a costituire il retroterra del primo partigianato.

L’8 settembre 1943 segna lo sfascio dello Stato borghese italiano.

Fuggiti i vertici politico-militari, disgregato l’esercito insieme agli apparati amministrativi, giudiziari e polizieschi, innescato nel paese un oggettivo circuito di “attivizzazione” (personale e collettiva) che va dal “si salvi chi può” alla volontà di reagire ad un mondo ingiusto ed oppressivo…possiamo dire che esistono alcune condizioni favorevoli per la rivoluzione proletaria.

In primo luogo lo sfasciamento dello Stato centrale. Poi il coinvolgimento diretto di tutta la popolazione italiana nella guerra (il fronte diventa il pianerottolo di casa). L’armamento spontaneo di gruppi “ribelli” (in gran parte operai e contadini). Infine, ma non per ultimo, una classe operaia ricettiva, che ha rotto gli argini. Una classe già in movimento: “naturalmente” contro la guerra e disposta a qualunque sacrificio pur di farla cessare. Naturalmente quest’ultimo fenomeno riguarda ancora settori di avanguardia della classe e non la maggioranza di essa. L’opzione della rivoluzione comunista è ancora molto “in divenire”. Ma ciò non toglie che vi siano le basi per lo sviluppo di una linea rivoluzionaria tra le masse operaie.

Vi sono però allo stesso tempo anche condizioni sfavorevoli alla rivoluzione di cui ci occuperemo in altra occasione.

Nel dopoguerra ed anche oltre, il PCI staliniano “giustificherà” il suo rifiuto di scendere sul terreno della lotta rivoluzionaria in quegli anni cruciali, tirando sempre in ballo l’argomento che ciò non era possibile in quanto “c’erano gli americani”, i quali avrebbero represso nel sangue tentativi di tal genere. A tal riguardo si evocherà sempre lo “spettro greco”, dove Stalin abbandona i comunisti di quel paese ad una dura repressione concertata tra la Gran Bretagna e la borghesia nazionale. Il punto è che ciò avviene non perché la rivoluzione sia “impossibile”, ma in omaggio agli impegni siglati da Mosca a Yalta. In base ai quali la Grecia era stata assegnata all’area di influenza dell’imperialismo anglo-americano.

Nulla era ovviamente scontato; ma si può ribattere che allora, nell’autunno del ’43, in piena guerra, coi fronti in movimento, con la classe in sofferenza ed in movimento, con lo Stato frantumato, con la “vecchia” classe politica screditata ed invisa, I GIOCHI NON ERANO PER NULLA FATTI!  Secondo noi si poteva e si doveva condurre una politica rivoluzionaria e internazionalista anche in quella situazione, e non il collaborazionismo nazionalista.

Del resto, proprio in quei giorni, l’insurrezione di Napoli (dal 28 settembre al 1° ottobre 1943), spontanea, popolare, senza guida politica, avrà la forza di cacciare con le armi le retroguardie del “temuto” esercito nazista, per cadere poi nelle mani di un governo Militare Alleato che non solleverà certo la città dalla miseria e dal degrado della guerra.

A dimostrazione lampante delle potenzialità inespresse dalla lotta e dal sacrificio delle classi subalterne.

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