La nuova assertività cinese: fanta-economia o linea di tendenza?

Vertice APEC 11-11-2014

I grandi mutamenti geopolitici si misurano in decenni, ma a volte episodi contingenti consentono di registrarli o almeno di mettere a fuoco in maniera più chiara i cambiamenti. E’ quello che si può dire degli ultimi incontri internazionali (vertice Asem a Milano il 16 e 17 ottobre, vertice Apec a Pechino il 10-11 novembre, G20 a Brisbane il 15 e il 16 novembre – nota 1), che hanno visto la Cina nel ruolo di protagonista. Questi summit sono soprattutto passerelle mediatiche nel corso delle quali i grandi della terra emettono altisonanti proclami pieni di buoni propositi opportunamente vaghi, mentre nelle retrovie, negli incontri bilaterali, si firmano più o meno sostanziosi contratti commerciali, si stipulano accordi o si definiscono compromessi sulle materie più disparate. Trattative e accordi vengono resi noti solo laddove sono utili a livello propagandistico.

Il Forum Apec (Asia Pacific Economic Cooperation), che riunisce 21 paesi del cosiddetto “anello del Pacifico” è stato una sorta di continuazione ideale del summit Apem (Asia-Europe Meeting) tenutosi a Milano in ottobre.
Vi sono stati firmati accordi significativi, come quello fra Cina e Filippine sulle questioni marittime o quello commerciale fra Cina e Corea del Sud (rimozione del 90% dei dazi). Dopo dieci anni di trattative la Cina concede all’Australia un accesso privilegiato al proprio mercato, con la rimozione del 95% dei dazi, e in cambio l’Australia rimuoverà gli ostacoli agli investimenti diretti cinesi nell’agricoltura e nell’agroalimentare; il cambio fra le due monete verrà stabilito indipendentemente dal $. Usa e Cina si sono accordati sulla limitazione dei gas-serra, l’aumento dei visti fra i due paesi, l’eliminazione delle tariffe doganali per un’ampia gamma di prodotti elettronici (dai video games ai PC, dagli strumenti medici ai GPS e ai semiconduttori di seconda generazione). Tenuto conto che gli accordi Cina-Usa sui prodotti elettronici andrà principalmente a vantaggio della Cina che è il primo esportatore mondiale di questi prodotti, il governo cinese ha offerto in cambio una cauta rivalutazione (dello 0,37%) del renminbi sul dollaro, che darà un piccolo vantaggio agli esportatori americani. Inoltre le due borse di Hong Kong e Shanghai vengono “connesse” e questo apre agli investitori esteri la possibilità di investire potenzialmente nelle aziende cinesi. Si calcola che in breve la borsa Shanghai-Hong Kong sarà seconda solo a quella di New York. (WSWS 14 nov.)

Ma tutti questi risultati sono stati oscurati dal mega accordo russo-cinese sul gas firmato alla vigilia del summit il 9 novembre, il secondo dopo quello di maggio da 400 miliardi di $. Il grande rilievo mediatico, certamente giustificato dalla rilevanza economica, è sostanzialmente dovuto al fatto che conferma la recente partnership Russia-Cina. Questo inedito asse s’impernia a breve sull’energia, ma in prospettiva prevede una collaborazione significativa in campo finanziario: ad esempio la banca russa VTB ha annunciato che potrebbe lasciare la borsa di Londra per quella di Shanghai, tenendo conto che in questo momento gli Usa stanno inducendo una forte svalutazione del dollaro sul rublo. Anche sul piano della collaborazione militare sono previsti sviluppi, ad esempio la fornitura da parte russa del sistema di difesa aerea S-400. Tanto che le riviste specializzate Usa si chiedono se il perno economico russo non si stia spostando dall’Europa all’Asia (cfr. Asia Pathways 21 novembre).
Attualmente l’interscambio con l’Europa vale per la Russia 440 miliardi di $, mentre l’intero interscambio con l’Asia pesa assai meno (163 miliardi di $, di cui 90 con la sola Cina). Ma i recenti accordi sul gas potrebbero cambiare le cose. L’Europa è anche il più importante investitore, con il 75% di tutti gli investimenti diretti in Russia (pari a uno stock di 250 miliardi); nel 2012 il flusso di FDI europei è stato di 40 miliardi di $ a confronto di 500 milioni della Cina e 12 milioni della Corea del sud. Di suo la Russia investe in EU 100 miliardi di $ (come stock) e 1,5 miliardi in Cina.
La “guerra delle sanzioni” contro la Russia in seguito alla crisi ucraina si traduce, vistosamente, in un riavvicinamento sino-russo, una svolta epocale come lo fu nel 1972 la diplomazia del ping pong e l’allora avvicinamento Cina-Usa in funzione anti-russa. Ma gli effetti a breve non possono che essere relativi da un punto di vista complessivo (la reale fornitura di gas russo alla Cina partirà dal 2018), anche se la stampa in Italia si è incaricata di esprimere allarmistiche preoccupazioni relative (vedi il Giornale “Basta sanzioni alla Russia, rischiamo l’inverno al gelo”). Naturalmente la Russia ha tutto l’interesse ad avvalorare tesi come questa, ma l’evoluzione del rapporto Cina-Russia è influenzato soprattutto dal sempre maggior spostamento della produzione e quindi dei consumi energetici verso l’Asia e in particolare la Cina. (Asia Times 14 novembre)

