La tregua armata fra Israele e Hamas

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La decisione del governo israeliano, comunicata il 29 agosto, di impadronirsi di 990 acri di terra palestinese a Gvaot, presso Betlemme, in West Bank conferma il target ultimo dell’aggressione israeliana a Gaza non è Gaza, ma la Cisgiordania. Il rapimento e l’uccisione dei tre studenti israeliani diventa per il ministro dell’economia Naftali Bennett la giustificazione dell’esproprio. Gvaot era stata occupata come presidio militare nel 1984, poi assegnata a 16 famiglie di coloni ebrei e ora se ne vuole ricavare una città (Guardian 1 settembre 2014).
Una parte della destra al governo parla apertamente di annettersi direttamente l’area C della Cisgiordania o addirittura tutta “la Giudea e la Samaria” (cioè le antiche regioni pre-romane che corrispondono all’incirca alla West Bank senza Gerusalemme est). L’idea è che nessun paese (leggi Usa o paesi arabi) oserà ostacolare Israele nel momento in cui il fondamentalismo sunniti, cioè l’ISIS diffonde in Medio oriente il caos in Iraq e Siria, mentre la Libia si sta dissolvendo come stato e il Libano è ancora a rischio guerra settaria. Del resto, al di là delle deplorazioni verbali, nessuno ha ostacolato nemmeno in modo minimo l’attacco a Gaza, durato 50 giorni.
Molti politici israeliani ritengono anche di potersi annettere parte o tutta la Cisgiordania senza trovare reale resistenza fra i palestinesi. Perché, a loro avviso, molti palestinesi sono estremamente delusi dei loro rappresentanti politici, della loro corruzione, delle beghe interne, e di conseguenza, non vedendo alternative, non credono più in una soluzione di lotta. (David P. Goldman The One-State Solution Is on Our Doorstep 14 luglio 14). Buona parte dell’establishment israeliano ha ripreso la provocazione secondo cui esiste già uno stato palestinese, la Giordania, (che un tempo si chiamava Transgiordania), in fondo basterebbe deportare lì i palestinesi dei territori e gli arabi israeliani…

L’annuncio ha anche la funzione di distogliere l’attenzione dai termini della tregua firmata con Hamas. L’accordo sembra soddisfare sia Hamas che Jihad islamica: si prevede un cessate il fuoco illimitato e un patto con Israele per allentare il blocco e permettere il passaggio di soccorsi e dei materiali necessari per la ricostruzione di Gaza. Le questioni più complesse, come la richiesta di Hamas di riaprire l’aeroporto e di avere un porto a Gaza, sono rimandate a ulteriori colloqui. Nell’accordo ci sarebbe inoltre l’apertura dei tre valichi con Gaza (Erez, Rafah e Kerem Shalom) e l’allargamento della zona di pesca per gli abitanti nella Striscia.
Pesante il commento di Abu Mazen: Hamas ha firmato la tregua tardivamente provocando altri morti e distruzioni, Hamas avrebbe nascosto armamenti in scuole e ospedali e ha spesso costretto i cittadini della Striscia di salire sui tetti dei palazzi per proteggerli. <<A Gaza si poteva evitare tutto questo: 2.000 martiri, 10mila feriti, 50mila case danneggiate o distrutte>>.
Abu Mazen esce profondamente logorato dalla crisi così come gli israeliani favorevoli al dialogo, tanto che nel corso dei 50 giorni di scontri ha allontanato i suoi familiari da Ramallah; la condanna di Hamas mentre Gaza era bombardata non gli ha fruttato grandi simpatie e l’annuncio di nuovi insediamenti da parte di Israele è stato uno schiaffo in faccia ai “negoziatori” dell’ANP, trattati come servizievoli idioti dal governo Netanyau.
Hamas per ora tiene in pugno Gaza (chi non è d’accordo viene prontamente giustiziato) e in Israele sembra spadroneggiare la destra estrema guerrafondaia (molti danno infatti Netanyau per spacciato e comunque la sua popolarità è passata dall’82 al 38% secondo i sondaggi dopo l’annuncio del cessate il fuoco – Arabnews 2 settembre 2014)

