La sporca caccia al dragone. Contro la campagna commerciale, diplomatica, politica, ideologica e militare anti-cinese

Trent’anni dopo la celebrazione della fine della Guerra Fredda e l’inizio di un nuovo secolo americano, siamo nel pieno di una nuova Guerra Fredda? Sì e no, nel senso che potrebbe anche diventare una guerra rovente …

Il clima delle relazioni internazionali è già da diversi anni segnato dal crescente confronto USA/Cina, con il quale l’imperialismo americano cerca di contenere e bloccare l’ascesa della potenza cinese, con armi economiche, diplomatiche e militari.

Noi denunciamo le iniziative di guerra economica messe in atto dai vari imperialismi occidentali contro la Cina, siano esse volte a colpire l’economia cinese, il suo interscambio commerciale o ad impedire l’accesso alle tecnologie più avanzate, e le vere e proprie provocazioni militari ad opera di Stati Uniti e alleati, che sono non solo minacce, ma preparazioni militari per una possibile guerra contro la Cina.

In particolare, nei paesi europei alleati degli USA nella NATO, è in corso un dibattito sull’atteggiamento da tenere nei confronti della Cina, in una difficile e spesso impossibile mediazione tra gli interessi economici a commerciare con e investire in Cina, un mercato enorme, la rivalità diretta tra le vecchie potenze imperialiste europee e il rampante capitalismo cinese per l’influenza sulle aree ex coloniali, e la forte pressione USA, soprattutto tramite la NATO, per allineare i paesi europei sulla politica di “confronto” verso la Cina (e la Russia).

La nostra opposizione alle politiche imperialiste anticinesi non significa sostegno allo Stato cinese, che rappresenta grandi gruppi capitalistici e finanziari, statali e privati in forte espansione alla scala mondiale, e per questo è sempre più portatore di interessi imperialistici; uno Stato che opprime la classe lavoratrice cinese, privandola della libertà di organizzazione e di lotta sia sul terreno economico che politico, e punendo con il carcere duro quanti hanno osato scioperare contro i capitalisti cinesi. La nostra opposizione alle politiche e alle campagne anticinesi da parte degli USA, della UE e dell’Italia (governo, partiti, mass media) è un passo necessario per combattere le posizioni nazionaliste (anche nella forma europeista) e imperialiste che sono propagandate nel movimento operaio italiano, per promuovere l’unione internazionalista tra i lavoratori di tutto il mondo – con i proletari cinesi che ne rappresentano il reparto più numeroso.

La “Guerra Fredda” combattuta dagli USA contro l’URSS è stata una contesa quarantennale tra le due superpotenze militari, per la spartizione politica del mondo. L’URSS non aveva una base economica minimamente confrontabile con quella degli Stati Uniti, né i capitali per competere sul mercato mondiale, e lo sforzo per mantenere un apparato militare mastodontico portò l’economia capital-statale e la società dell’URSS al collasso.

Con la Cina è diverso. Un anno dopo la vittoria della rivoluzione contadina e nazionale di Mao, che ridistribuì la terra ai contadini e liberò la Cina dal Giappone e dall’ingerenza delle altre potenze imperialiste, le truppe cinesi respingevano quelle di MacArthur in Corea oltre il 38° parallelo al prezzo di centinaia di migliaia di morti. Ma nel 1972, 3 anni dopo le cannonate scambiate tra Cina e URSS sull’Ussuri, Nixon apriva alla Cina di Mao per condizionare l’URSS; gli USA favorirono in seguito la liberalizzazione economica di Deng Xiaoping.

