La povertà in Italia (e nel resto del mondo capitalistico) è di classe

Il rapporto Caritas sulla povertà in Italia integra i dati analoghi pubblicati da Ocse, Eurispes, Istat e conferma che in Italia, ottavo paese nel mondo per PIL, non solo i poveri sono raddoppiati in 6 anni, ma anche che la povertà è di classe.

L’Istat, sempre filo-governativa, ha fatto del suo meglio per inserirsi nella campagna di “ottimismo” del premier Renzi, valutando che nel 2014 sul 2013 “la povertà non è aumentata”. Caritas, che risponde al papa e a un disegno di più ampio respiro, sottolinea che fra il 2007 (ultimo anno pre-crisi) e il 2013 i “poveri in senso assoluto” (cioè coloro che vivono sotto uno standard di vita minimamente accettabile) sono passati dal 3,1% al 7,3% della popolazione, quindi sono più che raddoppiati.
Le percentuali magari non colpiscono, ma vediamo i numeri assoluti: nel 2014 erano in situazione di povertà assoluta 1 milione e 470 mila famiglie (4,1 milioni di persone). Ai poveri assoluti vanno aggiunti coloro che sono in situazione di povertà relativa, altre 2 milioni 654 mila famiglie, corrispondenti a 7,815 milioni di persone. Sommando i due dati arriviamo a circa 12 milioni di persone, quasi il 20% dei residenti.

POVERTA’, LAVORO e DISEGUAGLIANZA
Pur nel suo impianto caritativo, il rapporto ci consente di individuare in quali categorie sociali si trovano i poveri assoluti. Gia’ nel decennio precedente Bankitalia ci aveva informato che non si trattava solo di barboni, emarginati o di anziani con la pensione minima, ma di normali famiglie, prevalentemente del sud, monoreddito, con più di tre figli. Oggi i poveri sono spesso lavoratori dipendenti, con al massimo due figli, che vivono sia nei piccoli centri del sud come nelle aree metropolitane del centronord.
Il lavoro, osserva il rapporto, “ha cessato di essere una garanzia contro la povertà”, l’aumento dei lavoratori poveri o a rischio di povertà, è una tendenza presente a livello europeo a partire dalla fine degli anni ’90, e, aggiungiamo noi, anche da prima negli Usa (milioni di lavoratori dipendenti non precari che erano homeless perchè non in grado di pagare l’affitto).

E il Sole 24 ore del 21 maggio 2015, citando il rapporto OCSE, afferma che i “working-poor” – cioè quanti hanno un lavoro, ma un reddito sotto la soglia di povertà – arrivano in Italia al 12%, mentre la media Ocse è dell’8,7 per cento. L’articolo evidenzia come tra il 2007 e il 2011 il calo del reddito da lavoro è legato principalmente al diffondersi dei contratti atipici con retribuzioni inferiori rispetto ai contratti tradizionali. Un fenomeno specifico dell’Italia,dove il 40% degli occupati nel 2013 lavorava con contratti atipici, contro il 33% medio Ocse. Tra il 1995 e il 2007 mentre l’occupazione con contratti standard è salita solo del 3% in Italia, contro il +10% medio Ocse, i contratti atipici sono aumentati del 24%, il dato più alto dell’Ocse la cui media è del 7,3%. I lavoratori con contratti atipici in media in Italia guadagnano il 25% in meno l’ora rispetto a un lavoratore “tradizionale”. Il 53% degli atipici è il principale percettore di reddito di una famiglia per questo spesso le loro famiglie si trovano sotto la soglia di povertà. L’Italia è quindi, dopo la Grecia, il Paese Ocse con la maggiore porzione di famiglie di lavoratori atipici a rischio povertà, il 37% contro il 27% medio Ocse. Per carità di patria il giornale confindustriale non cita quanto incida sulla povertà il lavoro in nero, almeno 3 milioni di lavoratori secondo una famosa analisi pubblicata dalla Cgia di Mestre, l’uso sempre più diffuso degli straordinari non pagati o l’abuso di stage semi o completamente gratuiti, di cui il recente Expo ci ha dato prova.

Tutti abbiamo sott’occhio il caso di lavoratori sfrattati per la perdita del lavoro, ma oggi anche chi il lavoro ce l’ha rischia l’indigenza. Aumenta anche il senso di precarietà: secondo il rapporto Eurispes (gennaio 2015) “è in crescita il numero di coloro che non si sentono in grado di dare garanzie alla propria famiglia con il proprio lavoro (64,7%)”: il 28% di chi lavora deve ricorrere all’aiuto di genitori e parenti per sopravvivere.