La Cina ha rilanciato la Free Trade Area of the Asia-Pacific (FTAAP), ipotizzata nel 2006 come sintesi delle varie cordate di libero scambio e cooperazione esistenti in Asia (dall’Asean al FTA, dal RCEP guidato dalla Cina al TPP) e comunque sulle due sponde del Pacifico. Per ora la FTAAP è solo una ipotesi ambiziosa a lunga scadenza, che potrebbe inciampare in qualsivoglia ostacolo e non realizzarsi mai. Ma esprime la netta volontà cinese di bloccare il tentativo Usa di frammentare l’area Asia-Pacifico realizzando aree di libero scambio da cui sono escluse Cina e Russia. La Cina vuole riaffermare la sua centralità in Asia, del resto la è attualmente il primo partner commerciale di 17 dei 23 altri “vicini asiatici” (New York Times 10 novembre). A Pechino il governo cinese ha proposto di realizzare e coordinare studi che approfondiscano il potenziale economico di una integrazione regionale asiatica, di preparare funzionari che analizzino costi e benefici, stendano proposte e consultino gli investitori (prossimo appuntamento fine 2016). Non ha ottenuto una data precisa di realizzazione, ma un impegno collettivo dei membri Apec. Quindi una mezza vittoria per Pechino che ha ottenuto anche una dichiarazione favorevole dell’India, che al vertice Apec è presente solo come osservatore, mentre sembra intenzionata a entrare nella FTAAP.

La FTAAP nel disegno cinese dovrebbe rispondere a criteri di liberalizzazione più morbidi e diluire in un consesso più ampio la Trans-Pacific Partnership (TPP), promossa dagli Usa.
Il Peterson Institute di Washington ha calcolato che la Cina perde 100 miliardi di $ di esportazioni mancate all’anno per il fatto di essere esclusa dal TPP. Composta da 12 paesi non ha avuto un percorso lineare per i contrasti interni su agricoltura e proprietà intellettuale, ma resta uno degli obiettivi primari dell’amministrazione Obama, che però ha trovato molte resistenze soprattutto nei parlamentari del Partito democratico, che hanno denunciato come le clausole in discussione del TPP sono tenute segrete a Congresso e cittadini americani, mentre sono rese note a società private come Halliburton, Chevron, PHRMA, Comcast e altre. Il Giappone ha aderito nel 2013, ma resta assai riluttante ad aprire il suo mercato agricolo, la Corea del sud non ha aderito per non mettere a rischio la sua industria automobilistica. Infine particolarmente criticato il tentativo Usa di garantire i diritti di proprietà intellettuale sui medicinali che renderebbero molti farmaci inaccessibili ai più poveri e escluderebbero dall’assistenza gratuita i farmaci generici (vedi l’opposizione di Medici senza Frontiere). Pro TPP sono Bayer Monsanto e Syngenta perché agevolerebbe l’imposizione degli OGM in paesi da cui oggi sono esclusi. Criticata anche la proposta che mette l’interesse degli investitori al di sopra delle leggi dei singoli paesi sul pubblico interesse, ad es. al di sopra delle leggi di protezione ambientale, al di sopra dei contratti di lavoro, delle norme igieniche sugli alimentari e delle norme di sicurezza sul lavoro. Nei giorni dell’Apec Obama ha tenuto nei locali dell’ambasciata Usa di Pechino una riunione dei membri della TPP, contando molto sui più fedeli paesi latino americani per riaffermare la propria leadership. Ma i mercati di questi paesi sono molto meno appetibile dei mercati asiatici, in cui la cosiddetta classe media (e relativi consumi) sono aumentati di sette volte dal 2000 al 2013 (Economist 15 novembre). Difficile quindi trattenere dentro i ristretti confini del TPP i paesi asiatici. Quindi una mezza vittoria per Obama, che è riuscito a ottenere l’adesione di Giappone e Malaysia ma a prezzo di continui inciampi e rallentamenti.