Oggi siamo in un’altra era. Nel trentennio da quando la nuova Cina capitalista è stata battezzata nel sangue degli operai e degli studenti di piazza Tiananmen (1989), con una impetuosa accumulazione al ritmo del 40% del PIL reinvestito ogni anno, la Cina ha moltiplicato la produzione per 14 volte, a fronte del raddoppio americano. Il PIL cinese in dollari correnti è passato da un quindicesimo a quasi tre quarti di quello americano (nel calcolo del FMI a parità di potere d’acquisto l’avrebbe già superato, con il 18% del prodotto mondiale contro il 16% degli USA). Certo, questa quantità è data da una popolazione di 1,4 miliardi, oltre 4 volte quella americana: il PIL pro-capite cinese è poco più di un quarto di quello americano, con una ineguaglianza interna tra ricchi e poveri che non è inferiore a quella USA. Ma trent’anni fa il PIL pro-capite cinese era un trentesimo di quello americano, e ora la povertà assoluta, la fame, è stata eliminata.

In questo periodo la Cina è diventata prima potenza industriale mondiale, primo esportatore mondiale, primo partner commerciale di 110 paesi in tutti i continenti; ha ora le prime quattro banche del mondo per volume d’affari, non per internazionalizzazione ovviamente; e nel 2020 è stata anche la prima potenza capitalista per investimenti esteri – anche se lo stock dei capitali esteri in Cina supera ancora di gran lunga gli investimenti cinesi all’estero. Con la sua infrastruttura moderna e i suoi 4,7 milioni di laureati in materie scientifiche a fronte dei 568 mila americani, la Cina sempre più si spinge in avanti anche nelle tecnologie avanzate, per quanto sia ancora lontana dai vertici delle vecchie potenze; insomma, non è più una “carta” che gli USA o altri possano giocare a proprio gusto (se mai lo è stata), è la potenza che sta contendendo agli USA aree crescenti del mercato mondiale, e che, in prospettiva non lontanissima, potrebbe perfino contendere agli USA l’egemonia economica, finanziaria e politica mondiale.

In questa sua rapidissima ascesa all’interno del capitalismo globale (altro che socialismo!), la Cina di Xi Jin Ping sta seguendo un suo specifico cammino, che tuttavia non può sfuggire, e non sfugge, alle ferree leggi generali di funzionamento del modo di produzione capitalistico, come risulta chiaro già nella tendenza al rallentamento del suo tasso di sviluppo, nella caduta sul lungo periodo del saggio di profitto, e nei primi segnali di pesanti sconquassi finanziari (il caso Evergrande non è il solo). Ma sono proprio questa rapidissima ascesa e la sua prosecuzione anche nella crisi pandemica per le capacità dimostrate dalle istituzioni cinesi nel fronteggiare l’epidemia, a costituire un incubo per gli Stati Uniti e i loro alleati.

Per questo mass media e politici americani e occidentali al seguito hanno spostato il discorso sulla Cina dal “miracolo economico” e dalla Cina come “motore” dell’economia mondiale che ha trainato Stati Uniti e Unione europea fuori dalla crisi del 2008, alla minaccia dell’“espansionismo cinese” che invade il mondo con le sue merci, contraffatte e adulterate, che ruba i posti di lavoro americani, al “totalitarismo” del PCC contrapposto alla “democrazia” di cui sarebbe portatore l’Occidente, alla negazione dei “diritti umani” di Uiguri e altre minoranze, alle condanne a morte che sarebbero più della metà di tutto il mondo, alle colpe della Cina come primo paese inquinatore del mondo (dimenticando che produce per una quantità di multinazionali occidentali), ecc. Ma in bocca ai governi occidentali che hanno nell’armadio gli scheletri del massacro di milioni di uomini donne e bambini nelle colonie, lo sterminio degli “indiani” e le altre popolazioni autoctone delle Americhe, decine di milioni di morti in due guerre mondiali, e poi ancora nelle decine di guerre del “dopoguerra”, tra cui Irak e Afghanistan, distrutti e affamati, le vendite di armi ai regimi schiavisti del Golfo e ai vari Pinochet massacratori e torturatori, il brutale respingimento o costrizione alla clandestinità per milioni di migranti…, suonano chiaramente come pretesti ideologici falsamente etici per la mobilitazione di massa in vista di una nuova guerra.