Ramzy Baroud su Asia Times del 27 agosto afferma, ma è scontato, che il passato e il presente dimostrano il tradimento della causa palestinese da parte degli stati arabi e questo vale in primo luogo per l’ambiguo ruolo svolto dall’Egitto. E mette in relazione l’assordante silenzio dei paesi arabi davanti alla distruzione di Gaza con la paura suscitata dalla Primavera araba nelle elites al potere, corrotte e repressive. In Egitto come nei paesi arabi il cosiddetto “estremismo islamico” è criminalizzato, colpito da numerose condanne a morte in seguito a processi farsa.
C’è un’oggettiva coincidenza di interessi fra Israele e paesi Arabi: ridimensionare Hamas, conservare lo status quo, agire in modo indipendente dagli Usa, dal momento che questi ultimi sono sempre meno interessati a intervenire in Medio Oriente, isolare e controbilanciare l’Iran, con cui Obama ha aperto un canale di dialogo per ora abbastanza virtuale, ma che irrita sia Israele che i sunniti.

E’ facile la tentazione di leggere nei recenti avvenimenti di Gaza come un triste copione già visto.
Cambia il numero dei morti che ogni volta è più alto (in questi 50 giorni 1900 civili palestinesi, di cui 500 bambini, 243 guerriglieri, 64 israeliani, di cui 6 civili) e l’entità delle distruzioni (30 mila edifici, di cui 18 mila abitazioni, 75 scuole, ospedali, officine, fattorie) – cfr Arabs News 2 settembre 2014.

Come nelle altre feroci rappresaglie Israele mostra la sua netta e ovvia superiorità militare, anzi probabilmente sperimenta la sua macchina di guerra nella versione più recente sui civili palestinesi. Hamas viene decimato (dei 243 guerriglieri uccisi almeno un centinaio erano quadri superiori o intermedi – cfr Efraim Inbar BESA Center Perspectives 1 settembre 2014), ma non distrutto. Distruggerlo non è un obiettivo di Israele, servirebbe solo a rafforzare le alternative (Jiad islamica o FPLP, entrambe, come Hamas, aderenti al “fronte del rifiuto”, ma meno compenetrate negli affari e quindi meno utili come interlocutori). Hamas quindi continuerà a rappresentare Gaza e può vantare la tregua e le trattative avviate come una vittoria politica.
Israele, mentre i paesi occidentali guardano a Gaza e valutano che profitto trarre dalla crisi, prosegue la colonizzazione della West Bank. Si è garantito che il solco fra Hamas e ANP sia di nuovo molto profondo e quindi aumenti la sensazione di molti palestinesi di non essere rappresentati da nessuno dei due tronconi. Israele soprattutto si è riportato al centro dell’interesse internazionale in un momento in cui la “guerra del sushi” (i giapponesi non c’entrano, la sigla indica lo scontro fra sunniti e sciiti in inglese) minacciava di renderli marginali.

L’Egitto ha recuperato il ruolo di principale partner di Israele e di mediatore rispetto ai palestinesi, avendo il vantaggio di condividere con Israele il controllo di tutti i valichi e i punti di transito all’esterno di Gaza. Sempre l’Egitto ha imposto che alle trattative fosse presente l’ANP, che sarà anche garante per il valico di Rafah, mentre ha rifiutato la proposta di Kerry di far partecipare alle trattative esponenti della Turchia e del Qatar. Questo ha fatto sì che anche gli Usa fossero marginali nel “processo di pace”: del resto Israele mostra in questi mesi una certa indifferenza ai richiami del governo Obama e Al Sissi non perdona allo stesso governo il blocco del tradizionale contributo annuale statunitense al suo bilancio della Difesa, ma soprattutto l’aperto sostegno a Morsi (cfr Raymond Stock su Diplomatist Magazine agosto 2014) esibito da molti Repubblicani e anche da qualche democratico nel Congresso Usa. Comunque per Al Sissi è una vittoria di immagine aver sponsorizzato l’accordo di agosto, dal momento che la precedente tregua fra Hamas e Israele era stata firmata alla presenza di Morsi nel novembre 2012.
In più Al Sissi ridimensiona temporaneamente il ruolo politico dell’Iran (tornato ad essere il grande finanziatore di Hamas dopo due anni di eclisse in cui i finanziamenti erano prevalentemente provenienti dal Qatar e l’appoggio politico dalla Turchia), impedisce a Erdogan di giocare all’uomo del destino nel Mediterraneo come nel corso del 2012-13 e ribadisce la posizione dura nei confronti del Qatar (i cui giornalisti, inviati di Al Jazeera, sono detenuti nelle carceri egiziane).
Da ultimo Al Sissi il 12 agosto a Sochi ha concluso un accordo di 3 miliardi di $ con la Russia per fornire generi alimentari (frutta e verdura) in cambio di armi (jet da combattimento Mig-29M/M2 Fulcrum, sistemi di difesa anti-missili, elicotteri Mi-35, missili anti-nave, armi leggere e munizioni) e grano, una chiara sfida alle sanzioni Usa ed europee.