La Cina ha rilanciato anche la creazione della Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB), con sede legale a Pechino e capitale iniziale di 50 miliardi di $. In luglio, al summit Brics in Brasile, la Cina ha proposto all’India di partecipare al raddoppio del capitale (fino a 100 miliardi di $); l’India ha accettato, diventando così il secondo sottoscrittore. Sarebbe la risposta allo “strapotere” del FMI, della BM e della Asian Development Bank, anch’essa espressione delle vecchie potenze (UE, Usa Giappone). Gli Usa sono riusciti per ora a bloccare la riforma delle quote di voto nel FMI che avrebbe riconosciuto ai Brics un peso maggiore, in corrispondenza di maggiori versamenti finanziari. La Cina risponde con la creazione di questa banca, che comincerà a funzionare nel 2015; l’adesione dell’India e della Malaysia ne garantisce il carattere “regionale”.
D’altronde India e Cina condividevano già la partecipazione alla Brics Developement Bank (BDB), fondata quest’anno e che ha la sua sede legale a Shanghai. Se il presidente della AIIB è il vice ministro cinese delle Finanze Jin Liqun, la BDB sarà guidata da un indiano.
Alla firma dell’accordo di fondazione della AIIB, il 24 ottobre 2014, hanno aderito 21 paesi. Gli Usa sono riusciti a impedire l’adesione di Australia, Indonesia and South Korea. Il Giappone per ora non ha firmato, ma nemmeno escluso la sua adesione.
Quando la banca comincerà a funzionare, la Cina diventerà un finanziatore alternativo per la fame di infrastrutture delle economie asiatiche in sviluppo, un fattore di grandissima influenza strategica. L’accumulo di capitali realizzato nell’ultimo decennio glielo permette (il PIL cinese è passato da 1200 miliardi di $ nel 2000 a 9 mila miliardi nel 2013. Nello stesso periodo l’export cinese è passato da 266,1 miliardi di $ a 2200, mentre gli investimenti all’estero sono passati dai 2,1 miliardi di $ del 2003 ai 75 miliardi dei primi nove mesi del 2014 (da Bloomberg News 7 novembre)
A questa disponibilità finanziaria corrisponde una richiesta altissima dei paesi asiatici le cui necessità finanziarie sono calcolate in circa 8 mila miliardi di $; BM, FMI e Asian Development Bank si sono mostrate sorde a queste esigenze (da Economy Watch 3 novembre)

Last but non least è stata annunciata la canalizzazione di 40 miliardi di $ per le due nuove “vie della Seta” (la Silk Road Economic Belt e 21st Century Maritime Silk Road) una versione cinese dei grandi corridoi progettati e non realizzati dagli Usa nel decennio scorso: complesse infrastrutture polifunzionali che prevedono in parallelo autostrade, ferrovie ad alta velocità, canali, punteggiati da porti e aeroporti, oleodotti e gasdotti, cablaggio di fibra ottica e telecomunicazioni, che collegherebbero la Cina a Russia, Iran, Turchia e India e tutti questi paesi all’Europa, con terminale sud a Venezia e terminale nord a Berlino-Rotterdam. E’ questa la vera risposta cinese alla volontà di leadership americana. Il costo finale delle due vie sarebbe di 21 mila miliardi di $.
Se realizzate le Silk Roads garantirebbero l’integrazione della Cina a Ovest e a Sud, l’accesso alle fonti di energia e ai minerali dell’Asia centrale, al cibo del sud-est asiatico, ai porti dell’Oceano indiano e ai mercati europei. L’Eurasia dalla Siberia al Mar della Cina, al Mediterraneo al Mare del Nord non sarebbe più solo un termine geografico ma diventerebbe realtà economica. Questo progetto non è del tutto coerente con un asse russo-cinese stretto, perché queste “vie della seta” costeggerebbero la Russia più che attraversarla; la Russia è già collegata all’Europa per il suo export energetico, ma la Cina ha bisogno di uno sbocco indipendente in Europa per le sue merci.