Già il “pivot on Asia” di Obama segnava lo spostamento del baricentro dell’azione diplomatica e militare USA dall’Europa e dal Medio Oriente al “confronto” con la Cina. Trump ha messo in pratica quella strategia dell’imperialismo americano con le armi della guerra commerciale e tecnologica, mantenute e rafforzate dal democratico Biden: pesanti tariffe doganali sulle esportazioni cinesi, divieto di trasferimento ad imprese cinesi di tecnologie avanzate con uso militare, messa al bando dei campioni tecnologici cinesi, soprattutto del 5G di Huawei, che ha battuto sui tempi i concorrenti americani ed europei.

La guerra dei dazi, finora non seguita dagli altri paesi, non sembra per ora aver colpito più di tanto le esportazioni cinesi (dopo due anni non si è neppure ridotto il deficit commerciale americano). Ma se altri paesi, soprattutto europei, si unissero agli USA nella guerra dei dazi (come avvenne negli anni Trenta del secolo scorso), ne verrebbe sconvolto tutto il sistema mondiale degli scambi regolato dal WTO, chiudendo definitivamente il ciclo di apertura liberista in corso da decenni che ha prodotto la “globalizzazione” dei rapporti sociali capitalistici, e avviando una nuova fase protezionista. Quella di 90 anni fa fu tutt’uno con la grande depressione e preludio alla guerra. L’obiettivo delle misure anticinesi degli USA non è solo di colpirne l’export, ma anche quello di tagliare fuori la Cina dalle catene di fornitura per i prodotti delle imprese americane e degli alleati. Se l’operazione riuscisse, il mondo verrebbe diviso in due “campi”, uno a tecnologia occidentale, l’altro a tecnologia cinese.

La guerra tecnologica, motivata con problemi di “sicurezza” per la stretta vicinanza tra Huawei, fondata da un militare, e lo stato cinese, ha frenato l’adozione della tecnologia Huawei tra i più stretti alleati USA. Anche se la maggior parte dei paesi europei non ha preso una decisione definitiva, Germania, Francia e Italia, tra gli altri, hanno predisposto strumenti legali (collegati alla “sicurezza”) che permettono loro di porre il veto, lasciando per ora la porta socchiusa, mentre il Giappone l’ha bloccata. Invece la maggior parte dei paesi in via di sviluppo, che hanno aderito al progetto cinese della Belt and Road Initiative (BRI), o Nuova Via della Seta, tengono la porta aperta al 5G di Huawei (significativamente anche l’Arabia Saudita e gli Emirati, alleati degli USA ma per i quali la Cina è il maggior cliente del petrolio). E non si tratta solo del “pericolo” Huawei, se è vero che in pochissimi anni anche Xiaomi ha invaso il mercato mondiale diventando il quarto produttore nel campo dei cellulari e dell’elettronica di consumo, un campo che ha comunque legami con la cosiddetta “sicurezza”, cioè con gli apparati militari, di spionaggio e di polizia.

In generale l’Europa resta in stallo strategico, divisa tra gli interessi e le politiche dei diversi gruppi economici e dei diversi Stati, contesa tra l’alleanza con gli USA nella NATO e il (finora) velleitario intento di dotarsi di una politica estera e di un esercito unitari. La Germania, che ha effettuato enormi investimenti in Cina, soprattutto nel settore auto e chimico, e che ha in Cina il mercato principale di alcuni grandi gruppi automobilistici, vuole evitare rotture che sarebbero catastrofiche per la sua economia, ma non può neppure rompere con gli USA, dove le imprese tedesche hanno investito nei decenni quasi 400 miliardi di euro, contro i 90 investiti in Cina; negli USA 900 mila lavoratori lavorano per imprese tedesche, in Cina 770 mila. A fine 2020 la Germania ha spinto per la firma dell’accordo UE-Cina sugli investimenti, dopo 7 anni di trattative, e prima che si insediasse Biden, ma la sua ratifica è ferma al Parlamento europeo e nei parlamenti nazionali, dietro pressione degli USA, e con la motivazione ufficiale della violazione dei diritti umani.