L’Europa del “semestre europeo a guida italiana” si è limitata ad appoggiare il cessate il fuoco di marca egiziana. Firmata la tregua l’Europa sta mettendo le mani avanti riguardo alla ricostruzione: in settembre si terrà una conferenza, co-diretta da Egitto e Norvegia, ma molti parlamentari europei hanno già dichiarato che nel quadro di crisi economica gli aiuti non saranno molto generosi. Quindi la parte del leone sarà svolta dagli Usa, ma soprattutto da Turchia, Qatar e Arabia Saudita, come avvenne a suo tempo in Libano. Le distruzioni sono molto maggiori di quelle del 2008 e del 2012 e i costi previsti intorno ai 6 miliardi di $. Ma chi gestirà i soldi? E quanti fondi resteranno attaccati alle dita di chi li gestisce?
Gli Europei si propongono vista anche la grande incertezza che regna sulle decisioni Usa in Medio oriente e verso Israele. Il governo statunitense si è attenuto al copione che lo vede sempre giustificare ogni decisione israeliana come espressione del “diritto di Israele alla autodifesa”. Ha anche confermato una importante fornitura militare a Israele subito dopo lo scandalo del bombardamento della scuola Onu a Gaza. Funzionari Usa hanno criticato, peraltro inascoltati, i nuovi insediamenti. Obama si è attenuto alla linea che “gli Usa non sono “i gendarmi del mondo”. Questo apre degli spiragli per l’intervento europeo: una forza “di pace” europea che garantisca il disarmo a Gaza è ben vista in tutte le cancellerie europee, anche in quella tedesca. Una riedizione delle forze di pace in Libano, in cui anche l’Italia gioca un ruolo di secondo piano. Da tempo gli europei accarezzano la speranza di poter investire in una Gaza pacificata, sfruttandone la manodopera a basso costo e le opportunità geografiche. E’ dubbio però che Israele molli l’osso del controllo sul mare, soprattutto dopo la scoperta di un ingente giacimento di gas al largo della Striscia di Gaza (Arafat nel 1999 ne aveva anche concesso lo sfruttamento , ma la cosa è rimasta del tutto virtuale).

E soprattutto reggerà la tregua? La temporanea riapertura dei valichi è solo una parte dell’accordo; la parte più difficile è rimandata alla fine di settembre, con che esiti non è dato sapere.
Il conflitto ha rovinato la vita di migliaia di persone, ma non ha cambiato sostanzialmente lo scenario (Barak Ravid su Ha’aretz’s 26 agosto 2014). Commenta Reuters “tutti quei morti per nulla”. I termini del cessate il fuoco, secondo Brent Sasley, Università di Arlington, Texas, non sono molto diversi da quelli del 2012, secondo cui in teoria si concedeva più libertà di commercio e movimento agli abitanti di Gaza. Ma così non è stato. E ora la chiusura dei tunnel toglie risorse ad Hamas, che per pagare i suoi dipendenti dipende da donazioni esterne. Sulla carta Hamas ha accettato che sia la ANP a controllare i valichi. Apparentemente una vittoria per Abu Mazel che già nel 2009 si era offerto come garante dopo l’operazione piombo fuso. Ma l’ANP è stata espulsa da Gaza manu militari da Hamas già nel 2007, non ha più punti fermi a nella striscia, può giusto fare il questurino debole della situazione. Hamas ha nei giorni scorsi giustiziato 19 presunti “collaboratori” di Israele, un messaggio chiarissimo. Gli auspici per il presunto “nuovo ruolo pacificatore” dell’ANP non potrebbe essere peggiore.

E’ improbabile a breve termine che cambi qualcosa nel panorama politico di Gaza, ed ancora più improbabile che le varie leadership palestinesi trovino un accordo per gestire la tregua. E’ possibile che le manifestazioni di giubilo registrate a Gaza dalle televisioni fossero autentiche, magari di orgoglio per la propria capacità di resistenza o di sollievo per essere ancora vivi, ma resta il fatto che facili vie d’uscita non ci sono.

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