Al vertice Apec c’è stato un accenno di disgelo fra il premier giapponese Shinzo Abe e il Presidente Xi Jinping, inevitabile al di là della diatriba per le isole (Diaoyu in cinese, Senkaku in giapponese), perché la contesa ha un’importanza propagandistica a uso interno per i due leader, ma assolutamente irrilevanti nella scala delle priorità dei due paesi che non hanno alcun interesse in questa fase a uno scontro militare in Asia. Gli eccessi propagandistici tuttavia renderanno complessa la ricucitura dei rapporti sino-giapponesi (la stampa cinese ha soprannominato Abe “Lord Voldemort” e nel 2012 durante le manifestazioni anti-giapponesi, sono state bruciate auto e negozi), ma i due ministri degli esteri hanno già aperto un canale diplomatico e lo stesso Abe si sarebbe impegnato a non ripetere le visite alle tombe dei criminali di guerra giapponesi nel cimitero di Yasukuni. Di fatto questo disgelo rende inconsistente l’ipotesi Usa di una alleanza militare India-Giappone per contenere la Cina (Asia Times 10 novembre). Xi Jinping ha già stretto ottimi rapporti con il nuovo governo indiano di Modi durante la sua recente visita, imperniata su investimenti, infrastrutture ecc.
Ha giovato all’intesa la crescente preoccupazione di entrambi i governi per la ripresa delle attività dei gruppi islamici estremi in Pakistan, gruppi che minacciano la stabilita nel Xinjiang cinese, ma anche al confine con l’India.

C’era un convitato di pietra al vertice Apec ed era il Medio Oriente. Fino a pochi mesi fa la Cina ha tacitamente accettato la pax americana in Mesopotamia e nel Golfo Persico, pur aumentando sempre più i suoi investimenti, ma anche la dipendenza dal petrolio del Golfo. Il collasso della Siria e dell’Iraq e il recente ruolo destabilizzatore dell’ISIS ha prodotto però di recente un forte cambiamento nell’atteggiamento cinese: la valutazione è che la politica estera americana, vuoi per incompetenza, vuoi per scelta deliberata, sta producendo il caos nella regione e quindi sta danneggiando direttamente gli interessi cinesi. I Cinesi non sono contrari a una politica di bilancia fra le potenze regionali di Golfo e Medio Oriente ( e infatti salomonicamente vendono armi all’Iran e all’Arabia Saudita e importano energia da tutti), ma nell’intento di realizzarla, gli Usa hanno rafforzato gli aborriti terroristi islamici; quindi i cinesi prendono in considerazione la possibilità di un intervento politico diretto.

L’Europa era forzatamente assente al vertice Apec, come gli Usa lo erano al vertice Apem, tutti i protagonisti del triangolo UE-Usa-Cina erano invece presenti al G20 di Brisbane svoltosi a pochi giorni dal vertice Apec.
Già a Milano la delegazione tedesca aveva prestato molta attenzione al progetto delle Silk Roads; che è stato oggetto di specifici incontri a porte chiuse al G20. Uguale interesse è stato dedicato al progetto in Italia, tanto che Renzi ha avocato a sé i colloqui con gli ospiti cinesi a Milano e poi i contatti a Brisbane.

Nel corso del G20 Obama ha tentato la rimonta mediatica, sfruttando la presenza dei paesi europei e soprattutto dell’ospitalità australiana. Lo scopo era quello di mettere sotto accusa la Russia per la crisi ucraina. Obama in realtà è riuscito a coalizzare dietro di sé solo Gran Bretagna, Giappone e Australia (che, non va dimenticato ha perso 38 cittadini in Ucraina dell’Est per l’abbattimento dell’aereo MH17) e ha incassato dichiarazioni dure della Merkel verso la Russia.
Nella sostanza però nulla è cambiato. Obama ha anche attaccato l’Europa per la sua modesta crescita, tanto che rischia un “decennio perduto” come il Giappone. Anche in questo campo al di là delle dichiarazioni ufficiali di puntare a uno sviluppo mondiale del 2,1% entro il 2018, non sono state prese decisioni rilevanti.
In cambio i cinque paesi Brics si sono riuniti e hanno stilato un duro comunicato contro gli Usa che impediscono la riforma del FMI (cioè la revisione del peso del voto di Cina, Brasile, India ecc. sulla base del loro nuovo potenziale economico).

I progetti cinesi sono una ambiziosa sfida complessiva alla strategia di Obama che vede l’Asia come teatro di massimo interesse nazionale per gli Usa. La Cina aspira a rafforzare i legami eurasiatici da un lato e interpacifici dall’altro, vuole mettere in discussione il ruolo Usa di arbitro della politica internazionale. A Pechino Xi Jinping ha dichiarato in modo esplicito che “garantire la sicurezza dell’Asia è compito degli asiatici!” quasi a voler ribadire che se il ventesimo è stato il secolo degli Usa, il ventunesimo sarò il secolo dell’Asia. Un dato significativo è che nel periodo 2004-2008 l’Asia pesava per il 40% sull’import mondiale di armi; fra 2009-2013 è passata al 47%.
Ci vorranno anni tuttavia perché questi piani incidano significativamente sullo status quo.

Nota 1 – per avere una idea dell’appartenenza di ciascun paese alle numerose sigle citate nell’articolo vedi il quadro sinottico:

Asia-associazioni