Nelle ultime settimane gli USA hanno rafforzato un altro aspetto della guerra tecnologica: il divieto di investimento da parte di soggetti USA in imprese cinesi che hanno sviluppato tecnologie ad uso militare, soprattutto nell’intelligence: spionaggio, ricognizione, individuazione dei bersagli, ecc. La lista nera sarebbe arrivata a comprendere una sessantina di imprese cinesi, specializzate nell’intelligenza artificiale, cloud computing, riconoscimento facciale, elettronica, biotecnologie; tra queste anche DJI Technology Co., il maggior produttore mondiale di droni. Ovviamente il pretesto è che i prodotti e le tecnologie di queste società sono usati nella sorveglianza degli Uiguri nello Xingjiang (è noto del resto l’appassionato amore degli yankee per le masse oppresse “islamiche”). Gran parte di queste imprese del complesso militare industriale cinese è cresciuta con l’apporto di capitali americani, anche tramite fondi di investimento e venture capital, partecipazioni per miliardi di dollari di cui ora devono disfarsi. Sono stati inoltre posti in una lista nera l’Accademia delle Scienze Mediche Militari e gli istituti di ricerca controllati, che secondo gli Stati Uniti starebbero lavorando al “controllo dei cervelli” (lo sostengono quelli che hanno fatto di Guantanamo un campo sperimentale di tortura fisica e psicologica…).

Un’altra misura della guerra tecnologica anticinese è il veto governativo all’acquisizione da parte cinese di imprese con tecnologie avanzate. Non solo negli USA, anche in Europa. Dopo l’acquisizione dell’impresa tedesca di robotica Kuka nel 2016 da parte della cinese Midea per 4,5 miliardi di euro, che suscitò polemiche, su intervento dell’Amministrazione Obama la Germania ha bloccato l’acquisizione da parte cinese dell’azienda elettronica tedesca Aixtron, che produce microprocessori utilizzati nei missili Patriot.

Anche l’Italia prende ora parte attiva nel “confronto strategico” con la Cina, dopo anni in cui le acquisizioni cinesi di imprese italiane erano state accolte favorevolmente, in quanto apportavano capitali e nuovi mercati. Tra il 2014 e il 2016 era stata acquisita una quota di controllo in Pirelli da parte di China National Chemical, per 7,3 miliardi di euro, e il maggior gruppo elettrico statale cinese e mondiale, State Grid, aveva acquisito il 35% nella finanziaria delle reti elettriche italiane, Cdp Reti S.p.A., che controlla Snam, Terna, Italgas. Shanghai Electric Corporation ha inoltre acquistato il 40% di Ansaldo Energia S.p.A.; quote di Eni, Tim, Enel e Prysmian sono possedute dalla banca centrale cinese; il gruppo biomedicale italiano Esaote è stato acquisito da un consorzio di gruppi cinesi del settore nel 2017, come anche la Candy (elettrodomestici) dal colosso cinese Haier. Non si tratta, però, di un flusso a senso unico, perché le imprese italiane, pur se a parecchie distanze da USA, Germania, Francia e Gran Bretagna, controllano in Cina aziende con oltre 150 mila addetti, contro i 40 mila circa stimati per le acquisizioni cinesi in Italia – numeri da tenere a mente. Il governo Conte I aveva ulteriormente aperto alla Cina, aderendo, unico paese NATO, alla Nuova Via della Seta, con il progetto di investimenti cinesi sui porti di Trieste, Venezia, Ravenna, Genova, Palermo, che è finora rimasto sulla carta.