Ovviamente la povertà assoluta non compare nelle famiglie con capofamiglia imprenditore, libero professionista o dirigente (dati Istat), mentre sale al 9,7% nelle famiglie operaie e al 16,2% se il capofamiglia è disoccupato. E’ ancora più diffusa se il capofamiglia è un lavoratore straniero.

I dati Ocse ci dicono che la povertà colpisce di più i bambini che gli adulti, i giovani più dei 45-54enni, i lavoratori più che i pensionati. In Italia tra gli adulti il tasso di povertà è del 12,1% , fra i giovani tra i 18 e i 25 anni del 14,7% , fra i bambini del 17%. (la media OCSE è nell’ordine del 9,9%, del 13,8% e del 13%)
Secondo la Fondazione Banco Alimentare in Italia 14 famiglie su 100 non possono permettersi una quantità adeguata di proteine. E sono fra il 6 e il 20%, a seconda delle aree, gli italiani che ricorrono agli ambulatori medici e ai dispensari farmaceutici allestiti per gli stranieri da volontari e associazioni: anche qui non si tratta solo di senza tetto o senza fissa dimora, ma di persone per cui il ticket è proibitivo e le spese dentistiche fuori portata (Manifesto 26 settembre 2015). Datanalysis, nella sua ricerca per l’Osservatorio nazionale sulla salute dell’infanzia e dell’adolescenza (Paidòss), cita 260 mila minori che lavorano come baristi, parrucchieri, ma anche braccianti agricoli e manovali; 30 mila in lavori altamente pericolosi. La crisi e la necessità rendono i genitori compartecipi del loro sfruttamento, mentre i costi elevati dei libri e dei dizionari nella scuola media scoraggiano la frequenza, tanto che l’abbandono scolastico prima del diploma tocca il 18% dei ragazzi (da Controlacrisi 23 settembre 15)

Sempre l’Ocse ci conferma che in linea di tendenza chi è povero diventa più povero, in particolare con la crisi. Il 10% più povero della popolazione in Italia ha accusato un calo del reddito del 4% l’anno tra il 2007 e il 2011, mentre il reddito medio è calato del 2% e quello del 10% più ricco solo dell’1 per cento. Nel 2013 il reddito medio del 10% più ricco della popolazione italiana è pari a 11 volte quello del 10% più povero.

Tutti questi dati ci confermano che nel 21esimo secolo non solo la povertà è di classe, ma aumenta l’impoverimento di chi la ricchezza la produce.
Non stupisce che dati come questi siano cavalcati da chi sostiene (da Salvini a Squinzi ), che visto che abbiamo “i nostri poveri” non possiamo permetterci di accogliere i profughi e gli immigrati. Qualche anno fa si diceva che era immorale spendere tanto in cure mediche per tenere in vita i vecchi, con tanti bambini che “nel mondo” morivano di fame.
In realtà a rendere poveri i poveri, italiani e non, è la voracità di piccoli e grandi borghesi, che sfruttano il lavoro nero, protetti dall’omertà delle istituzioni, e in tutta legalità optano per il lavoro atipico. Per non parlare di chi fa business sulla miseria, come si rivelano i dati di Mafia Capitale.

Nè la Caritas nè l’Ocse, ovviamente si pongono da un punto di vista di classe, tuttavia emettono un impietoso giudizio sul welfare italiano. L’Italia spende nella lotta alla povertà lo 0,1% del PIL (contro la media dello 0,5% nell’area UE). E in questo gli immigrati non hanno nulla a che fare. Esamineremo in altra sede le considerazioni di Caritas sull’intervento pubblico, o meglio il mancato intervento a correzione della povertà.

Ci resta da commentare che l’unica soluzione è che i lavoratori prendano in mano direttamente le proprie sorti organizzandosi e difendendo le proprie condizioni di lavoro.
Facciamo nostre alcune rivendicazioni minime, comuni a buona parte della sinistra sindacale:
– salario minimo di 9 € all’ora
– integrazione del reddito fino a 1200 € al mese
– abolizione dei contratti atipici
– libri gratis nella scuola media
– no al ticket sui farmaci e sugli esami clinici
– no al lavoro gratuito