Il governo Draghi ha cambiato decisamente rotta, accentuando la “fedeltà atlantica” e l’allineamento con la politica USA, anche perché la riapertura di Biden all’Europa rende più convincenti le pressioni americane. Il governo Draghi ha bloccato l’acquisizione di IVECO (veicoli industriali, gruppo FIAT) da parte del gruppo automobilistico cinese FAW, e di un’impresa elettronica da parte di una società cinese; ha inoltre avviato indagini sulla cessione dell’azienda friulana di droni Alpi Aviation avvenuta nel 2018, con l’accusa di aver violato la norma del golden power (ossia del diritto di veto da parte del governo) per la cessione di attività militari. Questo irrigidimento italiano nei confronti della Cina è accompagnato da una sempre più insistente campagna mediatica volta a suscitare sentimenti anticinesi, con capofila la Repubblica, passata al gruppo GEDI controllato dagli Agnelli. L’ultima allerta è stata lanciata domenica 19 dicembre con questo titolone: “La Cina all’assalto degli atenei italiani. I servizi in allarme”.

Lungi da noi difendere il governo e i gruppi capitalistici cinesi, privati o statali, che non diversamente dalle imprese italiane, americane e degli altri paesi mirano al profitto attraverso lo sfruttamento della forza lavoro, con metodi non meno dispotici, e alla conquista dei mercati  – lasciamo assai volentieri questo nobile mestiere a “comunisti” del rango di Marco Rizzo, già coinvolto nella devastazione della ex-Jugoslavia: mai dimenticare!, e ad altri fulminati che riescono a vedere in Xi Jin Ping la reincarnazione del Lenin della Nep. Ma come abbiamo denunciato il sovranismo anti-tedesco e anti-francese degli “Ital-Exit”, così denunciamo il nazionalismo che si vuol suscitare con la campagna anti-cinese, indicando ancora una volta ai lavoratori il “nemico esterno” da combattere per indurli a fare fronte comune con il capitale e l’imperialismo italiano e le sue alleanze economiche e militari. Il nemico dei lavoratori italiani è il capitale che li sfrutta e opprime, è lo stato che garantisce questa oppressione e promuove gli interessi della borghesia sul piano internazionale, anche con mezzi militari. I soli alleati dei lavoratori italiani sono i lavoratori e gli sfruttati degli altri paesi, che hanno il medesimo interesse a scrollarsi di dosso il giogo del capitale. Nel respingere l’unione nazionale contro il nemico esterno, quindi, tendiamo la mano ai lavoratori cinesi per una lotta comune contro il capitalismo e la sua proiezione imperialista, contro i propri governi che la portano avanti.

Questo è tanto più importante e urgente in quanto lo scontro non si limita più ormai ai colpi sul terreno economico, ma vede continue provocazioni militari e un crescente riarmo per preparare nuove guerre vere. Navi da guerra americane e inglesi incrociano regolarmente nel Mar Cinese Meridionale, per soffiare sul fuoco del contenzioso tra Cina, Vietnam, Filippine, Malaysia e Brunei, e sfidano la Cina attraversando lo Stretto di Taiwan in segno di avvertimento, mentre gli USA continuano ad armare l’isola. Gli Stati Uniti hanno inoltre tessuto una serie di alleanze militari in funzione anti-cinese: Quad 1 con Giappone, India e Australia per il Pacifico, Quad II tra USA, India, Israele ed Emirati Arabi Uniti, e AUKUS tra USA, Gran Bretagna e Australia per fornire a quest’ultima 12 sottomarini a propulsione nucleare per affiancare le flotte americane nel contrasto con la Cina.

Se si arriverà o meno alla guerra, ad esempio sulla questione di Taiwan, non è dato sapere, ma non si può escludere. Nella storia l’ascesa di una nuova potenza in grado di contendere l’egemonia regionale o mondiale è stata il più delle volte affrontata con la guerra. Le due guerre mondiali sono state combattute per la successione al dominio della Gran Bretagna, in declino a fronte dell’ascesa di Germania, USA e Giappone. L’imperialismo americano è consapevole che il tempo gioca a favore della Cina, se il suo rafforzamento non sarà fermato. A meno di non riuscire a costruirle intorno un improbabile cordone sanitario di tutte potenze che contano. E se non sarà fermato con i mezzi economici e diplomatici, gli Stati Uniti saranno sempre più tentati di usare gli armamenti, nei quali la supremazia tecnologica americana è ancora assoluta. Ma quale guerra potrebbero scatenare gli Stati Uniti contro la Cina? Non certo una invasione. Sarebbero 10, 100 Vietnam. L’imperialismo americano ha scatenato la guerra in Irak e in Afghanistan, senza riuscire a dominare questi due piccoli paesi, neanche con l’aiuto degli alleati tra cui l’Italia. Le “volenterose” alleanze degli imperialismi occidentali hanno distrutto l’Irak e lasciato l’Afghanistan più povero di 20 anni fa. Né gli USA, né i loro alleati possono pensare di dominare la Cina. Possono, però, pensare e programmare di recarle distruzione e morte in misura sufficiente a farla retrocedere di decenni nella competizione tra potenze capitalistiche sul mercato mondiale. Questi sono i cinici, criminali calcoli che si stanno facendo a Washington e nelle cancellerie alleate di Washington, anche se, diversamente che nelle due guerre mondiali, sia gli Stati Uniti che i paesi che li spalleggiassero nell’assalto alla Cina potrebbero dover pagare un prezzo sul proprio territorio. Il riarmo in corso in molti paesi, per prima l’Italia che in tre anni (2019-’22) ha aumentato le spese militari del 20%, è una scelta di preparazione bellica fatta anche per questo scopo, che va denunciata e combattuta.

L’offensiva anti-cinese sul piano economico e le provocazioni militari vengono a loro volta utilizzate in Cina per suscitare una forte reazione nazionalista tra i lavoratori cinesi. Ed è del tutto evidente, e comprensibile, che quando i capi del PCC e dello stato cinese battono abilmente il tasto dell’anti-colonialismo, trovano dentro il proletariato urbano e tra gli sfruttati delle campagne un orecchio attento – troppo vicino è il “secolo delle umiliazioni”; troppo devastante è stato il suo impatto sull’intero popolo cinese; troppo asfissiante è tutt’oggi, per milioni di operai/e e proletari/e cinesi, il morso dei capitali occidentali, perché possa accadere diversamente. La battaglia contro gli sfruttatori imperialisti del lavoro cinese, le loro mire neo-coloniali e le loro provocazioni militari rientra in pieno nei compiti di lotta essenziali di una classe lavoratrice capace di battersi, in Cina, in autonomia, per la propria liberazione dal giogo del capitale nazionale e globale. Ma questa autonomia verrebbe totalmente meno ove i proletari cinesi si lasciassero intruppare in un “fronte nazionale” alla coda della propria classe capitalistica e del proprio stato. Sarebbe una sventura non solo per i proletari cinesi, bensì per i proletari del mondo intero – come lo sarebbe l’allineamento dei proletari occidentali alla sporca campagna di propaganda anti-cinese che ora impazza sulle due rive dell’Atlantico, ma anche solo la loro indifferenza, l’apparente “neutralità”.

Nessuna indifferenza, nessuna neutralità! E’ indispensabile far partire una denuncia militante, senza se e senza ma, di questa campagna dell’imperialismo occidentale, capitanata da Pentagono e Wall Street, e delle relative politiche anti-cinesi. Come esige l’internazionalismo di classe: a partire dall’opposizione alle politiche del “nostro” subdolo e manovriero imperialismo, così ben incarnato nel governo Draghi e nella sua ampia maggioranza parlamentare, con cui gareggiano in livore anti-cinese i finti oppositori della Meloni. E’ questo il messaggio che i lavoratori più coscienti d’Italia, Europa e Stati Uniti debbono lanciare alla giovane classe operaia cinese per impedire che le masse proletarie dell’Occidente e della Cina vengano mobilitate le une contro le altre.

Il nostro chiamare in causa il proletariato cinese è tutto fuorché di rito. Al pari dei contadini poveri della Cina, protagonisti del più grande complesso di guerre contadine della storia umana, i proletari della Cina hanno una grande storia, che parte dalle loro prime battaglie di fine ‘800 e mette capo alle storiche insurrezioni operaie di Canton e Shanghai nel 1927. Anche dopo la fondazione della Repubblica popolare, la loro presenza sulla scena sociale e politica si è fatta sentire a più riprese. Nel primo periodo della ricostruzione, per rivendicare con forza un miglioramento delle condizioni salariali e di lavoro coerente con la vittoria della rivoluzione democratica. Nella crisi del 1957-’58, quando la loro agitazione pose all’ordine del giorno l’inclusione del diritto di sciopero nella Costituzione, da cui era assente (vi entrerà solo nel 1975) e, con alla testa i siderurgici di Anshan, denunciò la politica delle “due fruste: una d’acciaio e una d’oro” (le punizioni e il cottimo) con cui le direzioni aziendali regolavano il rapporto con gli operai, da veri e propri padroni su schiavi da cui si pretendeva l’obbedienza. Nel primo ventennio di vita della Repubblica popolare la spontaneità operaia raggiunse il suo culmine politico nelle lotte del 1966-’67, quando i portuali di Shanghai (“noi non siamo gli schiavi del tonnellaggio”) ed enormi contingenti di operai dell’industria della stessa città diedero il via ad un moto di scioperi e dimostrazioni di segno anticapitalista che dilagò in tutta la Cina, fino all’effimera, ma vibrante, proclamazione della Comune di Shanghai – da cui Mao ed il suo gruppo presero nettamente le distanze dando il via a quel processo di ricostituzione dell’ordine che ha spianato la strada all’avvento del denghismo. Ma anche la “svolta denghista”, che ha spalancato le porte della Cina al capitale imperialista a spese del proletariato cinese (con alcune misure di auto-tutela solo del capitale cinese e del suo sistema politico), ha ricevuto una massiccia risposta operaia nella primavera del 1989. Il movimento di rivolta degli studenti, in maggioranza su posizioni liberal-democratiche, si tramutò improvvisamente in una gravissima minaccia per l’ordine costituito (non solo in Cina) con la scesa in campo in 341 città di masse operaie capaci di creare una miriade di propri organismi di lotta e, per la prima volta dal ‘49, anche dei sindacati indipendenti, con la volontà di far valere le proprie istanze di auto-difesa contro lo smantellamento delle industrie di stato, l’istituzione delle nuove zone economiche speciali, l’insicurezza dell’occupazione, la nullità dei sindacati di stato, la corruzione dei manager aziendali e dei quadri di partito, e la rivendicazione del potere agli operai, con riferimenti a Marx e Lenin. Questo potente sussulto operaio fu stroncato dai carri armati a Tienanmen e dalla durissima repressione anti-operaia attuata da Deng&Co. nell’interesse del capitalismo globale: “se la Cina è instabile, il mondo sarà instabile; se dovesse scoppiare la guerra civile [cioè la guerra tra capitalisti e proletari/sfruttati – n.] in Cina, nessuno avrà i mezzi per fermarla”. La sconfitta del 1989 è stata molto pesante e disorganizzante. Ma nonostante l’avvio di un trentennio di spettacolare sviluppo economico, già un decennio dopo è ricominciata una molecolare attività di agitazioni operaie contro il super-sfruttamento da parte delle multinazionali straniere lasciate libere (dal potere “socialista”) di imporre condizioni salariali e orari di lavoro da vetero-colonialismo. Un passo alla volta questa incrementale resistenza operaia ha portato alla ribalta, dal 1997 al 2015, le operaie, gli operai, i salariati di Wal-Mart, Honda, Yue Yuen, Adidas, Nike, Nokia, Foxconn, etc., mettendo fine all’“era del lavoro a buon mercato”. In tutti questi conflitti lo stato e il partito, soprattutto a livello centrale, hanno avuto relativamente buon gioco nello svolgere la parte del “benevolo leviatano”, del sovrano illuminato che pone delle regole “eque” anche a tutela dei lavoratori contro le imprese straniere – sempre pronto, tuttavia, a stoppare con ogni mezzo le punte di lotta potenzialmente più pericolose. L’introduzione, a partire dal 2008, di un’articolata normativa sui contratti di lavoro ha incarnato proprio questo piano del Pcc e del governo di incanalare, e depotenziare, i conflitti tra capitale e lavoro entro la prospettiva normativa di “rapporti di lavoro armoniosi”, con un riconoscimento limitato ai diritti dei singoli lavoratori, nel mentre sono rimasti in piedi tutti gli ostacoli alla loro tutela collettiva. Sennonché la doppia crisi del 2008 e del 2020 sta erodendo giorno dopo giorno le reali possibilità di una composizione “armoniosa” dei conflitti di classe.

Le azioni di protesta sono esplose nello scorso decennio, con centinaia di scioperi, blocchi stradali, manifestazioni, sit-in (e anche minacce di buttarsi nel vuoto nelle situazioni di disperazione nei casi di mancato pagamento degli arretrati) soprattutto nelle imprese private cinesi, con frequenti interventi della polizia. Dopo un calo degli scioperi fino a un minimo nel 2020, vi è stata una ripresa nel 2021, soprattutto nelle consegne a domicilio e nei trasporti basati su piattaforme internet, e nel settore edile e del commercio. Ma se fino al 2018 tra le motivazioni delle azioni di lotta era frequente la richiesta di aumenti salariali, negli ultimi anni esse hanno nella quasi totalità carattere difensivo, soprattutto per il pagamento di salari arretrati – un segnale della crisi di molte aziende in questi settori.

E non è a caso che proprio Xi, massimo stratega della grande armonia, abbia dato il via libera lo scorso anno, nel pieno della pandemia, ad una controriforma dal sapore denghista partita dal governo provinciale del Guangdong e da Shenzhen – a protezione delle piccole e medie imprese con capitale in larga prevalenza cinese, questa “riforma” del diritto del lavoro taglia le maggiorazioni sugli straordinari, limita l’incremento dei salari minimi, istituzionalizza la possibilità di ritardare il pagamento dei salari, incoraggiando così le pretese dei capitalisti di ricondurre “alla ragione” una forza-lavoro diventata troppo costosa. Cresce quindi la distanza tra la retorica ufficiale dell’armonia e della Cina società “a media prosperità” e l’intensificazione dello sfruttamento del lavoro imposto dalla caotica sequenza di crisi in corso nel sistema capitalistico globale. Una crescente distanza evidenziata dalle agitazioni dei driver, per ora sparse e senza collegamenti nazionali, ma in singolare sintonia con le diffuse proteste internazionali di questi proletari asserviti agli algoritmi del capitale. Basterà un mercato del lavoro sempre più competitivo, e – davanti alle provocazioni degli Stati Uniti e delle potenze occidentali – basterà un rilancio del discorso anti-coloniale di stato, a paralizzare, a cancellare il proletariato cinese dalla scena mondiale della lotta di classe, riducendolo a semplice massa di manovra della propria borghesia “rossa”? Siamo certi di no, per quanto sia inevitabile, e necessario, che la loro nuova massiccia scesa in campo inglobi in modo autonomo la denuncia dell’imperialismo occidentale.

Lavoriamo, perciò, con decisione e fiducia a creare un fronte comune di classe, anti-capitalista, internazionalista con i proletari europei, cinesi, americani e di ogni altro paese!

22 dicembre 2021 – Tendenza internazionalista rivoluzionaria

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